Papa Francesco a Panama per la Giornata Mondiale della Gioventù

Dal 23 al 28 gennaio 2019 papa Francesco è stato a Panama per la trentasettesima Giornata Mondiale della Gioventù. In questo articolo riportiamo i suoi interventi.

Giovedì, 24 gennaio 2019

10:40 Incontro con le Autorità, con il Corpo Diplomatico e con Rappresentanti della Società nel Palacio Bolivar – Ministero degli Affari Esteri

11:15 Incontro con i Vescovi centroamericani nella chiesa di S. Francisco de Asis

17:30 Cerimonia di accoglienza e apertura della GMG nel Campo Santa Maria la Antigua – Cinta Costera

Venerdì, 25 gennaio 2019

10:30 Liturgia penitenziale con i giovani privati della libertà nel Centro de Cumplimiento de Menores Las Garzas de Pacora

17:30 Via Crucis con i giovani nel Campo Santa Maria la Antigua – Cinta Costera

Sabato, 26 gennaio 2019

9:15 Santa Messa con la dedicazione dell’altare della Cattedrale Basilica di Santa Maria la Antigua con Sacerdoti, Consacrati e Movimenti Laicali

18:30 Veglia con i giovani nel Campo San Juan Pablo II – Metro Park

Domenica, 27 gennaio 2019

8:00 Santa Messa per la Giornata Mondiale della Gioventù nel Campo San Juan Pablo II – Metro

10:45 Visita alla Casa Hogar del Buen samaritano

Angelus

16:30 Incontro con i volontari della GMG nello Stadio Rommel Fernandez


Incontro con le autorità, con il corpo diplomatico e con rappresentanti della società

La ringrazio, Signor Presidente, per le Sue parole di benvenuto e il Suo gentile invito a visitare questa Nazione. Nella Sua persona desidero salutare e ringraziare tutto il popolo panamense che, da Darién fino a Chiriquí e Bocas del Toro, ha compiuto uno sforzo inestimabile per accogliere tanti giovani provenienti da ogni parte del mondo. Grazie per averci aperto le porte di casa.

Inizio il mio pellegrinaggio in questo storico luogo dove Simón Bolívar – come ha appena ricordato il Signor Presidente – affermò che “se il mondo dovesse scegliere la sua capitale, l’istmo di Panama sarebbe segnalato per questo augusto destino”, e convocò i leader del suo tempo per forgiare il sogno dell’unificazione della Patria Grande. Una convocazione che ci aiuta a comprendere che i nostri popoli sono capaci di creare, forgiare e soprattutto, sognare una patria grande che sappia e possa accogliere, rispettare e abbracciare la ricchezza multiculturale di ogni popolo e cultura. Seguendo questa ispirazione possiamo contemplare Panama come una terra di convocazione e come una terra di sogno.

1. Panama è una terra di convocazione

Così lo manifestò il Congresso Anfizionico, e così lo manifesta anche oggi l’arrivo di migliaia di giovani che portano con sé il desiderio e la voglia di incontrarsi e di celebrare.

Il vostro Paese, per la sua posizione privilegiata, rappresenta un luogo strategico non soltanto per la regione, ma per il mondo intero. Ponte tra gli oceani e terra naturale di incontri, Panama, il Paese più stretto di tutto il continente americano, è simbolo della sostenibilità che nasce dalla capacità di creare legami e alleanze. Questa capacità contrassegna il cuore del popolo panamense.

Ciascuno di voi occupa un posto speciale nella costruzione della Nazione ed è chiamato a far in modo che questa terra possa adempiere la sua vocazione di essere terra di convocazione e di incontri; questo implica la decisione, l’impegno e il lavoro quotidiano affinché tutti gli abitanti di questo territorio abbiano l’opportunità di sentirsi attori del proprio destino, di quello delle loro famiglie e dell’intera Nazione. È impossibile pensare il futuro di una società senza la partecipazione attiva – e non solo nominale – di ciascuno dei suoi membri, in modo tale che la dignità sia riconosciuta e garantita attraverso l’accesso all’istruzione di qualità e la promozione di un lavoro degno. Entrambe queste realtà sono in grado di aiutare a riconoscere e valorizzare la genialità e il dinamismo creativo di questo popolo e, nel medesimo tempo, sono il miglior antidoto contro qualsiasi tipo di tutela che pretenda di restringere la libertà e sottometta o trascuri la dignità di cittadini, specialmente quella dei più poveri.

Il “genio” proprio di queste terre è contrassegnata dalla ricchezza dei suoi popoli nativi: Bribri, Buglé, Emberá, Kuna, Nasoteribe, Ngäbe e Waunana, che tanto hanno da dire e da ricordare a partire dalla loro cultura e visione del mondo: ad essi va il mio saluto e la mia riconoscenza. E non smette di essere un segno di speranza il fatto che questa Giornata della Gioventù sia iniziata una settimana fa con la Giornata dei giovani dei popoli indigeni e la Giornata dei giovani di discendenza africana. Vi saluto da qui e vi ringrazio per aver fatto questo primo passo di questa Giornata Mondiale della Gioventù. Essere terra di convocazione implica celebrare, riconoscere e ascoltare lo specifico di ognuno di questi popoli e di tutti gli uomini e le donne che formano il volto panamense e saper tessere un futuro aperto alla speranza, perché si è capaci di difendere il bene comune al di sopra degli interessi di pochi o al servizio di pochi soltanto quando esiste la ferma decisione di condividere con giustizia i propri beni.

