Dio ci cerca anche quando non ce ne accorgiamo

La testimonianza di Francesco Cecere, soprannumerario dell'Opus Dei, da più di vent'anni psichiatra, esperto dei disturbi dell'alimentazione.

"Ancora oggi sulla mia professione, c'è una grande confusione , alimentata anche da molti miei colleghi che si propongono come tuttologi o come curatori di anime". Francesco Cecere sposato con due filgi, soprannumerario dell'Opus Dei, psichiatra da più di 20 anni specializzato nei disturbi del comportamento alimentare, ci racconta del suo lavoro e di come gli insegnamenti di san Josemaría abbiano influito sulla sua vita.

In cosa consiste il lavoro dello psichiatra?

Chi fa il mio mestiere si occupa innanzitutto di persone, di persone che soffrono e anche di chi sta vicino a loro. Ormai da molti anni mi occupo prevalentemente di ragazze e ragazzi che sono alla ricerca di un senso per la loro vita e specialmente per la loro sofferenza. Mi occupo anche dei loro genitori, per evitare che sentendosi giudicati e condannati, smettano di lottare e sperare. Il mio lavoro non propone soluzioni buone per tutti, preconfezionate. Non ho un libro delle soluzioni, semplicemente cerco di stare vicino alle persone mentre cercano di venir fuori da situazioni difficili.

Chi si rivolge a lei?

Le persone che si rivolgono a me soffrono perché hanno smarrito la loro identità o perché non l’hanno mai trovata. Nei casi più gravi, come chi soffre di schizofrenia o di disturbo di personalità multipla, l'identità è frammentata, spezzettata. Anche le anoressiche pensano che essere magre possa risolvere il problema di avere un'identità: "sono un corpo magro". La sofferenza nasce dall'accorgersi che non è così.

Come li aiuta?

Cerco di parlare con ogni persona nel linguaggio che può capire, cerco di aiutarla a trovare la sua identità. Non posso imporre a nessuno una certa identità che a me sembra migliore di un'altra, è una cosa senza senso. Sono convinto di non aver mai "guarito" nessuno in vita mia. La mia funzione è essere uno specchio in cui la gente si riflette e guardando la sua immagine riflette su se stessa. Certo uno specchio "intelligente" che si interroga e interroga l'altro su cosa sia meglio per lui o per lei a prescindere da quello che penso o da quello in cui io credo. All'inizio l'immagine è molto confusa, poi diviene sempre meno sfocata, più chiara e delineata. Questo è il mio lavoro e niente di più.

Che cosa l’ha colpita dello spirito dell’Opus Dei?

Dell'insegnamento di san Josemaría mi hanno colpito fondamentalmente due cose: l'aver rimesso al centro la filiazione divina, e, in secondo luogo, l’aver spiegato che non si può avere una doppia vita: la fede va vissuta negli impegni di tutti i giorni. Essere figlio di Dio vuol dire innanzitutto avere chiara la propria identità. Non posso più dire: "non so chi sono e cosa ci sto a fare a questo mondo”. Ogni giorno devo cercare di capire cosa vuole Dio da me: ho la libertà di corrispondergli o meno, ma so sempre dove andare e cosa fare. San Paolo quando parla dell'importanza della carità ce lo insegna. Cosa è la carità se non la corrispondenza all'amore gratuito di Dio? Tutto il resto è solo una conseguenza del riconoscimento della paternità di Dio. Una Paternità infinita: a prescindere dal fatto che noi figli ce ne accorgiamo o no, Dio è lì costantemente alla ricerca del nostro amore.

Questo come influisce sulla vita di tutti i giorni?

L'essere deve venire sempre prima del fare. Alcune persone pensano che essere cristiani voglia dire fare cose. Il fondatore dell’Opera, invece, amava ripetere: "Orazione, mortificazione e dopo, solo dopo azione". Dicendo così ribadiva come la vita di fede di basa anzitutto sulla consapevolezza di essere figlio di Dio in dialogo con il Padre (orazione), desiderio di corrispondere alla sua chiamata rinunciando a se stessi (mortificazione) e solo dopo, molto dopo, azione.

E l’unità di vita?

La vedo profondamente legata alla filiazione divina. L’unità di vita non è solo lo sforzo che ognuno di noi fa per tenere insieme i vari pezzi cercando di incollarli alla bene e meglio. Essa è piuttosto il risultato dell'accettazione della nostra identità di figli di Dio e la sua traduzione nella vita di tutti i giorni. Mi piace pensare che se qualcuno facesse una fotografia, il cristiano (e in particolare un fedele dell'Opera) sarebbe indistinguibile dagli altri soggetti fotografati; se invece si facesse un filmino, abbastanza lungo, il cristiano dovrebbe essere ben riconoscibile: si noterebbe come ogni più piccola azione della sua vita sia mossa dal suo costante riferimento a Dio.