Santità, una meta per tutti

“Al centro dell’annunzio evangelico c’è l’incarnazione per cui Dio e uomo s’incontrano talmente strettamente da avere in un uomo, Gesù di Nazaret, la suprema presenza ed epifania divina”. Riportiamo la risposta di mons. Ravasi a una lettera da Milano, pubblicata su “Il Sole 24 ore” del 3 novembre 2002.

Reverendo monsignore, lei tempo fa, recensendo libri di autori misti ci ha esaltato la contemplazione come sorgente di beatitudine e santità. Va, però, detto che in tempi a noi più vicini, il Concilio Vaticano II ha riscoperto la chiamata universale alla santità per ogni cristiano. Perciò la contemplazione, passaggio indispensabile per giungere alla beatitudine o santità, può essere praticata anche vivendo nel mondo e svolgendo le normali occupazioni. Un apostolo moderno della santità laicale, l'ormai santo Josemaría Escrivá, da lei ricordato sul Sole-24 Ore in un articolo in occasione della sua canonizzazione, raccontò di sé che un certo giorno «andava contemplando per le strade di Madrid con luci e ombre che non erano sue» (si veda J. Echevarría, Itinerari di Vita Cristiana, Ares 2001). Penso che lei condivida il mio assunto, e allora le chiederei di voler argomentare dalle colonne del giornale sulla possibilità di accedere alla beatitudine per ogni cristiano di buona volontà. Una parola di sprone verso la beatitudine può aiutare molti a vincere le paure di un mondo così agitato.

Bruno Mardegan – Milano

La proposta del nostro lettore in verità ci conduce nel cuore stesso del cristianesimo (e, per certi versi, nell'anima stessa di ogni esperienza religiosa autentica). Al centro dell'annunzio evangelico c'è, infatti, l'incarnazione per cui Dio e uomo s'incontrano talmente strettamente da avere in un uomo, Gesù di Nazaret, la suprema presenza ed epifania divina (si legga quel capolavoro, anche letterario, che è l'inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni). Questo evento fa sì che storia ed eterno non siano in dialettica ma s'intreccino tra loro e la genuina esperienza di fede non si consumi decollando dalla realtà contingente verso cieli mitici e mistici, ma incrociando le strade di Dio con quelle dell'uomo. E per questo che già i profeti di Israele esigevano che, per una vera fede, il culto s'unisse alla giustizia, il Credo alla vita sociale, l'ortodossia con l'orto-prassi. Basti solo citare il motto del profeta Osea (VIII secolo a.C.), caro anche a Gesù: «Misericordia io voglio —dice il Signore — e non sacrificio» (6, 6), laddove quella negazione paradossale, nel linguaggio semitico, dev'essere letta così: «Misericordia io voglio e non solo il sacrificio», cioè la pura e semplice spiritualità deve coniugarsi con l'esistenza giusta.

Ma la considerazione del dottor Mardegan va oltre e introduce il tema della pienezza della fede, cioè «la beatitudine o santità». Su questo argomento si consuma spesso un equivoco. Per molti la santità è una questione che riguarda alcuni mistici o qualche eroe della fede che vive in stati “estatici" o compie imprese tali da essere, sì, esemplari ma solo nel senso che sono da collocare nella “gloria del Bernini" o sulle pale degli altari per la pubblica devozione dei credenti. È sulla spinta di questo equivoco che si è pervenuti a una lettura deviata di una delle pagine capitali del Vangelo, le «Beatitudini» che aprono quella sorta di “Magna Charta" del cristianesimo che è il «Discorso della Montagna» di Gesù (Matteo, capitoli 5-7). Infatti quella sequenza: «Beati i poveri.., gli afflitti.., i miti.., gli affamati e assetati di giustizia..., i misericordiosi..., i puri di cuore.., gli operatori di pace..., i perseguitati per la giustizia... » è stata spesso interpretata come un progetto ideale di vita per religiosi e per mistici. In realtà, Cristo si rivolge ai "discepoli" che, nel linguaggio matteano, è sinonimo di “fedeli, cristiani". Si propone, così, una via di totalità e di pienezza per tutti, qualunque sia il livello di cultura o lo statuto sociale e professionale.

La “santità" è, perciò, la meta verso cui tendere senza posa da parte di tutti, secondo un'altra battuta dello stesso Discorso: «Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste» (Matteo 5,48). Il cristiano è, perciò, sempre in tensione (è l' inquietudine" agostiniana) e non concepisce la religione come una tassa morale da versare a Dio, così come (forse malvolentieri) si paga la tassa fiscale a Cesare. È, invece, un atteggiamento radicale e vitale, analogo all'amore, il quale costituisce la persona in una specie di status permanente: l'innamorato non è tale solo qualche ora al giorno, come la madre non ama suo figlio solo nei giorni feriali. Naturalmente la fragilità umana comporta abbassamenti di tensione e persino negazioni, ma l'attesa di Dio è sempre quella del padre della celebre parabola lucana del figlio prodigo (Luca 15, 11-24) e il perdono è sempre quello riservato all'adultera o a Pietro pentito o alle prostitute e ai peccatori incontrati da Gesù. Il signor Mardegan ha citato una battuta del nuovo santo, fondatore dell'Opus Dei. È dalla sua opera più nota, Cammino (edizione Ares), che traggo la conclusione del mio discorso: «Hai l'obbligo di santificarti. Anche tu. Chi pensa che la santità sia un impegno esclusivo di sacerdoti e religiosi? A tutti, senza eccezione, il Signore ha detto: Siate perfetti, com'è perfetto il Padre mio che è nei cieli... Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai».

Gianfranco Ravasi // Il Sole 24 ore