Riportiamo di seguito il testo completo della conferenza del Prelato.
È per me motivo di gioia essere qui, oggi, in occasione del 50º anniversario dell’avvio delle attività dello IESE a Madrid. Gioia, nel vedere lo sviluppo di un’iniziativa che ha aiutato tante persone a crescere nella loro professionalità e a scoprire il significato profondo (sociale, cristiano) del lavoro, una realtà molto cara a san Josemaría e centrale nei suoi insegnamenti. Proprio su alcuni suoi testi mi concentrerò principalmente in questo intervento.
Avete creato una delle scuole di direzione aziendale più prestigiose del mondo. Vorrei incoraggiarvi a puntare, oltre che ai successi esterni, riconosciuti dai ranking delle principali scuole di direzione aziendale, anche ad altri successi interni, che hanno un valore ancora maggiore per ciascuno di voi nella prospettiva cristiana. Compatibili con i successi e gli eventuali insuccessi professionali, essi sono frutto del lavoro ben fatto, per amore.
Per i successi interni conta non solo che cosa facciamo e con quali risultati, ma anche come lavoriamo e perché. È proprio attraverso i successi interni che l’impatto di questa scuola potrà arrivare ancora più lontano.
Realtà e valore umano del lavoro
Come diceva san Josemaría: «Il lavoro è testimonianza della dignità dell'uomo, del suo dominio sulla creazione; promuove lo sviluppo della sua personalità, è vincolo di unione con gli altri uomini, fonte di risorse per sostenere la propria famiglia, mezzo per contribuire al miglioramento della società in cui si vive e al progresso di tutta l'umanità» [1].
San Josemaría parla qui del perché del lavoro in generale. Il perché del vostro lavoro si riflette nella missione dello IESE: formate «leader che aspirano ad avere un impatto profondo, positivo e duraturo sulle persone, le imprese e la società, grazie all’eccellenza professionale, alla rettitudine e allo spirito di servizio».
Raggiungendo questo obiettivo così entusiasmante si arriva davvero al cuore stesso della società. Migliorerete il mondo dal di dentro. Infatti, potete perseguire questo nobile fine in tutte le vostre attività, non solo in quelle di maggior peso strategico. Qualsiasi lavoro può avere un grande valore dal punto di vista interiore.
Già nell’ordine naturale, la dignità del lavoro dipende non tanto da ciò che si fa, quanto da chi lo fa, cioè dall’uomo, che è un essere intelligente e libero [2].
La dignità naturale del lavoro risiede nella dignità spirituale della persona umana, e sarà maggiore o minore in funzione della qualità o bontà maggiore o minore di quel lavoro in quanto azione spirituale. Tale valore dipende essenzialmente dalla libertà: dall’amore inteso non come passione o sentimento ma come dilectio, l’amore elettivo del fine che è l’atto proprio della libertà [3].
Come spiegava Juan Antonio Pérez López, si tratta di coltivare in noi stessi e nelle persone che guidiamo le motivazioni trascendenti: il proposito di servire bene i destinatari del nostro lavoro, la relazione con le persone, il coinvolgimento nella mission aziendale. Questo è, in larga misura, ciò che stimola a servire di più e meglio, ed è compatibile con il raggiungimento dei risultati strategici di cui le imprese hanno bisogno e con lo sviluppo, da parte delle persone che devono operare, delle competenze richieste.
Anche in questo contesto risultano molto illuminanti, e certamente esigenti, le seguenti parole di san Josemaría: «Non bisogna pertanto dimenticare che tutta la dignità del lavoro è fondata sull'Amore. Il grande privilegio dell'uomo è di poter amare, trascendendo così l'effimero e il transitorio. L'uomo può amare le altre creature, può dire un tu e un io pieni di significato. E può amare Dio, che ci apre le porte del Cielo, ci costituisce membri della sua famiglia, ci autorizza a dar del tu anche a Lui, a parlargli faccia a faccia».
In altre parole, siamo fatti per l’Amore, e il lavoro è una delle piattaforme su cui l’Amore può crescere in noi e nella società. In ciò consiste buona parte della vocazione del cristiano nel mondo, nella società. «L'uomo, pertanto, non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall'amore, manifesta l'amore, è ordinato all'amore» [4].
Mi è giunta di recenteuna storia ispiratrice, pubblicata molti anni fa dalla rivista Forbes, che illustra quel nesso umano, quell’amore manifestato mediante il lavoro. L’ha scritta un’infermiera del pronto soccorso di un ospedale americano, che fu testimone di un sorprendente atto di leadership.