Le nuove generazioni, con la loro gioia e il loro entusiasmo, con la loro libertà, sensibilità e capacità critica, esigono dagli adulti, ma specialmente da tutti quelli che detengono un ruolo direttivo nella vita pubblica, di avere una condotta conforme alla dignità e autorità che rivestono e che è stata loro affidata. È un invito a vivere con austerità e trasparenza, nella concreta responsabilità per gli altri e per il mondo; un invito a condurre una vita che dimostri che il servizio pubblico è sinonimo di onestà e giustizia, e il contrario di qualsiasi forma di corruzione. Essi esigono un impegno, nel quale tutti – incominciando da quanti ci diciamo cristiani – abbiamo l’audacia di costruire «una politica autenticamente umana» (Cost. past. Gaudium et spes, 73), che ponga la persona al centro come cuore di tutto; e questo spinge a creare una cultura di maggiore trasparenza tra i governi, il settore privato e tutta la popolazione, come recita quella bella preghiera che voi avete per la Patria: “Dacci il pane quotidiano: che possiamo mangiarlo nella nostra casa e con la salute degna di esseri umani”.

2. Oltre che terra di convocazione, il Panama è una terra di sogni

In questi giorni Panama non solo verrà ricordato come centro della regionale o punto strategico per il commercio e per il transito di persone; si trasformerà in un “hub” della speranza. Punto d’incontro dove giovani provenienti dai cinque continenti, pieni di sogni e speranze, celebreranno, si incontreranno, pregheranno e ravviveranno il desiderio e l’impegno di creare un mondo più umano. In questo modo sfideranno le miopi vedute a corto raggio che, sedotte dalla rassegnazione, dall’avidità, o prigioniere del paradigma tecnocratico, credono che l’unica strada possibile passi per il «gioco della competitività», della speculazione, «e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 53), chiudendo il futuro ad una nuova prospettiva per l’umanità. Offrendo ospitalità ai sogni di questi giovani, oggi Panama diventa terra di sogni che sfida tante certezze del nostro tempo e crea orizzonti vitali, che indicano una nuova consistenza al procedere con uno sguardo nuovo, rispettoso e pieno di compassione verso gli altri. Durante questo tempo saremo testimoni dell’apertura di nuovi canali di comunicazione e di comprensione, di solidarietà, di creatività e aiuto reciproco; canali a misura d’uomo che diano impulso all’impegno e rompano l’anonimato e l’isolamento in vista di un nuovo modo di costruire la storia.

Un altro mondo è possibile, lo sappiamo e i giovani ci invitano a coinvolgerci nella sua costruzione affinché i sogni non rimangano qualcosa di effimero o etereo, affinché diano impulso ad un patto sociale nel quale tutti possano avere l’opportunità di sognare un domani: anche il diritto al futuro è un diritto umano.

In questo orizzonte sembrano prendere corpo le parole di Ricardo Miró, il quale, cantando alla patria tanto amata, diceva: “Perché vedendoti, o Patria, si direbbe / che ti ha formato la volontà divina / affinché sotto il sole che ti illumina / si unisse in te l’umanità intera” (Patria de mis amores).

Vi rinnovo il mio ringraziamento per tutto quello che avete fatto – soprattutto Lei, Signor Presidente – affinché questo incontro fosse possibile ed esprimo a Lei nuovamente, Signor Presidente, a tutti i presenti e a coloro che ci seguono attraverso i mezzi di comunicazione, i miei migliori auspici per una rinnovata speranza e gioia nel servizio al bene comune.

Santa Maria La Antigua benedica e protegga il Panama!


Incontro con i Vescovi centroamericani nella chiesa di S. Francisco de Asis

Ringrazio Mons. José Luis Escobar Alas, Arcivescovo di San Salvador, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti. Incontro qui degli amici di gioventù: questo è molto bello… Sono felice di potervi incontrare e condividere in modo più familiare e diretto i vostri desideri, progetti e sogni di Pastori ai quali il Signore ha affidato la cura del suo popolo santo. Grazie per l'accoglienza fraterna.

Potermi incontrare con voi significa anche “regalarmi” l’opportunità di abbracciare e sentirmi più vicino alla vostra gente, fare miei i loro desideri, anche il loro scoraggiamento e, soprattutto, quella fede coraggiosa che sa animare la speranza e smuovere la carità. Grazie per avermi permesso di avvicinarmi alla fede provata ma semplice del volto povero della vostra gente che sa che «Dio è presente, non dorme, è attivo, osserva e aiuta» (S. Oscar Romero, Omelia, 16 dicembre 1979).

