TEP Talks (V) L’economia per il bene comune

Qual è la visione economica di papa Francesco? La felicità è di tutti o solo individuale? I TEP (Tu Es Petrus) Talks sono una serie di approfondimenti sull’importanza del ministero del Papa nella vita di tutti i cattolici. Le autrici e gli autori dei TEP hanno studiato e meditato diversi aspetti del messaggio dei pontefici nel corso degli anni.

“Mai come in questo tempo sentiamo la necessità di giovani che sappiano, alla luce del Vangelo, dare un’anima all’economia, perché siamo consapevoli che «ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie» (Lett. enc. Laudato si’, 219)”: scrive così papa Francesco nel Discorso ai giovani del Progetto Policoro della CEI, nel giugno 2021[1]. In questo discorso il Papa utilizza quattro verbi – animare, abitare, appassionarsi ed accompagnare – che descrivono molto bene il lavoro e le sfide concrete di un cristiano nel mondo di oggi “… per un modello di economia alternativo a quello consumistico, che produce scarti. La condivisione, la fraternità, la gratuità e la sostenibilità sono i pilastri su cui fondare un’economia diversa. È un sogno che richiede audacia, infatti sono gli audaci a cambiare il mondo e a renderlo migliore”[2].

Sono molti gli interventi e gli scritti nei quali il Papa tratta temi economici: dalle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, alle udienze e agli incontri con il mondo del lavoro. A questi si aggiunge l’iniziativa The Economy of Francesco, lanciata con la Lettera[3] del 1 maggio 2019, con la quale il Papa chiama a raccolta giovani economisti ed imprenditori con l’obiettivo di rianimare l’economia.

Non è certo un caso che papa Francesco accosti all’economia il verbo animare, anche se a prima vista può sembrare un paradosso e non è neppure un caso il richiamo al Santo di Assisi, sempre accostato alla povertà per eccellenza. Vediamo di capirne i motivi.

Alla radice dell’Economia: due vie, due significati complementari

L’etimologia ci aiuta e ci fa riscoprire il senso originario di Economia che, nei secoli, è andato smarrito.

Il termine italiano economia viene dal latino oeconomia, che, a sua volta, deriva dal greco oiko-nomía, composto di due termini: oikos (οἶκος), e nómos (νόμος). Questi due termini rappresentano due vie, che portano significati complementari al concetto di Economia.

La via che parte da nómos fa riferimento al dividere secondo la convenienza o la legge. La necessità di dividere beni deriva dalla loro scarsità e dal fatto che la vita stessa dell’uomo è limitata. Questi due limiti attivano due operazioni specifiche: «il misurare, il calcolare, il progettare, il pianificare, l’organizzare, l’ottimizzare, l’amministrare, per l’appunto il “fare economia”».[4] Tutto ciò non riguarda esclusivamente i beni materiali, ma chiama in causa l’insieme delle relazioni umane e delle relazioni con la divinità. Da questo punto di vista, «l’uomo è in sé un essere economico»[5].

Quale sia la convenienza che guida l’azione di dividere viene spiegato dalla via che parte da oikos. Il termine è espresso dal latino domus, casa, famiglia. Questa via richiama il luogo che l’uomo abita, caratterizzato da due legami importanti: alterità e giustizia. Oikos è il luogo antropologico per eccellenza, dove la divisione è con-divisione e dove l’uomo coltiva e custodisce. La divisione nella casa è, dunque, una divisione secondo giustizia, secondo una giusta misura.

Papa Francesco utilizza il verbo ‘abitare’: “Abitare la terra non vuol dire prima di tutto possederla, no, ma saper vivere in pienezza le relazioni: relazioni con Dio, relazioni con i fratelli, relazioni con il creato e con noi stessi (…). Inoltre, è il momento di abitare il sociale, il lavoro e la politica senza paura di sporcarsi le mani. (…). E non abbiate paura di abitare anche i conflitti”[6].

L’etimologia ci aiuta, dunque, a comprendere che il termine Economia ha in sé istanze di giustizia, reciprocità, custodia, oltreché di calcolo e amministrazione. In sintesi, potremmo dire che l’economia che oggi non piace più è un’economia che si è ridotta ad una sola via: è solo nómos, solo legge. La legge esclusiva della massimizzazione profitto. È il concetto di business: un’economia ‘monca’, che ha smarrito la via verso la casa - verso oikos – che è diventata insensibile alla giusta misura perché cieca verso l’alterità.

