Sì, ci ho messo vent’anni…

Antonio Tommaso, consulente informatico presso un ente pubblico, ricorda il lungo percorso che lo ha portato a rispondere affermativamente alla vocazione all’Opus Dei.

Quando conobbi l’Opus Dei, a metà degli anni ’80, ero apprezzato dai miei parenti e dai miei amici. Avevo un buon rendimento scolastico, buone attitudini relazionali, fiducia nel futuro e nelle mie capacità. Mi sentivo in grado di sostenere le mie speranze con i miei talenti e i miei sforzi personali.

Andai a studiare ingegneria a Roma e scelsi di abitare alla RUI, una Residenza universitaria la cui direzione spirituale è affidata all’Opus Dei, ma io inizialmente non ci avevo fatto molto caso.

Alcune persone cominciarono a invitarmi agli incontri di formazione cristiana che si tenevano periodicamente nella Residenza. Durante questi incontri, e anche attraverso le relazioni di amicizia che nascevano con alcuni residenti, cominciai a comprendere il significato della mia vocazione cristiana. Ciò comportò conseguenze inattese perché le mie speranze del passato sembravano perdere di fondamento. Avevo minori certezze. La mia fede, fatta di cerimonie e di parole, sembrava dover rinascere su nuove basi. Dovevo cambiare, non potevo più essere quello di prima, un cristiano da week-end. Ma volevo davvero essere così? Ero capace, con i miei talenti e i miei sforzi personali, di perseguire tali obiettivi? E chi mi stava accanto, i miei parenti, i miei amici, la mia fidanzata, avrebbero compreso tutto questo?

La situazione si complicò quando cominciarono a parlarmi di una possibile vocazione all’Opus Dei. In questo caso tuttavia riuscii a trovare un modo per non complicarmi la vita che appagasse la mia intelligenza. Mi dicevo: se un fedele dell’Opus Dei è un comune cristiano, se le esigenze di vita di un comune cristiano sono le stesse di quelle di un fedele dell’Opus Dei, se la vocazione universale alla santità è predicata da tutta la Chiesa, confermata anche dall’ultimo Concilio, perché un comune cristiano deve far parte dell’Opus Dei? Ero molto soddisfatto delle conclusioni a cui ero giunto, tanto soddisfatto da porre questa domanda a un membro dell’Opus Dei, un professionista assai valido, l’ing. Poles, che oggi è in Cielo, il quale un giorno fu invitato in Residenza come ospite. La risposta che ricevetti fu sorprendente. Mi invitò a ricordare l’incipit del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio …”. È il Vangelo che si legge il giorno di Natale, il Vangelo che spiega ciò che avvenne nella grotta di Betlemme e a Nazaret. La storia di Maria, di Giuseppe e del Bambino. Voleva dirmi che il Verbo vuole farsi carne ogni giorno, che l’Incarnazione non è un fatto del passato … è un atto da perpetuare e non da commemorare o da ammirare. Voleva parlarmi del mio “cammino divino sulla terra”, per usare un’espressione cara a san Josemaría. Tutto questo lo compresi molto tempo dopo.

Vent’anni dopo, a quarant’anni, mi decisi a diventare un membro soprannumerario dell’Opus Dei. Ero tornato a lavorare da poco tempo a Reggio Calabria, che è la mia città, dopo avere sposato Maria Stella, la mia fidanzata di allora. Ho una figlia di 7 anni, Silvia.

Che cosa è successo in questi vent’anni? Tante piccole cose che è impossibile raccontare. Alcuni miei amici residenti continuarono a scrivermi e a venirmi a trovare. Conobbero mia moglie e mia figlia e divennero persone di famiglia.

È successo altro? Sì. Qualche tempo fa telefonai a una persona che vive in un centro dell’Opus Dei di Milano. Volevo chiedere informazioni sulle attività formative della Prelatura in una città del nord Italia e un mio amico mi disse che questa persona poteva aiutarmi. Lo chiamai al telefono e mi presentai a lui, perché pensavo di non conoscerlo. Mi rispose così: “Ciao Antonio, io ti conosco, abitavo a Roma vent’anni fa e venivo a studiare alla RUI. Ho tanto pregato per te”. Devo ammettere, ricordare questo episodio mi commuove sempre. Ecco che cosa è successo in questi vent’anni: tante persone, alcune delle quali io avevo dimenticato, hanno pregato per me.

Mi occupo, con mia moglie e miei amici, di promuovere iniziative a sostegno della famiglia. Non sono iniziative confessionali perché la bellezza e l’utilità sociale del matrimonio può essere compresa anche da chi non ha il dono della fede. Soltanto un matrimonio felice può essere via di santità, ma non si è felici per caso e non esistono ricette che vadano bene per tutti. Queste iniziative a sostegno della famiglia sono anche occasione per stare più tempo con mia moglie, visto che lei e io facciamo professioni molto differenti e spesso ci vediamo a casa soltanto la sera.

Il presente è pieno di sfide per il cristiano. Oggi l’ambiente non produce modelli di comportamento fondati sulla legge naturale ma piuttosto su logiche utilitaristiche. Non ci si aspetta più molto dagli altri, neanche dai propri figli. Questa perdita generale di autorevolezza nelle nostre città piene di simboli religiosi ci insegna qualcosa che i primi cristiani sapevano bene: il processo di evangelizzazione non si può industrializzare, va fatto “artigianalmente” … a tu per tu. Bisogna aiutare persone e famiglie a prendere coscienza del significato della loro libertà, aiutarle a inseguire desideri di perfezione, aiutarle a vivere la loro personale esistenza come un viaggio avventuroso in un’epoca di viaggi organizzati, convincerle a fidarsi di Dio. A proposito, cosa significhi fidarsi di Dio me l’ha insegnato mia figlia. Adesso ha 7 anni e, quando usciamo di casa, mi chiede: “Papà, dove andiamo?”. In passato non era così. Mi prendeva per mano e non faceva domande. La mia mano le bastava. Si fidava di me.

Con il mio lavoro professionale contribuisco – almeno lo spero – a creare una società più giusta e più umana. Certo è difficile, gli sforzi dei singoli sembrano non servire a nulla. Viviamo giorni in cui, come preconizzava san Tommaso Moro, il vizio è premiato e la virtù è punita. Un ricordo d’infanzia mi aiuta a dare importanza alle cose che faccio. Quando ero bambino mi piaceva guardare in TV i documentari sugli insetti. Ricordo quelli sulle formiche, le stesse formiche che calpestavo con i miei compagni di gioco. La telecamera inquadrava il loro lavoro a tutto schermo e il documentarista prestava attenzione a ogni loro movimento, aveva qualcosa da dire su ogni loro mossa. Osservandole con occhio diverso, dava importanza ad attività che a me, che le calpestavo, non dicevano nulla. Ecco, che cosa dà rilievo al nostro lavoro: il fatto che Dio lo stia a guardare con occhio d’amore. Me ne ricordo sempre a Messa, durante l’Offertorio. È il momento in cui divento importante!