“Una persona minorata non è una persona fuori uso”

Joaquín Romero è un barcellonese di 41 anni che da circa 18 anni vive sulla sedia a rotelle a causa di una sclerosi multipla: “Secondo me, la mia vita è un miracolo, una carezza di Dio”.

Voleva sapere la verità, senza sotterfugi. Quando, quasi venti anni fa gli fu diagnosticata una sclerosi multipla – una malattia incurabile, progressiva e degenerativa -, pretese che gli spiegassero esattamente che cosa doveva aspettarsi dal futuro: “Potresti diventare tetraplegico, cieco, muto e paralitico; ma la cosa peggiore è che, se tu non riuscissi ad accettare quella che è soltanto una malattia psicosomatica, essa finirebbe con l’interessare la psiche”.

Joaquín Romero ha 41 anni e da circa 18 anni vive sulla sedia a rotelle. Non può camminare, il braccio sinistro è quasi inerte, vede a stento, gli costa respirare e la testa gli ciondola. Quando si è reso conto di non potersela cavare da solo, ha deciso di ristrutturare la sua casa e, con l’aiuto del fratello Borja, ha avviato un’attività che si propone di aiutare le persone minorate come lui. Loro due, un architetto tecnico e un ingegnere. E hanno creato la B&J Adaptaciones, che è oggi in Spagna l’unica iniziativa del genere; grazie ad essa, Joaquín ha potuto parlare con molte persone e le ha aiutate... “da sedia a sedia”, come lui stesso dice. Pur essendo pienamente cosciente della propria situazione, il pessimismo non gli si addice e non esita a definire la situazione in cui si trova “un miracolo, una carezza di Dio”...

Un giorno, mentre giocavo a calcio con gli amici, mi venne di sparare una cannonata con il collo del piede e a quel punto cominciai a sentire come migliaia di formiche per tutto il corpo; poi cominciai a vedere doppio e allora andai dal medico."

Avrò avuto 22 o 23 anni. Avevo programmato ogni cosa: avevo già fatto il servizio militare e avevo studiato quello che mi piaceva, architettura tecnica... Già mi vedevo sulle impalcature a dirigere i lavori. Mi piaceva anche il calcio. Un giorno, mentre giocavo con gli amici, mi venne di sparare una cannonata con il collo del piede e a quel punto cominciai a sentire come migliaia di formiche per tutto il corpo; poi cominciai a vedere doppio e allora andai dal medico.

Che cosa ti disse?

Allora pensavo che gli psichiatri e roba simile fossero una cosa assurda; e mi portarono da un neurologo. Chi era costui? Non lo avevo mai interpellato. I miei schemi si cominciavano a incrinare. Io mi aspettavo che mi prescrivesse medicine e che tutto finisse lì. “No, no, Joaquín – mi disse -. La sclerosi è incurabile”. “Bene, allora cercherò di convivere con essa”, gli dissi, non avendo la più pallida idea di quello che mi aspettava. “Si tratta di una malattia progressiva e degenerativa: non è una gara di velocità, ma una maratona. Dovrai essere ben preparato, dovrai dosare le tue energie; niente grandi falcate, ma un passo dopo l’altro”.

Che cosa hai fatto? Che cosa hai pensato?

"Solo ora ho cominciato a intuire appena un po’ dello straordinario valore che si nasconde dietro questa malattia."

Non lo so. Ancora non mi ero reso ben conto di quello che mi stava succedendo. Quello che mi accadeva, per me, era assolutamente inconcepibile. La mia condizione di “cerebroleso” mi induceva a voler tenere tutto nascosto, cosa chiaramente impossibile. Grazie a Dio ero da alcuni anni nell’Opus Dei e lì ho sempre avuto qualcuno al quale confidare e raccontare i miei problemi. Avevo la sensazione che ogni cosa nuova che mi succedeva fosse molto grave. Io ne parlavo e loro mi ascoltavano; poi andavamo a bere qualche bicchiere di vino vicino al mare – sono un appassionato del mare - e, con questa scusa, ho fatto la conoscenza di tutti i chioschi della costa barcellonese...