«Erano circa le 22:30. La stanza era un disastro. Stavo finendo di aggiornare la cartella clinica prima di andare a casa. Il medico con cui mi piaceva tanto lavorare stava formando un giovane collega che aveva lavorato con competenza ed efficacia, spiegandogli che cosa aveva fatto bene e che cosa avrebbe potuto fare in modo diverso. Poi gli mise una mano sulla spalla e gli disse: “Quando hai finito, hai visto il giovane ausiliare che è entrato per pulire la stanza?”. Il collega lo guardava senza capire.
Il medico più anziano continuò: “Si chiama Carlo. Lavora qui da tre anni. Fa un lavoro straordinario. Quando entra, pulisce la stanza così rapidamente che tu ed io possiamo occuparci quanto prima dei nostri pazienti. Sua moglie si chiama Maria. Hanno quattro figli”. Poi nominò ciascuno dei quattro bambini e ne indicò l’età.
Il medico più anziano proseguì dicendo: “Vive in affitto a circa tre isolati da qui, a Santa Anna. Sono arrivati dal Messico cinque anni fa. Si chiama Carlo”, ripeté. Poi aggiunse: “La prossima settimana mi piacerebbe che mi raccontassi qualcosa di Carlo che io non sappia già. D’accordo? Ora andiamo a vedere come stanno gli altri pazienti”». L’infermiera ne fu colpita e, in seguito, spiegò: «Ricordo di essere rimasta piantata lì, sbalordita, a scrivere le mie note infermieristiche, e di aver pensato: ho appena assistito a un esempio impressionante di leadership».
A volte si può perdere di vista questo stile quando si guarda al lavoro solo nella prospettiva della competizione con altre imprese per ottenere maggiori profitti, invece di pensare a servire le persone con attenzione e con premura, con amore.
Naturalmente, le imprese non possono perdere di vista la strategia né il profitto, che sono indici di un servizio di qualità offerto in modo responsabile ed efficiente. Ma altrettanto importanti dei risultati economici, se non di più, sono l’amore per il lavoro e l’amore per le persone.
Il suo valore soprannaturale: la santificazione del lavoro
«Per il cristiano, queste prospettive si ampliano. Il lavoro appare infatti come partecipazione all'opera creatrice di Dio, il quale, avendo creato l'uomo, gli diede la sua benedizione: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (Gn 1, 28). Inoltre il lavoro, essendo stato assunto da Cristo, diventa attività redenta e redentrice: non solo è l'ambito nel quale l'uomo vive, ma mezzo e strada di santità, realtà santificabile e santificatrice» [5].
Che cosa significa santificare il lavoro?
Consideriamo due aspetti fondamentali, strettamente connessi, sui quali il Fondatore dell’Opus Dei si è soffermato innumerevoli volte. Anzitutto, è evidente che la dimensione soprannaturale del lavoro non è semplicemente giustapposta a quella umana e naturale: l’ordine della Redenzione non aggiunge niente di estrinseco a ciò che il lavoro è già, in sé, nell’ordine della Creazione. È la medesima realtà del lavoro umano a essere elevata all’ordine della grazia. Santificare il lavoro non significa “fare qualcosa di santo” mentre si lavora, ma rendere santo proprio quel lavoro.
Il secondo aspetto, inseparabile e, in un certo senso, conseguenza del primo, è che il lavoro santificato è santificante: l’uomo può e deve santificarsi e contribuire alla santificazione degli altri e del mondo non solo mentre lavora, ma proprio mediante il lavoro, svolgendolo bene a livello umano e servendo le persone per amore di Dio.
Lavorare con spirito cristiano deve preparare il mondo a riconoscere meglio Dio e contribuire così anche alla sostenibilità, alla pace, alla giustizia sociale. «Occorre peraltro – ricorda Leone XIV – adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società» [6].
Ancora, come spiegava san Josemaría, c’è una relazione necessaria tra la santificazione del lavoro e la riconciliazione del mondo con Dio: «Unire il lavoro con la lotta ascetica e con la contemplazione, che può sembrare impossibile e invece è necessario per contribuire a riconciliare il mondo con Dio, e trasformare il lavoro ordinario in strumento di santificazione personale e di apostolato non è forse un ideale nobile e grande, per il quale vale la pena dare la vita?» [7].
Possiamo vivere questo ideale nobile e grande nel lavoro, qualunque esso sia, tenere sempre viva la prospettiva del servizio alla società, “A world to change”, come dite nella vostra comunicazione. Mi fa piacere vedere che nel vostro programma parlate di una leadership benefica per le persone, per le imprese e anche per l’insieme della società.
