Articolo del Prelato ne "L'Osservatore Romano"

Pubblichiamo l'articolo di mons. Javier Echevarría che compare nella prima pagina de "L'Osservatore Romano" del 21 agosto.

'L'Osservatore Romano' del 21 agosto del 2010.

Per testimoniare il Vangelo nel mondo IL FUTURO DELL’ANNO SACERDOTALE

'L'Osservatore Romano' del 21 agosto del 2010.

L’Anno sacerdotale che si è concluso lo scorso 16 giugno. Il periodo trascorso è così breve, che lo si può considerare ancora del tutto attuale. Dunque, più che giudicarne il valore, conviene guardare alle reazioni personali davanti a questo evento proposto dalla Chiesa. Cosa è accaduto? Quale impatto ha prodotto su di noi sacerdoti, convocati dal Romano Pontefice a percorrerlo aiutati dalla figura esemplare del nostro confratello, san Giovanni Maria Vianney?

Sono domande che esigono da ciascuno di noi una risposta personale nell’intimità della propria orazione, davanti a Dio. Non arriveremo a un livello così personale, poiché non può essere questo l’obiettivo di un articolo, ma ci incammineremo su una strada non meno esigente: ricordare gli obiettivi indicati da Benedetto XVI e poi, traendone le conseguenze, orientare la riflessione verso il futuro.

“Tale anno – scriveva il Papa nella lettera di indizione – vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi”. Citava anche una frase che il curato d’Ars era solito ripetere e che è stata recepita nel Catechismo della Chiesa Cattolica : “Il sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù”. Per comprendere se stesso, il sacerdote non deve limitarsi a considerare il proprio lavoro pastorale, ma andare molto oltre, fino a giungere a Cristo, nella cui umanità riverbera tutta la vita trinitaria e in cui la medesima vita trinitaria si apre agli uomini.

Da questa prospettiva si comprende la profondità di altre parole di san Giovanni Maria Vianney citate dal Romano Pontefice: il sacerdote “non si capirà bene che in cielo”. Soltanto allora, nell’accorgersi del dono infinito e ineffabile del concedersi di Dio all’uomo, il sacerdote assaporerà pienamente la propria realtà. Dio non ha voluto soltanto comunicarsi agli uomini; ha preso la nostra stessa natura in Cristo Gesù; ha istituito la Chiesa e chiamato determinati uomini che, con il sacramento dell’ordine, egli trasforma in suoi ministri e strumenti. L’”audacia” di Dio – ha detto Benedetto XVI nell’omelia per la chiusura dell’Anno sacerdotale – che, “pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua”, che ha fiducia in noi fino ad abbandonarsi nelle nostre mani, una tale audacia è “la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio»".

Con omelie, lettere e allocuzioni pontificie, con ricorrenze, congressi e giornate di riflessione o di preghiera, sono state ripetute in tutto il mondo queste grandi verità, esortando tutti e in particolare i sacerdoti a una nuova, profonda e gioiosa conversione. Infatti, non si può gustare un tale eccesso di amore divino, proprio del sacerdozio, senza sentirsi personalmente impegnati a essere, come diceva spesso san Josemaría Escrivá, “sacerdoti al cento per cento”. Cosa comporta tale invito? Rispondere a questa domanda richiederebbe una lunga esposizione sulla teologia e la spiritualità del sacerdozio; tuttavia è utile almeno fermarsi su tre considerazioni fondamentali:

Occorre essere coscienti della dignità del sacerdozio, del valore e della ricchezza che tale condizione implica, affinché questa realtà impregni tutta intera la condotta; conferisca autenticità a ogni momento dell'esistenza, con la certezza che, nonostante la nostra piccolezza, Cristo vuole utilizzarci per comunicare al genere umano i frutti della sua opera redentrice.

Il presbitero deve identificarsi con Cristo, avere “i suoi stessi sentimenti” (cfr Fil 2,5), di morire a se stesso affinché egli abiti in noi (cfr Gal 2, 20): sentirsi spinto a essere uomo di eucaristia, a vivere la santa messa con la fede che in ogni celebrazione si perpetua il sacrificio di Cristo, morto e risorto, che viene incontro alla sua Chiesa e al sacerdote, per attrarli a sé e condurli con lo Spirito fino all’intimità filiale con Dio Padre.

Questo comporta l’anelito di servire, cum gaudio in Cristo e per Cristo, il proprio gregge, la Chiesa e tutta l’umanità, in modo che nel suo essere, come in quello di Gesù, non trovi posto l’egoismo o l’indifferenza davanti alle necessità degli altri. Ciò implica dedicarsi con impegno, anche se costa, a quanto contribuisce al bene delle anime, con una carità effettiva, nella predicazione della Parola di Dio e nel sacramento della riconciliazione.

L’Anno sacerdotale ci ha situato, nel tempo e dal tempo, davanti all’eterno, davanti a un amore di Dio che non passa, non si interrompe, è sempre giovane e attivo; con la realtà – felice, sorprendente e profondamente vera – che questo amore, visibile in Cristo Gesù, si trasmette attraverso la Chiesa, a ogni cristiano e a ogni sacerdote. L’Anno sacerdotale è destinato, senza dubbio, a produrre molti e svariati frutti nella predicazione, nella catechesi, nella cura della liturgia, nei diversi campi della pastorale e fondamentalmente nel rinnovamento interiore di ogni sacerdote, e anche con l’aumento dei seminaristi nelle diocesi. L’audacia di Dio, di cui ha parlato Benedetto XVI, ci convoca tutti “in attesa del nostro «sì»”.

+Javier Echevarría

Prelato dell’Opus Dei

    Javier Echevarría // L'Osservatore Romano