Questo incontro ci ricorda un evento ecclesiale di grande rilevanza. I Pastori di questa regione furono i primi a creare in America un organismo di comunione e partecipazione che ha dato - e continua a dare - frutti abbondanti. Mi riferisco al Segretariato Episcopale dell’America Centrale, il SEDAC. Uno spazio di comunione, di discernimento e di impegno che nutre, rivitalizza e arricchisce le vostre Chiese. Pastori che hanno saputo fare passi avanti e dare un segnale che, lungi dall’essere solo un elemento programmatico, ha indicato come il futuro dell’America Centrale – e di qualunque altra regione del mondo – passa necessariamente attraverso la lucidità e la capacità di ampliare la visione, di unire gli sforzi in un lavoro paziente e generoso di ascolto, comprensione, dedizione e impegno, e di poter così discernere i nuovi orizzonti verso i quali lo Spirito ci sta conducendo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 235).

Voglio tener presente la memoria di Pastori che, spinti dal loro zelo pastorale e dal loro amore per la Chiesa, hanno dato vita a questo organismo ecclesiale, come Mons. Luis Chávez y González, arcivescovo di San Salvador, e Mons. Victor Sanabria, arcivescovo di San José di Costa Rica, tra gli altri.

In questi 75 anni dalla sua fondazione, il SEDAC ha cercato di condividere le gioie e le tristezze, le lotte e le speranze dei popoli dell’America Centrale, la cui storia è stata intrecciata e forgiata con la storia della vostra gente. Molti uomini e donne, sacerdoti, consacrati, consacrate e laici hanno offerto la vita fino a spargere il loro sangue per mantenere viva la voce profetica della Chiesa di fronte all’ingiustizia, all’impoverimento di tante persone e all’abuso di potere. Ricordo che, quando ero giovane sacerdote, il nome di alcuni di voi era considerato una brutta parola, e la vostra costanza ha indicato la strada: grazie. Essi ci ricordano che «chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 107). E questo, non come elemosina ma come vocazione.

Tra i frutti profetici della Chiesa in America Centrale sono lieto di evidenziare la figura di Sant’Oscar Romero, che ho avuto il privilegio di canonizzare di recente nel contesto del Sinodo dei Vescovi sui giovani. La sua vita e il suo insegnamento sono fonte di ispirazione per le nostre Chiese e, in modo particolare, per noi Vescovi. Anche il suo nome venne considerato una brutta parola: sospettato, scomunicato nelle chiacchiere private di tanti vescovi.

Il motto che ha scelto per il suo stemma episcopale e che sormonta la sua tomba esprime chiaramente il suo principio ispiratore e ciò che è stata la sua vita di Pastore: “Sentire con la Chiesa”. Bussola che ha segnato la sua vita nella fedeltà, anche nei momenti più turbolenti.

Questa è un’eredità che può diventare una testimonianza attiva e vivificante per noi, chiamati a nostra volta alla dedizione martiriale nel servizio quotidiano alla nostra gente; e su questa eredità vorrei basarmi per questa riflessione: “sentire con la Chiesa”. La riflessione che voglio condividere con voi, sulla figura di Romero. So che tra noi ci sono persone che lo hanno conosciuto in prima persona — come il Cardinale Rosa Chávez… Il cardinale Quarracino diceva che era candidato al Premio Nobel per la fedeltà! E quindi, Eminenza, se pensa che io mi sbagli in qualche osservazione mi può correggere, non c’è problema. Appellarsi alla figura di Romero significa appellarsi alla santità e al carattere profetico che vive nel DNA delle vostre Chiese particolari.

Sentire con la Chiesa

1. Riconoscenza e gratitudine

Quando S. Ignazio propone le regole per sentire con la Chiesa – scusate la pubblicità – cerca di aiutare l’esercitante a superare qualsiasi tipo di false dicotomie o antagonismi che possano ridurre la vita dello Spirito alla abituale tentazione di adattare la Parola di Dio al proprio interesse. Così permette all’esercitante la grazia di sentirsi e sapersi parte di un corpo apostolico più grande di lui e, nello stesso tempo, con la consapevolezza reale delle sue forze e delle sue possibilità: né debole né selettivo o temerario. Sentirsi parte di un tutto, che sarà sempre più della somma delle parti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 235) e che è accompagnato da una Presenza che sempre lo supererà (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 8).

Quindi vorrei concentrare questo primo “Sentire con la Chiesa”, ricevuto da Sant’Oscar, come ringraziamento, ossia gratitudine per il tanto bene ricevuto e non meritato. Romero ha potuto sintonizzarsi e imparare a vivere la Chiesa perché amava intimamente chi lo aveva generato nella fede. Senza questo amore intimo sarà molto difficile comprendere la sua storia e la sua conversione, poiché è stato questo medesimo amore a guidarlo fino a donarsi nel martirio; quell’amore che nasce dall’accogliere un dono totalmente gratuito, che non ci appartiene e che ci libera da ogni pretesa e tentazione di crederci i suoi proprietari o gli unici interpreti. Non abbiamo inventato la Chiesa, non è nata con noi e andrà avanti senza di noi. Tale atteggiamento, lungi dall’abbandonarci all’apatia, suscita un’insondabile e inimmaginabile gratitudine che dà nutrimento a tutto. Il martirio non è sinonimo di pusillanimità o l'atteggiamento di qualcuno che non ama la vita e non sa riconosce il suo valore. Al contrario, il martire è colui che è in grado di incarnare e tradurre in vita questo rendimento di grazie.