L’economia che oggi conosciamo non ci piace per gli effetti visibili dell’agire dell’uomo in società: disuguaglianze nel benessere materiale, speculazione finanziaria e legge del profitto, riduzione del lavoro a mera merce di scambio, cultura “usa e getta” dei consumi e dei rifiuti, ossessione per la crescita (economica) e la produttività, per citarne alcune. Questi effetti ben visibili sono frutto di una serie di principi che sono stati assunti nelle epoche passate e che oggi, con la crisi mondiale del 2008, vanno mostrando tutti i loro limiti. Poiché l’economia è un intreccio di persone e mercati, questi principi modellano la società intera, proponendo una visione dell’uomo, del lavoro e delle relazioni. Ecco perché tutto questo ci deve interessare: l’economia è il mondo[7].

Limiti del sistema attuale

Se ciò che non piace dell’economia sono alcuni degli effetti che vediamo nel mondo, è importante chiedersi se questi effetti siano o meno evitabili. In altri termini, è implicito che l’economia funzioni così e, dunque, che la scienza economica (l’Economia) abbia un unico modello di funzionamento della società da proporre?

La risposta a questa domanda è negativa: non esiste un unico modello economico e quello attuale, di stampo capitalistico, non è esistito da sempre. Nel corso della storia, dunque, si sono avvicendanti altri modelli, cioè altri modi di organizzare la vita in società.

«La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi, a vari livelli, che vanno riconosciuti e apprezzati, non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo. Anzi, pare talvolta ritornare in auge un egoismo miope e limitato al corto termine che, prescindendo dal bene comune, esclude dai suoi orizzonti la preoccupazione non solo di creare ma anche di diffondere ricchezza e di eliminare le disuguaglianze, oggi così pronunciate»[8].

Questo passaggio del documento Oeconomicae et pecuniariae quaestiones del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale (2018) fa emergere alcuni elementi dell’attuale modello capitalistico (il c.d. pensiero dominante o mainstream):

  • Il modello si basa su principi miopi che prediligono il breve termine, incentivano la speculazione, puntano esclusivamente sulla crescita della ricchezza, senza considerare il bene comune;
  • Il modello attuale vede una predominanza dell’attività finanziaria su quella economica reale, anziché essere la prima al servizio della seconda.
  • Il modello è sganciato dai principi etici di libertà, verità, giustizia e solidarietà

Nel Discorso al Consiglio per un capitalismo inclusivo, papa Francesco scrive:

«È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile e in grado di rispondere alle sfide più radicali che l’umanità e il pianeta si trovano ad affrontare. Vi incoraggio a perseverare lungo il cammino della generosa solidarietà e a lavorare per il ritorno dell’economia e della finanza a un approccio etico che favorisca gli esseri umani (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 58).

Uno sguardo alla storia recente, in particolare alla crisi finanziaria del 2008, ci mostra che un sistema economico sano non può essere basato su profitti a breve termine a spese di uno sviluppo e di investimenti produttivi, sostenibili e socialmente responsabili a lungo termine.

È vero che l’attività imprenditoriale «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti», e «può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Enc. Laudato si’, 129). Tuttavia, come ha ricordato San Paolo VI, il vero sviluppo non può limitarsi alla sola crescita economica, ma deve favorire la promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo (cfr Enc. Populorum progressio, 14). Ciò significa molto di più che far quadrare i bilanci, migliorare le infrastrutture o offrire una più ampia varietà di beni di consumo. Comporta piuttosto un rinnovamento, una purificazione e un rafforzamento di validi modelli economici basati sulla nostra personale conversione e generosità nei confronti dei bisognosi. Un sistema economico privo di preoccupazioni etiche non conduce a un ordine sociale più giusto, ma porta invece a una cultura “usa e getta” dei consumi e dei rifiuti»[9].