Ma così le cose non si risolvono…

Non si risolvono, ma riesci a inquadrarle un po’ meglio. Spesso il grande problema delle persone colpite da questa malattia è che si bloccano per sciocchezze, che si possono chiarire in pochi minuti. Il medico me lo aveva detto chiaramente, perché io volevo sapere esattamente come comportarmi. Sono malato, ma non scemo. Potrei diventare tetraplegico, cieco, muto o paralitico; ma la cosa peggiore era che i guai fisici si estendessero al piano psichico ed entrassi in depressione.

Per questo non ti sei arreso?

Proprio così. È per questo che, quando ho capito che se non facevo qualcosa non avrei più potuto cavarmela da solo, mio fratello Borja ed io abbiamo adattato la mia casa in modo che io potessi controllare tutto dalla sedia, dal letto o dal computer. È stato così che ha avuto inizio in poco più di 30 metri quadrati, un’impresa – unica in Spagna – che architetta, adatta e trova soluzioni alla vita di migliaia di minorati che hanno problemi simili, peggiori o uguali al mio. Il bello è che io posso parlare ai miei clienti da sedia a sedia...

Avrai visto molto dolore...

"Ricordo un cliente che venne da me e mi disse che voleva siucidarsi...mi misi nella sua situazione, parlammo di molte cose e di quanto è bello vivere".

Un giorno mi ha telefonato una signora per chiedermi una soluzione per il marito che era malato. Le ho detto che ci avrei pensato. Poco tempo dopo l’ho chiamata al telefono, ma non era in casa. Era andata al funerale del marito...

Da allora ho fatto il proposito di non sprecare neppure un secondo della mia vita per aiutare chi si fosse rivolto a me. Certe volte viene un cliente e ti domanda il tuo parere su certe macchine e alla fine ti chiede: “E tu, che cosa fai?”. “A che proposito?”, gli chiedo. “Tu, come tolleri questa situazione?”.

E tu, che cosa gli dici? Si può amare il dolore?

No. Per se stesso, no. Il dolore non ha alcun senso: il senso lo devi cercare tu. Io vi dico la verità; quello che sento e quello che vedo. Vi dico che sto attraversando uno dei momenti migliori della mia vita, perché solo ora ho cominciato a intuire appena un po’ dello straordinario valore che si nasconde dietro questa malattia. Il dolore è un mistero, certamente; non nasciamo con un manuale sotto braccio, nel quale è spiegato: numero uno, come sopportarlo; numero due, che cosa si può fare quando dura più di due settimane... Come sarebbe facile se lo sapessimo! Siccome Dio ci ha fatti liberi, lascia a noi l’opportunità di scoprirlo... “Che Padre ingiusto!”, potresti pensare. Questa è la reazione più facile. Perché, invece, non dare la colpa a te stesso? Non credo che a Dio manchino intelligenza e intuizione,. Forse mancano a te; allora domandati perché non lo capisci e avvicinati a Lui attraverso i Sacramenti...

Questa, però, è una soluzione per quelli che credono...