Romero ha sentito con la Chiesa perché, prima di tutto, ha amato la Chiesa come madre che lo ha generato nella fede e si è sentito membro e parte di essa.

2.Un amore che sa di popolo

Questo amore, fatto di adesione e gratitudine, lo ha portato ad abbracciare con passione, ma anche con dedizione e studio, tutto l’apporto e il rinnovamento magisteriale che il Concilio Vaticano II proponeva. Lì trovava la mano sicura per seguire Cristo. Non è stato ideologo né ideologico; la sua azione è nata da una compenetrazione con i documenti conciliari. Illuminato da questo orizzonte ecclesiale, sentire con la Chiesa significa per Romero contemplarla come Popolo di Dio. Perché il Signore non ha voluto salvarci ciascuno isolato e separato, ma ha voluto costituire un popolo che lo confessasse nella verità e lo servisse nella santità (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 9). Un Popolo intero che possiede, custodisce e celebra l’ “unzione del Santo” (ibid., 12) e davanti al quale Romero si poneva in ascolto per non rifiutare la sua ispirazione (cfr S. Oscar Romero, Omelia, 16 luglio 1978). Così ci mostra che il Pastore, per cercare e incontrare il Signore, deve imparare e ascoltare il battito del cuore del suo popolo, sentire l’ “odore” degli uomini e delle donne di oggi fino a rimanere impregnato delle sue gioie e speranze, delle sue tristezze e angosce (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 1) e così comprendere in profondità la Parola di Dio (cfr Cost. dogm. Dei Verbum, 13). Ascolto del popolo a lui affidato, fino a respirare e scoprire per mezzo di esso la volontà di Dio che ci chiama (cfr Discorso nella veglia in preparazione al Sinodo sulla famiglia, 4 ottobre 2014). Senza dicotomie o falsi antagonismi, perché solo l’amore di Dio è capace di armonizzare tutti i nostri amori in un medesimo sentire e guardare.

Per lui, insomma, sentire con la Chiesa è prendere parte alla gloria della Chiesa, che consiste nel portare nel proprio intimo tutta la kenosis di Cristo. Nella Chiesa Cristo vive tra di noi, e perciò essa dev’essere umile e povera, perché una Chiesa arrogante, una chiesa piena di orgoglio, una Chiesa autosufficiente non è la Chiesa della kenosis (cfr S. Oscar Romero, Omelia, 1° ottobre 1978).

3. Portare dentro di sé la kenosisdi Cristo

Questa non è solo la gloria della Chiesa, ma anche una vocazione, un invito affinché sia nostra gloria personale e via di santità. La kenosis di Cristo non è una cosa del passato ma una garanzia attuale per sentire e scoprire la sua presenza operante nella storia. Presenza che non possiamo e non vogliamo tacere perché sappiamo e abbiamo sperimentato che solo Lui è “Via, Verità e Vita”. La kenosis di Cristo ci ricorda che Dio salva nella storia, nella vita di ogni uomo, che questa è anche la sua storia e lì ci viene incontro (cfr Id., Omelia, 7 dicembre 1978). È importante, fratelli, che non abbiamo paura di accostare e toccare le ferite della nostra gente, che sono anche le nostre ferite, e questo farlo nello stile del Signore. Il pastore non può stare lontano dalla sofferenza del suo popolo; anzi, potremmo dire che il cuore del pastore si misura dalla sua capacità di commuoversi di fronte a tante vite ferite e minacciate. Farlo nello stile del Signore significa lasciare che questa sofferenza colpisca e contrassegni le nostre priorità e i nostri gusti, colpisca e contrassegni l’uso del tempo e del denaro e anche il modo di pregare, per poter ungere tutto e tutti con la consolazione dell’amicizia di Gesù in una comunità di fede che contenga e apra un orizzonte sempre nuovo che dia senso e speranza alla vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49). La kenosis di Cristo esige di abbandonare la virtualità dell’esistenza e dei discorsi per ascoltare il rumore e il richiamo costante di persone reali che ci provocano a creare legami. E, lasciatemelo dire, le reti servono a creare contatti ma non radici, non sono in grado di darci appartenenza, di farci sentire parte di uno stesso popolo. Senza questo sentire, tutto il nostro parlare, riunirci, incontrarci, scrivere sarà segno di una fede che non ha saputo accompagnare la kenosis del Signore, una fede che è rimasta a metà strada. Ricordo un pensatore latinoamericano [diceva che], peggio ancora, finisce per essere una religione con un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa e una Chiesa senza popolo.

La kenosis di Cristo è giovane

Questa Giornata Mondiale della Gioventù è un’occasione unica per andare incontro e avvicinarsi ancora di più alla realtà dei nostri giovani, realtà piena di speranze e desideri, ma anche profondamente segnata da tante ferite. Con loro potremo leggere in modo rinnovato la nostra epoca e riconoscere i segni dei tempi perché, come hanno affermato i Padri sinodali, i giovani sono uno dei “luoghi teologici” in cui il Signore ci fa conoscere alcune delle sue aspettative e delle sue sfide per costruire domani (cfr Sinodo sui Giovani, Documento finale, 64). Con loro possiamo vedere meglio come rendere il Vangelo più accessibile e credibile nel mondo in cui viviamo; essi sono come un termometro per sapere a che punto siamo come comunità e come società.

