Prima enciclica di Benedetto XVI: il cristianesimo non reprime l’amore, lo eleva

Nel nono mese del suo pontificato, Benedetto XVI ha pubblicato la sua prima enciclica: “Deus caritas est” (“Dio è amore”) risponde ad una delle obiezioni più comuni presentate alla Chiesa: “La Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita?”.

L’enciclica risponde alla domanda articolandosi in due parti: la prima riflette sull’amore nelle sue varie manifestazione e nella sua origine, Dio; la seconda affronta il modo in cui la Chiesa, come istituzione, deve vivere il comandamento dell’amore.

La persona “oggetto”

Il Papa inizia spiegando un esempio di confusione generalizzata in base alla quale la Chiesa condannerebbe l’“eros” (l’amore d’attrazione) per accettare unicamente l’“agape” (l’amore di dedizione disinteressata).

“Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state”, riconosce il Vescovo di Roma nel numero 5.

Questa confusione si verifica quanto l’eros “degradato a puro ‘sesso’ diventa merce, una semplice ‘cosa’ che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce”.

Secondo il Papa, questa concezione dell’amore implica “una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico”.

Corpo e anima

“La fede cristiana, al contrario, ha considerato l'uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà”, afferma il Papa.

Sicuramente, insiste l’enciclica, “l’eros vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni”.

Lo sviluppo dell’amore “verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni”, spiega, implica “che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività – ‘solo quest'unica persona’ – e nel senso del ‘per sempre’”.

In questo modo, constata, “l’eros rimanda l'uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua intima destinazione. All'immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico”.

Il testo riconosce che l'“amore è ‘estasi’, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio”.

Cristo, modello dell’amore “più radicale”

L’esempio “più radicale” di questo amore, secondo il successore di Pietro, è Cristo sulla croce, quando “si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo”.

“È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare”, sottolinea.

La società ha bisogno d’amore

La seconda parte dell’enciclica ha per titolo “L’esercizio dell’amore da parte della Chiesa quale ‘comunità d’amore’”.

Il testo riconosce che l’amore “sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore”.

“Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo”, constata

“Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l'amorevole dedizione personale”, avverte il Papa.

Il sogno del marxismo, che “aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione”, “è svanito”.

L’enciclica propone “non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto”.

La Chiesa, afferma, “è una di queste forze vive”, che con la sua attività di carità “non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale”.

L’attività caritativa ecclesiale

In questo contesto, il Papa offre in tre idee “il profilo specifico dell’attività caritativa della Chiesa”.

In primo luogo, segnala, “l’attività caritativa cristiana, oltre che sulla competenza professionale, deve basarsi sull’esperienza di un incontro personale con Cristo, il cui amore ha toccato il cuore del credente suscitando in lui l’amore per il prossimo”.

In secondo luogo, “l’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno”.

Il programma del cristiano è “il programma di Gesù”: “un cuore che vede”. “Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l'attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili”.

In terzo luogo, la carità “non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L'amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi”. “Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l'amore. Egli sa che Dio è amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché amare”.

Come faceva anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha riportato nella sua conclusione gli esempi di carità lasciati dai santi – in tre occasioni cita la Beata Madre Teresa di Calcutta – e conclude con un dialogo con la Vergine Maria, che “ci mostra che cos'è l'amore e da dove esso trae la sua origine, la sua forza sempre rinnovata”.

    ZENIT.org