Oggi il lavoro è un problema e non solo perché c'è crisi. Anzi, per certi versi il difficile momento che viviamo potrebbe aiutare a riconsiderare il senso del lavoro. Perché il vero problema è la crisi di significato.
Come capita ad ogni virtù, che sciaguratamente trascina con sé non uno ma due vizi, uno per eccesso l'altro per difetto, così sono due le deviazioni che trascinano l'uomo lontano dal senso del lavoro. Entrambe di fatto si rifanno ad una errata affermazione della persona, entrambe sono figlie di quella presunzione iniziale che ha immaginato di poter porre l'uomo al posto di Dio a governare il bene e il male.
Infatti la radice di queste due derive sta nella soddisfazione dell'uomo ripiegato su se stesso: ma con due varianti.
Ciò che mi rende felice è l'esercizio del piacere oppure l'esercizio del potere e del più potente dei fattori motivanti: l'autostima.
Nel primo caso il lavoro, che va qui inteso come ogni attività dell'uomo non solo quelle retribuite (l'attività casalinga è lavoro a tutti gli effetti!), viene vissuto come una schiavitù, uno sciagurato mezzo, un triste tunnel che sono ad attraversare ogni settimana per poter alla fine sbarcare nella valle soleggiata del fine settimana dove conquistare con ogni esperienza possibile la soddisfazione di ogni terminazione nervosa del mio corpo. Ne consegue che lo sforzo è nel cercare di fare meno fatica possibile, ridurre l'impegno, considerare il lavoro come un diritto, ma non ogni lavoro, quello che mi va, quello che costituisce il passaggio meno impervio.
Nel secondo caso il lavoro è l'ambito della realizzazione, il terreno di gioco dove controllare, dove esercitare il potere, dove conquistare la propria realizzazione. Diventa praticamente un fine, svuotando di senso la persona.
In realtà il lavoro, come lo illustra il cristianesimo, è sì un mezzo ma per un fine che è così connesso con la persona da rendere il mezzo nobile e non un carcere.
Se il senso della vita è raggiungere la felicità, intensa in senso cattolico, cioè la beatitudine della vita eterna, allora ogni istante della mia vita deve essere non solo una occasione, ma anche un mezzo per aiutarmi a raggiungere questo fine. Questa è la novità che cambia il punto di vista e permette all'uomo di alzare lo sguardo: non più incatenato al suolo, costretto ad un lavoro che comunque sia è schiavitù, un faticare senza soddisfazione, senza scopo in sé. Una alienazione dunque, come interpreta il lavoro chi non vede che un orizzonte chiuso da ogni lato (nello spazio e nel cuore) come unico palcoscenico sul quale mettere in scena una lotta di classe che ben rappresenta il famoso homo homini lupus. Senza questo sguardo che introduce una profondità divina all'azione dell'uomo la fatica diventa l'elemento prevalente, lo sconforto segue e trova una soluzione solo se l'azione diventa idolo, diventa cioè sopraffazione dell'altro nella ricerca di una superiorità tutta materiale: lo sfruttamento del capitalista che dissangua l'operaio per assicurarsi una vita di piaceri o il piacere ricercato nella carriera, nel potere, nel riconoscimento di sé stesso. Una effimera gioia che la pensione, o la fine del lavoro, cancella con un tratto, gettando molti nella disperata depressione.
Se tutto invece è grazia e tutto concorre al bene, anche il lavoro rientra nel piano divino che eleva l'uomo alla santità. Come peraltro insegnano le Scritture. Due tra tutte: il compito assegnato da Dio all'uomo prima del peccato originale, è quello di coltivare il giardino. Non di limitarsi a goderlo standosene in panciolle. Il lavoro faceva parte fin dal principio del progetto di Dio sull'uomo, ciò che viene comminato come pena dal peccato originale non è il lavoro in sé, ma la fatica nel lavoro. L'uomo deve contribuire alla creazione lavorando e modificando il mondo in positivo, per renderlo sempre più “vivibile" in termine evangelico.