Essi portano dentro una inquietudine che dobbiamo apprezzare, rispettare, accompagnare; e quanto bene fa a tutti noi, perché ci smuove e ci ricorda che il Pastore non smette mai di essere un discepolo ed è sempre in cammino. Questa sana inquietudine ci mette in movimento e ci precede. Questo hanno ricordato i Padri sinodali quando hanno detto: «I giovani, per certi aspetti, precedono i Pastori» (ibid., 66). Il Pastore, rispetto al suo gregge, non sempre cammina davanti: a volte deve andare avanti per indicare la strada; a volte deve stare in mezzo per “fiutare” cosa succede, per capire il gregge; a volte deve stare indietro per proteggere gli ultimi, che nessuno resti indietro e diventi materiale di scarto. A volte deve riempirci di gioia constatare che la semina non è andata a vuoto. Molte di quelle aspirazioni e intuizioni dei giovani si sono sviluppate in seno alla famiglia, nutrite da una nonna o da una catechista. Parlando delle nonne, già è la seconda volta che la vedo: l’ho vista ieri e la vedo oggi, una vecchietta, magrolina, della mia età o anche di più, con mitra, si era messa una mitra che si era fatta col cartone, e un cartello che diceva: “Santità, anche le nonne fanno chiasso”. Una meraviglia di gente! E i giovani hanno imparato le cose in famiglia o nella parrocchia, nella pastorale educativa o giovanile. Desideri che sono cresciuti nell’ascolto del Vangelo e in comunità con fede viva e fervente che trova terra per germogliare. Come non ringraziare di avere giovani desiderosi di Vangelo! Certo che stancano, certo che a volte danno fastidio. Mi viene in mente questa frase che diceva un filosofo greco, la diceva di sé stesso, a proposito dei giovani: “[I giovani] sono come un tafano sulla groppa di un nobile cavallo, perché non si addormenti”. Il cavallo siamo noi! Questa realtà ci stimola a un maggiore impegno per aiutarli a crescere offrendo loro spazi maggiori e migliori che li generino al sogno di Dio. La Chiesa per sua natura è Madre e come tale genera e incuba la vita proteggendola da tutto ciò che può minacciare il suo sviluppo. Gestazione nella libertà e per la libertà. Vi esorto pertanto a promuovere programmi e centri educativi che sappiano accompagnare, sostenere e responsabilizzare i vostri giovani; per favore, “rubateli” alla strada prima che sia la cultura della morte che, “vendendo loro fumo” e soluzioni magiche, catturi e sfrutti la loro inquietudine e la loro immaginazione. E fatelo non con paternalismo, perché non lo sopportano, non dall’alto in basso, perché non è nemmeno questo che il Signore ci chiede, ma come padri, come fratelli verso fratelli. Essi sono volto di Cristo per noi e a Cristo non possiamo arrivare dall’alto in basso, ma dal basso in altro (cfr S. Oscar Romero, Omelia, 2 settembre 1979).

Sono molti i giovani che purtroppo sono stati sedotti con risposte immediate che ipotecano la vita. E tanti altri ai quali è stata data un’illusione di corto respiro in alcuni movimenti, e che poi li rendono o pelagiani o convinti di bastare a sé stessi, e poi li abbandonano a metà strada. Ci dicevano i Padri sinodali: per costrizione o mancanza di alternative i giovani si trovano immersi in situazioni fortemente conflittuali e senza rapida soluzione: violenza domestica, femminicidio – che piaga vive il nostro continente in questo! – bande armate e criminali, traffico di droga, sfruttamento sessuale di minori e non più minori, e così via; e fa male vedere che, alla base di molte di queste situazioni, ci sono esperienze di orfanezza frutto di una cultura e di una società che è “impazzita” [se fue “desmadrando”] – senza madre, li ha resi orfani. Famiglie molto spesso logorate da un sistema economico che non mette al primo posto le persone e il bene comune e che ha fatto della speculazione il suo “paradiso” dove continuare a ingrassare non importa a spese di chi. E così i nostri giovani senza il calore di una casa, senza famiglia, senza comunità, senza appartenenza, sono lasciati in balìa del primo truffatore.

Non dimentichiamo che «un vero dolore che esce dall’uomo, appartiene anzitutto a Dio» (G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 72). Non separiamo ciò che Egli ha voluto unire nel suo Figlio!

Il futuro esige che si rispetti il presente riconoscendo la dignità delle culture dei vostri popoli e impegnandosi a valorizzarle. Anche in questo si gioca la dignità: nell’autostima culturale. La vostra gente non è la “serie B” della società e di nessuno. Ha una storia ricca che va accettata, apprezzata e incoraggiata. I semi del Regno sono stati piantati in queste terre. Abbiamo il dovere di riconoscerli, prendercene cura e proteggerli perché niente di quello che Dio ha piantato di buono si secchi a causa di interessi falsi che diffondono dappertutto la corruzione e crescono spogliando i più poveri. Avere cura delle radici è tutelare il ricco patrimonio storico, culturale e spirituale che questa terra per secoli ha saputo amalgamare. Impegnatevi e alzate la voce contro la desertificazione culturale, contro la desertificazione spirituale dei vostri popoli, che produce un’indigenza radicale perché lascia senza quella indispensabile immunità vitale che mantiene la dignità nei momenti di maggiore difficoltà. E mi congratulo con voi per l’iniziativa di iniziare questa Giornata Mondiale della Gioventù con la Giornata della gioventù indigena – credo nella diocesi di David – e con la Giornata della gioventù di origine africana: questo è stato un buon passo per mostrare le molte sfaccettature del nostro popolo.