Che cosa ti aspettavi che ti dicessi? Che avevamo formato un gruppo di mutuo soccorso, dove riunirsi e lamentarsi a gran voce di quanto è malvagia la società, di quanto è difficile la nostra situazione...? No. Ti posso dire soltanto una cosa: non sono un esperto di teologia, ma che io sappia la teologia non ha mai spiegato come si possa vivere felici nel dolore...; io, invece, ci sono riuscito. E non sto scherzando. In termini di salute, io ho perduto tutto; ma c’è una cosa che non ho mai perduto, ciò che ho dentro e che mi dà una grande pace: la certezza di sapere che quello che ho scelto – sul quale ho scommesso –, funziona. Se ritorno indietro negli anni, non ricordo di essere stato mai tanto bene come ora. Ne ho fatto esperienza quando ero ancora sano, quando giocavo a calcio, quando stavo con gli amici, quando studiavo, e studiavo molto, ...e tutto funzionava. Continuo a servirmene anche adesso che sono malato..., proprio oggi che sono caduto per la strada e mi sono beccato un colpo in testa. Potevo farmi male..., ma io continuo a essere contento. Secondo me, la mia vita è un miracolo, una carezza di Dio. Può sembrare una sciocchezza, una ironia, una pazzia..., ma no. Questo non è opera di un uomo. Un uomo non è capace di avere un’immaginazione tale da inventare una cosa tanto complessa come tutto ciò che ti sto raccontando. No: questo lo sa fare e lo può fare soltanto Dio.

Non hai avuto mai nessun momento di disperazione, la tentazione di dire “basta”? Siamo anche di carne e ossa!

Sì, certamente. Molti momenti nei quali pensavo che Dio si stesse accanendo contro di me e che io ormai avevo toccato il fondo... Ricordo un cliente che, dopo le domande “commerciali” pertinenti, mi ha detto che voleva suicidarsi. Io gli dissi che qualche volta ci avevo pensato anch’io e cominciai a spiegargli il mio “piano”. Un “piano di suicidio” perfettamente elaborato: vado alla fermata attrezzata del metro che ho vicino casa, pago, mi avvicino al marciapiedi, mi preparo ad azionare il joystick della sedia e... È tutto molto facile! A questo punto, quando ormai l’ho del tutto ammaliato, do una sterzata e riprendo il discorso: “Ma non ti sembra più bello lottare per la vita?”.

C’è gente che dice che l’eutanasia è una soluzione.

"Quando arrivo in Cielo mi metterò in ginocchio – perché là mi sarà possibile – e gli dirò: “Dio mio, è incredibile. Hai fatto un grande ricamo della mia vita.”

Chi lo dice? Il malato o quelli che devono assistere i malati? Costoro, se veramente amano il malato, non possono limitarsi semplicemente a suggerire una “soluzione”. Sarebbe un ingiusto egoismo. Hanno l’obbligo di constatare che le possibilità sono molte. Non si può risolvere un problema così importante semplicemente con la “buona morte”. Se hai sentito dire, sia pure da lontano, che qualcuno ha una soluzione, devi scoprire di che si tratta. Se vuoi realmente bene al malato – se lo ami veramente -, devi fare tutto il possibile...

E se è lo stesso malato a chiederlo?

In questo caso mi devo mettere ancora di più al suo posto. Bisogna parlargli a tu per tu. Gli direi: “Non pensare di essere diventato una cosa inutile, una sanguisuga..., no. Tutto il contrario, amico mio...: ti è data l’opportunità di far vedere lo straordinario valore che nasconde il dolore. È una missione”. È importante che la gente capisca che una persona minorata non è una persona fuori uso.

Tutto questo l’hai scoperto dalla sera alla mattina?

No, no! Come fare, forse, si trova nel manuale di cui ti parlavo... A quindici anni neppure mi passavano per la mente queste risposte. Sono cose che ho maturato col tempo e che ora considero più chiaramente..., ma da allora sono passati oltre venti anni! Il Joaquín Romero di ora non ha nulla a vedere con quello di allora. Se vuoi, è più radicale..., ma ha un cuore immenso.

Che cosa diresti a Dio, se dovessi arrivare in Cielo?

Lo ringrazierei e gli darei un gran bacio. Un grazie e un bacio molto grande per la vita che mi ha dato; oltretutto perché non avrei desiderato una vita diversa. Desidero quello che Egli ha voluto. Se avessi un cappello, me lo toglierei. Mi metterei in ginocchio – perché là mi sarebbe possibile – e gli direi: “Incredibile. Hai fatto un grande ricamo della mia vita”.

    Mundo Cristiano.- Jaume Figa i Vaello