Lo stesso Gesù lavorava, fa notare san Josemaría Escrivá, il fondatore dell'Opus Dei, che tra tutti i santi può essere caratterizzato proprio dalla focalizzazione del ruolo del lavoro nella santificazione.
Gesù ha lavorato, con il padre prima da solo poi, per lunghi anni prima di iniziare l'attività messianica e “ha fatto bene ogni cosa", svolgendo con perfezione ogni singolo lavoro. E siccome il mandato che ognuno di noi riceve è di “essere perfetti come è perfetto il Padre mio nei cieli" a immagine di Gesù, anche il compito del cristiano è quello di svolgere il proprio lavoro con perfezione umana.
Perché dunque Escrivá si può permettere di affermare che il cristiano deve “santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro, santificare gli altri nel lavoro" e che cosa ha che fare questo con la pretesa cristiana che solo all'interno del senso cristiano della vita il lavoro è positivo?
Semplificando ecco le risposte che discendono proprio da quanti si qui affermato: il lavoro è il contributo che l'uomo può offrire a Dio, in virtù del sacerdozio comune conferito dal battesimo, per portare a compimento la creazione, operando con tutta la massima perfezione come Gesù.
Se poi teniamo conto che è proprio dell'uomo progredire o perdersi attraverso le proprie azioni, dato che ogni cosa che fa influenza ciò che è (l'azione agisce sia sull'oggetto che sul soggetto: se io rubo, divento ladro. La mia azione si riverbera su di me), allora è evidente che lo sforzo messo nel lavorare con perfezione umana, così come Gesù, per fare ben ogni cosa ha come conseguenza l'affinamento della persona: la pazienza nella relazione con i colleghi, la cura nel particolare, l'ordine nel lavoro per citare solo breve mente alcune possibilità, non si limitano a rendere il lavoro perfetto, ma si riflettono nell'autore, nell'uomo che le compie rendendolo caritatevole, affidabile, ordinato, cioè più virtuoso, quindi più santo.
Inoltre, così come Gesù annunciava la parola cuore a cuore lungo la spiaggia con i pescatori, per la strada con gli esattori, nel tempio con i cambiavalute,cioè sul luogo di lavoro, così il cristiano deve approfittare dell'amicizia che nasce tra colleghi per evangelizzarli, mostrare loro orizzonti inattesi, aprire il loro animo alla luce, grazie alla autorevolezza e alla stima che si sarà guadagnato con la qualità del suo lavoro, raggiunta non per affermare il proprio ego, per conquistare la vetta, ma per offrire a Dio il sacrificio di Abele e non quello di Caino.
Il lavoro diventa dunque al contempo mezzo, ma nobile, capace di formare l'uomo e aiutarlo nella sua lotta per conquistare il cielo, e fine, inteso come oggetto dell'offerta che l'uomo fa a Dio per sé e per gli altri.
Solo in questo senso e in questo ambito il lavoro perde ogni sua velenosità, perde i lati taglienti ed acidi, che in qualunque altro sistema di riferimento restano e si acuiscono. Secondo san Josemaría non esiste nessun lavoro onesto –questo va ricordato- che non sia santificabile. Laicamente diversi studiosi di management rilanciano il concetto parlando di perfezione e servizio: l'esempio dello spazzino che si impegna a rendere scintillante ogni mattonella è classico, ma solo all'interno del cristianesimo, che rimanda quella perfezione allo sguardo attento e soddisfatto di Dio che gradisce l'offerta, quello sforzo ha senso. Altrimenti perché darsi da fare con tale cura? Per i complimenti degli altri? Per una maggiore remunerazione? Per soddisfazione personale?
Sappiamo tutti quanto questi argomenti sono spesso solo pallide illusioni. Quanto tutto ciò sia effimero e aleatorio, dipendente dall'umore del capo o dei colleghi.
Solo se immerso e impregnato del valore cristiano il lavoro trova un sua dimensione che non lo isola dalla vita della persona, ma ne fa un prolungamento con ogni altro momento della propria esistenza.