Nell’ultima lettera pastorale, voi affermate: «Ultimamente la nostra regione è stata colpita dalla migrazione fatta in un modo nuovo, essendo di massa e organizzata, e ciò ha messo in evidenza i motivi che causano una migrazione forzata e i pericoli che essa comporta per la dignità della persona umana» (SEDAC, Messaggio al Popolo di Dio e a tutti gli uomini di buona volontà, 30 novembre 2018).

Molti dei migranti hanno volto giovane, cercano qualcosa di meglio per le loro famiglie, non temono di rischiare e lasciare tutto pur di offrire le condizioni minime che garantiscano un futuro migliore. Su questo non basta solo la denuncia, ma dobbiamo anche annunciare concretamente una “buona notizia”. La Chiesa, grazie alla sua universalità, può offrire quell’ospitalità fraterna e accogliente in modo che le comunità di origine e quelle di arrivo dialoghino e contribuiscano a superare paure e diffidenze e rafforzino i legami che le migrazioni, nell’immaginario collettivo, minacciano di spezzare. “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare” la gente possono essere i quattro verbi con cui la Chiesa, in questa situazione migratoria, coniuga la sua maternità nell’oggi della storia (cfr Sinodo sui Giovani, Documento finale, 147). Il vicario generale di Parigi, mons. Benoist de Sinety, ha appena pubblicato un libro che ha come sottotitolo: “Accogliere i migranti”. Un appello al coraggio; è una gioia, questo libro. Lui è qui, alla Giornata.

Tutti gli sforzi che potrete compiere gettando ponti tra comunità ecclesiali, parrocchiali, diocesane, come pure mediante le Conferenze episcopali saranno un gesto profetico della Chiesa che in Cristo è «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Cost. dogm. Lumen gentium, 1). E così la tentazione di limitarsi alla mera denuncia svanisce e si attua l’annuncio della Vita nuova che il Signore ci dona.

Ricordiamo l’esortazione di San Giovanni: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv3,17-18).

Tutte queste situazioni pongono domande, sono situazioni che ci chiamano alla conversione, alla solidarietà e a un’azione educativa incisiva nelle nostre comunità. Non possiamo rimanere indifferenti (cfr Sinodo sui Giovani, Documento finale, 41-44). Il mondo scarta, lo spirito del mondo scarta, lo sappiamo e ne soffriamo; la kenosis di Cristo no, l’abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentarlo nella nostra stessa carne con il perdono e la conversione. Questa tensione ci costringe a chiederci continuamente: da che parte vogliamo stare?

La kenosisdi Cristo è sacerdotale

Sono ben noti l’amicizia di Mons. Romero con il P. Rutilio Grande e l’impatto che l’assassinio di quest’ultimo ebbe sulla sua vita. È stato un avvenimento che ha marchiato a fuoco il suo cuore di uomo, di sacerdote e di pastore. Romero non era un amministratore di risorse umane, non gestiva persone o organizzazioni, Romero sentiva, sentiva con amore di padre, amico e fratello. Una misura un po’ alta, ma una misura utile per valutare il nostro cuore episcopale, una misura davanti alla quale possiamo chiederci: quanto mi tocca la vita dei miei preti? Quanto riesco a lasciarmi colpire da ciò che vivono, dal piangere i loro dolori, dal festeggiare e gioire per le loro gioie? Il funzionalismo ecclesiale e il clericalismo – così tristemente diffuso, che rappresenta una caricatura e una perversione del ministero – si comincia a misurarlo con queste domande. Non è questione di cambiamenti negli stili, nelle maniere o nel linguaggio – tutte cose certamente importanti –, ma soprattutto è una questione di impatto e della capacità che i nostri programmi episcopali abbiano spazio per ricevere, accompagnare e sostenere i nostri sacerdoti, abbiano “spazio reale” per occuparci di loro. Questo fa di noi dei padri fecondi.