Il mondo dell’impresa può fare del gran bene alla società, anche se è vero che non tutto ciò di cui la società ha bisogno può essere realizzato grazie alle imprese, che si limitano necessariamente a offrire un servizio circoscritto e specifico: generare profitti secondo la loro finalità.
Servono anche Stati, comunità e famiglie responsabili. Nella formazione che offrite, impegnatevi a incidere su tutta la persona, compresa la dimensione spirituale, affinché a partire da persone ben formate possiamo contribuire a servire la società in tutte le sue componenti. Sarà questo il frutto della santificazione del vostro lavoro fatto bene, per amore.
Per trasformare il mondo, dobbiamo cominciare da noi stessi e far spazio a Dio nella nostra vita, in particolare nel lavoro. Ci sono alcune parole ben note del Fondatore dell’Opus Dei che racchiudono una definizione brevissima ed essenziale del concetto di santificazione del lavoro, sotto forma di consiglio pratico: «Dà un motivo soprannaturale alla tua ordinaria occupazione professionale, e avrai santificato il lavoro» [8]. Non occorre fare cose diverse, ma fare le stesse cose di sempre in modo diverso, con un motivo soprannaturale che ci spinge a metterci più impegno e più amore.
Il senso è che il lavoro diventa un’attività santa quando si fa per un motivo soprannaturale. Questa affermazione, però, non va intesa come una sorta di “morale delle sole intenzioni”; non si tratta, in termini classici, di dare la priorità al finis operantis come se fosse indipendente dal finis operis, che verrebbe così privato della sua rilevanza.
Il finis operantis è la motivazione di chi lavora, che può dipendere da diversi tipi di intenzioni. Il finis operis è ciò che si vuole ottenere con l’attività: servire un cliente, completare un rapporto, raggiungere un obiettivo. Per servire davvero con il nostro lavoro non basta avere buone intenzioni, bisogna arrivare ai risultati concreti. «Per servire, servire», diceva san Josemaría.
L’ordine soprannaturale assume ed eleva questa realtà umana, in modo che il lavoro è santo se «nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore» e se tale amore è la «carità di Dio che è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» [9]. Quando viviamo l’unità di vita di cui san Josemaría parlava tanto, la carità di Dio si diffonde in tutti i momenti del nostro lavoro: relazioni, telefonate, dettagli espletati con amore. Il finis operantis penetra e informa dall’interno il finis operis di tutto il nostro agire.
Il lavoro è santo, lo si santifica, quando è governato e informato dall’amore di Dio e del prossimo per amore di Dio. Questa è la sostanza del “motivo soprannaturale” che è sufficiente imprimere al lavoro per santificarlo. Allora si comprende ancor meglio come tale “intenzione” tenda per sua natura alla perfezione umana del lavoro: «Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature. Non offrirete nulla con qualche difetto, ammonisce la Sacra Scrittura, perché non sarebbe gradito [10]. Pertanto, il lavoro di ciascuno, il lavoro che occupa le nostre giornate e le nostre energie, deve essere un'offerta degna per il Creatore, operatio Dei, lavoro di Dio e per Dio: in una parola, deve essere un'opera completa, impeccabile» [11].
Ma non bisogna confondere lavorare con perfezione con un perfezionismo che può nascere dall’orgoglio e dal disordine. Dobbiamo lavorare ragionevolmente bene, sapendo che abbiamo molti impegni che richiedono la nostra attenzione e che pure dobbiamo ricondurre all’amore di Dio.
Il lavoro santificato non è solo un’attività che ha Dio per ragione e per fine ma è, anche e necessariamente, lavoro di Dio, perché è Dio stesso a santificare. È Lui che ama per primo e rende possibile il nostro amore mediante lo Spirito Santo, del quale la nostra carità è una partecipazione.
Perché Dio possa operare in noi e attraverso il nostro lavoro (perché il nostro lavoro sia opera di Dio), è necessario dedicargli, nella nostra giornata, spazi di preghiera e di ascolto — a casa, in ufficio, per strada, in chiesa — per raggiungere quella unità con Lui che gli permetta di penetrare tutto il nostro agire.
Santificare il lavoro nella sua dimensione oggettiva, esterna, strutturale (per esempio, le operazioni finanziarie o la contabilità), è inseparabile non solo dal santificare con il lavoro (nel quotidiano, attraverso lo sforzo concreto per raggiungere obiettivi di servizio alle persone), ma anche dal santificarsi nel lavoro (crescendo nell’amore), che è conseguenza necessaria e immediata del santificare il lavoro nel suo aspetto soggettivo (in quanto azione della persona).