Rianimare l’economia

In L’economia civile Bruni e Zamagni (2015) scrivono: «Nel corso della storia, le teorie politiche ed economiche si sono suddivise in due grandi famiglie. Quelle che partono dall’ipotesi che l’essere umano non sia naturalmente capace di cooperare, e quelle che invece rivendicano la natura cooperativa della persona. Il principale rappresentante della seconda tradizione è Aristotele: l’uomo è animale politico, cioè capace di dialogo con gli altri, di amicizia (philía) e di cooperazione per il bene della pólis. L’esponente più radicale della tradizione dell’animale insocievole è, invece, Thomas Hobbes: «È vero che alcune creature viventi, come le api e le formiche, vivono insieme socialmente. Pertanto, qualcuno vorrebbe sapere perché gli uomini non fanno lo stesso» (Il Leviatano, 1651). All’interno di questa tradizione antisociale si muove molta parte della filosofia politica e sociale moderna, mentre gli antichi e i medioevali (incluso Tommaso d’Aquino) erano generalmente dalla parte di Aristotele. Potremmo anche dire che la principale domanda delle teorie politica ed economica moderne è stata come possano emergere esiti cooperativi a partire da esseri umani che non sono capaci di cooperazione intenzionale, perché dominati da interessi egoistici o egocentrici».

«La risposta della scienza economica moderna a quella (…) domanda è (…) rappresentata dalle varie teorie della «mano invisibile», dove il bene totale («la ricchezza delle nazioni») non nasce dall’azione cooperativa intenzionale e naturale di animali sociali, ma dal gioco degli interessi privati di individui egoisti separati tra di loro»[10].

L’assunto antropologico di Hobbes – homo homini lupus – secondo cui l’uomo è un lupo famelico che cerca il proprio interesse ed ha convenienza a dar vita ad una società civile artificiale si contrappone all’assunto homo homini natura amicus - ogni uomo è per natura amico dell’altro uomo. Da queste differenziazioni derivano una serie di conseguenze. Se parto dal presupposto che tu sia un lupo nei miei confronti diffido di te. Se invece parto dall’idea che tu sia potenzialmente un amico imposterò le mie relazioni con te e in generale quelle economiche in una forma diversa.

Il capitalismo di matrice anglosassone si è nutrito dell’assunto di Hobbes: al centro dell’agire economico c’è l’individuo e la sua libertà dalla comunità. Invece, la tradizione economica dell’Europa, soprattutto quella a matrice culturale latina, è essenzialmente relazionale, comunitaria, cooperativa – cioè cattolica, in senso etimologico. Questa tradizione che fonda le sue radici nell’umanesimo civile è denominata economia civile.[11]

Non fu la scuola italiana della c.d. economia civile a influenzare lo sviluppo della teoria economica ufficiale (il pensiero dominante in economia), bensì la scuola anglosassone, con a capostipite lo scozzese Adam Smith. Per circa un secolo da quello in cui visse Smith, le teorie economiche successive poggiarono, infatti, sui principi esposti sistematicamente per la prima volta da lui[12].

L’assunto antropologico di Hobbes - homo homini lupus – entra in Economia all’inizio dell’Ottocento, con Jeremy Bentham (1748-1832), filosofo e giurista inglese. È Bentham ad introdurre in Economia il concetto di utilitarismo, secondo cui il fine di ogni Stato/governo è la felicità della comunità.

Poiché:

  1. la felicità della comunità corrisponde alla somma delle felicità dei singoli individui che ne fanno parte;
  2. la felicità individuale corrisponde alla massima utilità del singolo, misurata in termini di ciò che rende minimo il dolore e massimo il piacere,

Bentham fa corrispondere l’utilità totale di una società (il benessere sociale) con la massimizzazione della somma delle utilità dei singoli individui. Ne consegue che, tra le alternative disponibili, è considerata giusta quell’azione che massimizza la felicità totale. Di qui, il noto motto: la massima felicità per il maggior numero di persone è la misura del giusto e dello sbagliato. Le azioni sono giudicate buone o cattive non di per se stesse, ma in considerazione dell’incremento atteso dell’utilità totale per la società.

L’utilitarismo produce un effetto ‘dirompente’ in Economia: da quel momento, valore, utilità e felicità si fondono dando vita al principio della massimizzazione del piacere. L’Economia inizia a diventare la tecnica che massimizza l’utilità[13].