Su di loro normalmente ricade in modo speciale la responsabilità che questo popolo sia il popolo di Dio. Loro sono in prima linea. Portano sulle spalle il peso della giornata e il caldo (cfr Mt 20,12), sono esposti a una serie di situazioni quotidiane che possono renderli più vulnerabili e, pertanto, hanno anche bisogno della nostra vicinanza, della nostra comprensione e dell’incoraggiamento, hanno bisogno della nostra paternità. Il risultato del lavoro pastorale, dell’evangelizzazione nella Chiesa e della missione non si basa sulla ricchezza dei mezzi e sulle risorse materiali, o sulla quantità di eventi o attività che realizziamo, ma sulla centralità della compassione: una delle grandi caratteristiche che come Chiesa possiamo offrire ai nostri fratelli. Mi preoccupa come la compassione abbia perso la sua centralità nella Chiesa. Anche i gruppi cattolici l’hanno persa – o la stanno perdendo, per non essere pessimisti. Anche nei mezzi di comunicazione cattolici, la compassione non c’è. C’è lo scisma, la condanna, la cattiveria, l’accanimento, la sopravvalutazione di sé, la denuncia dell’eresia… Che non si perda nella nostra Chiesa la compassione, e non si perda nel vescovo la centralità della compassione. La kenosis di Cristo è l’espressione massima della compassione del Padre. La Chiesa di Cristo è la Chiesa della compassione, e questo inizia a casa. È sempre buona cosa chiederci come pastori: quanto mi tocca la vita dei miei sacerdoti? Sono capace di essere un padre o mi consolo con l’essere un mero esecutore? Mi lascio scomodare? Ricordo le parole di Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato parlando ai suoi connazionali: «Cristo non ci ha promesso una vita comoda. Chi cerca la comodità con Lui ha sbagliato strada. Egli ci mostra il percorso che porta alle cose grandi, al bene, a una vita umana autentica» (Discorso ai pellegrini tedeschi, 25 aprile 2005). Il vescovo deve crescere ogni giorno nella capacità di lasciarsi scomodare, di essere vulnerabile per i suoi preti. Penso a un vescovo, un vescovo emerito di una diocesi grande, gran lavoratore, faceva le udienze tutti i giorni al mattino e spesso, molto spesso, quando finiva le udienze del mattino e non vedeva l’ora di andare a mangiare, c’erano lì due preti che non erano nell’agenda ad aspettarlo. E lui tornava indietro e li ascoltava come se avesse tutta la mattina davanti. Lasciarsi scomodare e lasciare che la pasta si scuocia e che la bistecca si raffreddi. Lasciarsi scomodare dai sacerdoti.

Sappiamo che il nostro lavoro, nelle visite e negli incontri che svolgiamo, specialmente nelle parrocchie, ha una dimensione e una componente amministrativa che è necessario portare avanti. Bisogna assicurarsi che venga fatto, ma questo non significa che spetti a noi utilizzare il poco tempo che abbiamo in adempimenti amministrativi. Nelle visite, la cosa fondamentale e che non possiamo delegare è l’ascolto. Ci sono tante cose che facciamo ogni giorno che dovremmo affidare ad altri. Quello che non possiamo delegare, invece, è la capacità di ascoltare, la capacità di seguire la salute e la vita dei nostri sacerdoti. Non possiamo delegare ad altri la porta aperta per loro. Porta aperta per creare le condizioni che rendano possibile la fiducia più che la paura, la sincerità più che l’ipocrisia, lo scambio franco e rispettoso più che il monologo disciplinare.

Ricordo le parole del beato Rosmini – accusato di eresia e oggi beato –: «Certo, solo grandi uomini possono formare altri grandi uomini […]. Nei primi secoli, la casa del vescovo era il seminario dei preti e dei diaconi; la presenza e la santa conversazione del loro prelato era un’infuocata lezione, continua, sublime, dove si apprendeva la teoria nelle sue dotte parole, congiunta alla pratica nelle sue assidue occupazioni pastorali. E in tal modo accanto agli Alessandri si vedevano allora crescere bellamente i giovani Atanasi» (Delle cinque piaghe della santa Chiesa, Brescia 1966, 40).

È importante che il sacerdote trovi il padre, il pastore in cui “rispecchiarsi” e non l’amministratore che vuole “passare in rivista le truppe”. È fondamentale che, con tutte le cose in cui ci differenziamo e anche quelle in cui non siamo d’accordo e le discussioni che possono esserci (ed è normale e auspicabile che ci siano), i preti vedano nel vescovo un uomo capace di spendersi ed esporsi per loro, di farli andare avanti e tendere loro la mano quando si trovano impantanati. Un uomo di discernimento che sappia orientare e trovare vie concrete e praticabili nei diversi incroci di ogni storia personale. Quando ero in Argentina, a volte sentivo persone che dicevano: “Ho chiamato il vescovo – preti – e la segretaria mi ha detto che aveva l’agenda piena, che richiamassi tra venti giorni, adesso era tutto pieno; e non mi ha chiesto cosa volevo, niente. “Vorrei vedere il Vescovo” – “Non può, la metto in lista”. È chiaro che dopo il prete non ha chiamato più, ed è andato avanti con quello che voleva chiedergli – bene o male – dentro di sé. Questo è non un consiglio, ma una cosa vi dico dal cuore: se avete l’agenda piena, ringraziamo Dio, così mangerete tranquilli perché vi siete guadagnati il pane; ma se vedete la chiamata di un prete, oggi, al massimo domani dovete chiamarlo e dirgli: “Mi hai chiamato, che succede? Puoi aspettare fino al tal giorno o no?”. Quel prete da quel momento sa che ha un padre.

La parola autorità deriva etimologicamente dalla radice latina augere che significa aumentare, promuovere, far progredire. L’autorità del Pastore consiste in particolare nell’aiutare a crescere, nel promuovere i suoi presbiteri, piuttosto che nel promuovere sé stesso – questo lo fa uno scapolo, non un padre –. La gioia del padre/pastore è vedere che i suoi figli sono cresciuti e sono stati fecondi. Fratelli, che sia questa la nostra autorità e il segno della nostra fecondità.