È anche vero che un lavoro soggettivo non santificato può contribuire alla santificazione del mondo, nella misura in cui favorisce l’instaurarsi di strutture sociali ed economiche naturalmente giuste ed efficaci, condizione imprescindibile, anche se non definitiva, per poter ordinare tali strutture secondo Dio. Pensate, per esempio, agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
Tuttavia, solo un lavoro soggettivo santificato che, pertanto, santifica chi lo svolge, contribuisce necessariamente non solo a delineare un mondo giusto ma anche a improntarlo alla carità di Cristo, a santificarlo. Naturalmente, per santificare il mondo “dal di dentro”, c’è bisogno non di una ma di molte persone di ogni ambito professionale che santifichino il proprio lavoro e si santifichino nel lavoro.
San Josemaría lo esprimeva anche dicendo: “Si sono aperti i cammini divini della terra”. C’è bisogno di molti uomini e donne disposti a percorrere quei cammini per elevare il mondo dall’interno, non mediante campagne organizzate e magari ideologiche, a rischio di polarizzazioni, ma grazie alla crescita interiore di ognuno nel proprio ambiente, aperto agli altri e pertanto capace di accogliere la grazia di Dio che vuole diffondere fede, speranza e carità attorno a noi.
La peculiare rilevanza del lavoro dirigenziale
Puntate a un obiettivo molto importante: formare leader d’impresa che creeranno il contesto in cui molti altri possano lavorare e crescere come persone attraverso il proprio lavoro. Preparare persone con una responsabilità così rilevante e una grande missione.
Spesso non disporranno di soluzioni facili per comprendere un problema o risolvere una situazione. In generale, il lavoro dirigenziale comporta un insieme di attività come prevedere, organizzare, coordinare e controllare lo sviluppo e i risultati dell’attività di un’organizzazione.
Di fronte a una realtà tanto complessa e mutevole, è comprensibile che, nel tentativo di teorizzare sulla natura del lavoro dirigenziale o di analizzarne la pratica, emergano differenti interpretazioni [12]. Per questo motivo, la formazione di un dirigente non consiste solo nel memorizzare principi o riunire strumenti di marketing, finanza, strategia o contabilità, ma richiede di raggiungere una comprensione prudenziale che si acquisisce, normalmente, attraverso un’esperienza ben assimilata.
La responsabilità di un dirigente richiede l’esercizio della prudenza, virtù principale di chi deve governare. Possiamo qui ricordare una nota affermazione di san Tommaso d’Aquino: «I sapienti ci istruiscano, i santi preghino per noi, i prudenti ci governino».
Seguendo il metodo del caso, i vostri studenti imparano a esercitare la prudenza, a porsi le domande chiave, ad approfondire un tema, ad accogliere i punti di vista altrui senza pregiudizi e a cambiare opinione.
Nella sua espressione più generale, l’azione prudente richiede una sufficiente conoscenza del passato (i precedenti), l’applicazione alle circostanze che delimitano la situazione presente e la previsione degli effetti futuri delle possibili decisioni.
«La prudenza, oltre a essere l’abito perfettivo di questo tipo di attività (praxis), è l’unica virtù intellettuale il cui oggetto è morale, cioè essa agisce come una sorta di ponte tra entrambe le dimensioni, permettendo di conciliare il pensiero con l’azione».
Esercitando la prudenza nel dirigere, i partecipanti ai vostri programmi cresceranno come persone, sia moralmente che intellettualmente, e saranno in grado di creare ambienti in cui anche altri possano crescere, contribuendo così a migliorare la società.
Altre caratteristiche di un buon lavoro dirigenziale, a mio avviso, sono l’apertura e la flessibilità. Apertura mentale, per imparare dall’esperienza e dallo studio. Apertura per comprendere i cambiamenti richiesti dai tempi nuovi. Apertura per accogliere e valorizzare suggerimenti o spiegazioni altrui, senza fretta e senza lasciarsi condizionare da pregiudizi. Saper ascoltare.
Apertura per non bloccare arbitrariamente le iniziative, bensì promuoverle e orientarle. Mente aperta per cogliere e accogliere le opportunità di cambiamento; in particolare per saper cambiare di opinione. San Josemaría era solito dire: “Non siamo come i fiumi, che non possono tornare indietro”.