Che felicità equivalga ad utilità è dunque un assunto che nasce con le teorie utilitaristiche. Nel 1974 Richard Easterling introdurrà il paradosso della felicità, producendo una crepa nell’utilitarismo imperante: perché quando aumenta il reddito - e quindi il benessere economico di una collettività - la felicità umana aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire, seguendo una curva a forma di parabola con concavità verso il basso?

Il paradosso di Easterling evidenzia che ricchezza (o utilità) e felicità (o benessere sociale) non sono la medesima cosa, perché per essere più felici non basta cercare di aumentare l'utilità (prodotti, beni, servizi), bensì, almeno in maniera prevalente, è necessario addentrarsi nella sfera della relazione tra le persone. Oggigiorno, uno dei fattori decisivi per la felicità sono le condizioni di lavoro, inteso sia come luogo di lavoro, sia come relazioni che si instaurano in quel luogo. Entrambi questi elementi sono fortemente in crisi nel modello economico attuale.

“Si tratta di aiutare le parrocchie e le diocesi a camminare e progettare sul «grande tema [che] è il lavoro», cercando di «far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (Lett. enc. Fratelli tutti, 162). È un problema di dignità. La dignità della persona non viene dai soldi, non viene dalle cose che si sanno, viene dal lavoro. Il lavoro è un’unzione di dignità. Chi non lavora non è degno. Così, semplice.”

Occuparsi del lavoro è promuovere la dignità della persona. Infatti, il lavoro non nasce dal nulla, ma dall’ingegno e dalla creatività dell’uomo: è un’imitazione di Dio creatore. Voi non siete di quelli che si limitano a lamentele per il lavoro che manca, ma volete essere propositivi, protagonisti, per favorire la crescita di figure imprenditoriali al servizio del bene comune. L’obiettivo da perseguire è quello «dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32)”[14].

Sviluppo e crescita non sono la stessa cosa

Sviluppo e crescita economica sono due concetti legati, ma differenti. La crescita economica, infatti, è una delle tre dimensioni dello sviluppo (le altre due sono quella socio-relazionale e quella spirituale), che riguarda un progetto di accumulo e, dunque, appartiene all’ordine dei mezzi. Essa è misurata dall’indicatore PIL, che indica il valore della produzione di beni e servizi, in un certo anno, all’interno di un Paese.

Di contro, lo sviluppo è un progetto trasformazionale, che ha a che vedere con il cambiamento in senso migliorativo della vita delle persone. Lo sviluppo appartiene all’ordine dei fini.

Le tre dimensioni dello sviluppo stanno tra loro in una relazione moltiplicativa e non additiva: non è possibile sacrificare una delle dimensioni per fare aumentare le altre perché, azzerando un fattore, l’intero prodotto risulterebbe pari a zero. Ad esempio, non è possibile sacrificare la dimensione socio-relazionale per fare aumentare la crescita, come invece sta accadendo oggi.

Se le tre dimensioni, invece, fossero legate da una relazione additiva, l’azzeramento di un addendo non annullerebbe la somma totale, che, anzi, potrebbe anche aumentare. In questa logica, verrebbero ad usarsi compensazioni tra le dimensioni, dove sarebbe (è) possibile sacrificarne una, per accrescerne un’altra.

È qui la grande differenza tra bene totale e bene comune: mentre il bene totale è la somma dei beni individuali, il bene comune è, invece, il prodotto dei beni individuali.

“… coloro che si impegnano nella vita economica e commerciale sono chiamati a servire il bene comune cercando di aumentare i beni di questo mondo e renderli più accessibili a tutti (cfr Evangelii gaudium, 203). In definitiva, non si tratta semplicemente di “avere di più”, ma di “essere di più”. Ciò che occorre è un profondo rinnovamento dei cuori e delle menti così che la persona umana possa essere sempre posta al centro della vita sociale, culturale ed economica”[15].

Antonella Martini, Professore ordinario di ingegneria economico-gestionale (Università di Pisa)


[1] Papa Francesco, Discorso ai giovani del Progetto Policoro della CEI, 5 giugno 2021: https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2021/june/documents/papa-francesco_20210605_progetto-policoro.html

[2] Ibid.

[3] Papa Francesco, Lettera per l’evento Economy of Francesco, 1 maggio 2019: https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2019/documents/papa-francesco_20190501_giovani-imprenditori.html

[4] Petrosino S. (2013). Elogio dell’uomo economico. Vita e Pensiero, Milano, p.28.

[5] Ibid. p. 29.

[6] Papa Francesco, Discorso ai giovani del Progetto Policoro della CEI.

[7] «… l’economia è interessata a quasi tutti gli aspetti del vivere. Anche se il centro dell’interesse restano i movimenti delle grandezze economiche, generati dai comportamenti di singole unità produttive o di consumo, studiando a fondo le determinanti delle scelte dell’agire individuale e collettivo, ci accorgeremo che moltissimi fattori non strettamente economici incidono in maniera decisiva su tali movimenti. Ad esempio, studiando il comportamento dei soggetti economici e delle loro scelte di consumo, risparmio e offerta di lavoro non potremo non occuparci di valori morali, di norme sociali, di dinamiche familiari, delle preferenze degli individui verso il tempo libero, delle scelte nel campo dell’istruzione. (…) Studiando l’economia, dunque, finiremo per occuparci della vita nel suo complesso.», Becchetti, L., Bruni L., Zamagni S. (2010). Microeconomia. Un testo di economia civile, ed. 2, Il Mulino, Bologna, p. 27.

[8] Congregazione per la Dottrina della Fede. Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale (2018). “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario”.

[9] Papa Francesco, Discorso al Consiglio per un Capitalismo inclusivo, 11 novembre 2019: https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/november/documents/papa-francesco_20191111_consiglio-capitalismo-inclusivo.html

[10] Bruni, L., Zamagni S. (2015). L’Economia civile. Il Mulino, Bologna.

[11] In questo contesto si colloca il contributo determinante dei Francescani, che aprì la strada alla c.d. economia di mercato.

[12] Per approfondire le due scuole di pensiero, si veda la bella sintesi in Zamagni, S., Scialdone, A. (2015). “La geografia dell’economia civile dell’Italia repubblicana”. Treccani

[13] Ma l’Economia è una tecnica? Essa nasce dalla filosofia morale: Antonio Genovesi, che ebbe la prima cattedra di economia al mondo (a Napoli, nel 1753) era un filosofo morale, così come anche Adam Smith (1723-1790) e John Stuart Mill (1806-1873). Agli inizi, gli economisti erano (anche) filosofi. Poi arriverà Richard Whately (1787-1863), arcivescovo anglicano, teologo ed economista con il suo NOMA (Non Overlapping Magisteria) principle del 1829. Secondo il principio del NOMA “… la sfera dell’economico va tenuta separata dalle sfere dell’etica e della politica, con le quali non avrebbe nulla a che vedere. Anzi, l’infiltrazione nell’area del mercato di valori e norme appartenenti alle altre due aree potrebbe mettere a repentaglio il perseguimento del fine ultimo per il quale il mercato esiste: quello dell’efficienza. Se dunque il discorso economico vuole ambire ad acquisire lo statuto della scientificità (neo positivisticamente inteso) deve tagliare quel cordone ombelicale che da secoli lo tiene unito all’etica e alla politica.” in: Zamagni, Scialdone (2015). Papa Francesco scrive: “Un sistema economico privo di preoccupazioni etiche non conduce a un ordine sociale più giusto, ma porta invece a una cultura “usa e getta” dei consumi e dei rifiuti. Al contrario, quando riconosciamo la dimensione morale della vita economica, che è uno dei tanti aspetti della dottrina sociale della Chiesa che dev’essere pienamente rispettata, siamo in grado di agire con carità fraterna, desiderando, ricercando e proteggendo il bene degli altri e il loro sviluppo integrale.” (Discorso ai giovani del Progetto Policoro, 2021)

[14] Papa Francesco, Discorso ai giovani del Progetto Policoro della CEI, 5 giugno 2021.

[15] Papa Francesco, Discorso al Consiglio per un capitalismo inclusivo, 11 novembre 2019.

Antonella Martini