Infine, apertura del cuore, per comprendere e amare gli altri. Questa disposizione ci fa accogliere le persone così come sono, senza giudicare e senza lasciarci condizionare da pregiudizi, anche se possiamo spronarle a migliorare. Si tratta di essere ponti anche per chi la pensa diversamente. Si può lavorare molto bene con persone di un’altra fede o senza fede, che vivono stili di vita che non condividiamo, ma che possono sempre avere un fondo buono sul quale costruire un’amicizia e un progetto comune all’interno dell’impresa.
Per quanto riguarda la flessibilità, è evidente che si oppone alla rigidezza ma non alla fortezza. È la capacità di accettare e di fare le eccezioni necessarie o convenienti. In questo contesto, mi sembra interessante menzionare anche l’importanza di promuovere la libertà interiore dei collaboratori, di qualsiasi livello, sapendo esporre le ragioni di ciò che si chiede loro di fare.
Occorre far sì che desiderino svolgere bene il proprio lavoro per servire meglio. Inoltre, un buon dirigente evita un eccessivo controllo e di dare indicazioni troppo minuziose. Adottare il micromanagement come stile direzionale crea marionette, non persone mature e di criterio.
Vale anche la pena ricordare l’importanza di saper delegare tenendo conto delle circostanze delle persone e dei contesti. Mi viene in mente ciò che scrive san Josemaría in una prospettiva più generale: «Non si può comportarsi nello stesso modo con tutti. Anche qui bisogna saper imitare le madri: la loro giustizia consiste nel trattare in modo disuguale i figli disuguali" [13].
Alcuni, i più giovani, hanno bisogno di accompagnamento e feedback per acquisire, il prima possibile, l’esperienza necessaria per svolgere bene il proprio lavoro. Ad altri, più maturi, serve un coaching che li aiuti a imparare a prendere decisioni autonome. Arriva poi un momento in cui possono lavorare senza alcun tipo di supervisione, perché il dirigente può delegare con piena fiducia e senza preoccupazioni. Ma gli uni e gli altri hanno bisogno della fiducia, della vicinanza e dell’amicizia dei loro dirigenti.
L’attività manageriale richiede, di norma, di volgere a un fine comune elementi e azioni tra loro eterogenei. È necessaria, quindi, una sufficiente capacità di sintesi che, sapendo distinguere i singoli fattori concorrenti, riesca a farli convergere in un piano condiviso. Qui entra in gioco ciò che molti definiscono missione aziendale, che include tener conto dei vari portatori di interesse (stakeholders), affinché l’attività dirigenziale riesca a unificare gli sforzi di tutti.
La peculiare rilevanza del lavoro dirigenziale risiede, com’è ovvio, nel fatto che da esso dipendono in buona misura l’efficacia del lavoro di altri, la loro crescita personale attraverso il lavoro e la cultura e lo stile d’impresa. Ciò determina un aspetto specifico della responsabilità dei dirigenti.
Essere manager non è un privilegio ma un servizio e una responsabilità, che consiste nel creare un contesto proficuo per il lavoro degli altri. Pertanto, un dirigente deve promuovere in sé e negli altri quella disposizione interiore che spinge ad affrontare con decisione i propri doveri.
Qui formate i dirigenti non solo con lezioni e lavori di gruppo, ma anche creando un clima di lavoro ben fatto (comprese tante caratteristiche degli ambienti: giardini ben curati, lavagne pulite, lezioni ben preparate con conclusioni incisive e chiare) e un’atmosfera di gioia, vicinanza umana e attenzione alle persone.
In definitiva, l’ambiente di amicizia in cui ciascuno si accorge di contare davvero, di essere benvoluto, spiega la cordialità e l’allegria che si respirano nella vostra scuola e negli incontri degli ex alunni.
Molte grazie.
[1] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 47.
[2] Cfr. San Giovanni Paolo II, Discorso, 3-VII-1986, n. 3.
[3] Sulla scelta esistenziale del fine ultimo, in quanto atto della libertà, cfr. C. Fabro, Riflessioni sulla libertà, Maggioli, Rimini 1983, pp. 43-51; 57-85.
[4] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48.
[5] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 47.
[6] Leone XIV, Discorso al Corpo Diplomatico, 16-V-2025.
[7] San Josemaría, Istruzione, 19-III-1934, n. 33.
[8] San Josemaría, Cammino, n. 359.
[9] Cfr. Rm 5, 5.
[10] Cfr. Lv 22, 20.
[11] San Josemaría, Amici di Dio, n. 55.
[12] Cfr., per esempio, G. Scalzo e S. García Álvarez, El Management como práctica: una aproximación a la naturaleza del trabajo directivo, in “Empresa y Humanismo”, XXI (2018), pp. 95-118.
[13] San Josemaría, Lettera 29-IX-1957, n.25.