L’ultimo punto: la kenosisdi Cristo è povera

Sentire con la Chiesa è sentire con il popolo fedele, il popolo di Dio che soffre e spera. È sapere che la nostra identità ministeriale nasce e si capisce alla luce di questa appartenenza unica e costitutiva del nostro essere. In questo senso, vorrei ricordare con voi ciò che Sant’Ignazio scriveva a noi gesuiti: «la povertà è madre e muro», genera e sostiene. Madre, perché ci chiama alla fecondità, alla generatività, alla capacità di donazione che sarebbe impossibile in un cuore avaro o che cerca di accumulare. E muro, perché ci protegge da una delle tentazioni più sottili che noi consacrati dobbiamo affrontare, la mondanità spirituale: il rivestire di valori religiosi e “pii” la sete di potere e di protagonismo, la vanità e persino l’orgoglio e la superbia. Muro e madre che ci aiutano ad essere una Chiesa sempre più libera perché centrata nella kenosis del suo Signore. Una Chiesa che non vuole che la sua forza stia – come diceva Mons. Romero – nell’appoggio dei potenti o della politica, ma che si svincoli con nobiltà per camminare sorretta unicamente dalle braccia del Crocifisso, che è la sua vera forza. E questo si traduce in segni concreti ed evidenti; questo ci interroga e ci spinge ad un esame di coscienza sulle nostre scelte e priorità nell’uso delle risorse, nell’uso delle influenze e delle posizioni. La povertà è madre e muro perché custodisce il nostro cuore perché non scivoli in concessioni e compromessi che indeboliscono la libertà e la parresia a cui il Signore ci chiama.

Prima di concludere, mettiamoci sotto il manto della Vergine, preghiamo insieme perché ella custodisca i nostri cuori di Pastori e ci aiuti a servire meglio il Corpo di suo Figlio, il santo Popolo fedele di Dio che cammina, vive e prega qui in America Centrale.

Preghiamo la Madre. “Ave o Maria,…”

Gesù vi benedica e la Vergine Maria vi protegga. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me, perché possa fare tutto quello che ho detto. Grazie!


Cerimonia di accoglienza e apertura della GMG nel Campo Santa Maria la Antigua – Cinta Costera

Cari giovani, buon pomeriggio!

Che bello ritrovarci, e farlo in questa terra che ci accoglie con tanto colore e tanto calore! Riuniti a Panamá, la Giornata Mondiale della Gioventù è ancora una volta una festa, una festa di gioia e di speranza per la Chiesa intera e, per il mondo, una grande testimonianza di fede.

Mi ricordo che, a Cracovia, alcuni mi chiesero se sarei andato a Panamá, e io risposi: “Io non so, ma Pietro di sicuro ci sarà. Pietro ci sarà”. Oggi sono contento di dirvi: Pietro è con voi per celebrare e rinnovare la fede e la speranza. Pietro e la Chiesa camminano con voi e vogliamo dirvi di non avere paura, di andare avanti con questa energia rinnovatrice e questo desiderio costante che ci aiuta e ci sprona ad essere più gioiosi, più disponibili, più “testimoni del Vangelo”. Andare avanti non per creare una Chiesa parallela un po’ più “divertente” o “cool” in un evento per giovani, con un po’ di elementi decorativi, come se questo potesse lasciarvi contenti. Pensare così sarebbe mancare di rispetto a voi e a tutto quello che lo Spirito attraverso di voi ci sta dicendo.

Al contrario! Vogliamo trovare e risvegliare insieme a voi la continua novità e giovinezza della Chiesa aprendoci sempre a questa grazia dello Spirito Santo che tante volte opera una nuova Pentecoste (cfr Sinodo dedicato ai giovani, Documento finale, 60). E questo è possibile solo se, come abbiamo da poco vissuto nel Sinodo, sappiamo camminare ascoltandoci e ascoltare completandoci a vicenda, se sappiamo testimoniare annunciando il Signore nel servizio ai nostri fratelli; che è sempre un servizio concreto, si intende. Non è un servizio così, “di figurine”: è un servizio concreto. Se ci mettiamo a camminare, giovani, sempre giovani come nella storia dell’America. Penso a voi che avete cominciato a camminare per primi in questa Giornata, voi giovani della gioventù indigena, siete stati i primi in America e i primi a camminare in questo incontro. Un grande applauso, forte! E anche voi giovani discendenti di africani: anche voi avete fatto il vostro incontro e ci avete anticipato. Un altro applauso!

Bene. So che arrivare qui non è stato facile. Conosco gli sforzi, i sacrifici che avete fatto per poter partecipare a questa Giornata. Molti giorni di lavoro e di impegno, incontri di riflessione e di preghiera fanno sì che il cammino stesso sia la ricompensa. Il discepolo non è solamente chi arriva in un posto ma chi incomincia con decisione, chi non ha paura di rischiare e di mettersi a camminare. Se uno si mette a camminare, è già un discepolo. Se rimani fermo, hai perso. Cominciare a camminare, questa è la più grande gioia del discepolo, essere in cammino. Voi non avete avuto paura di rischiare e camminare. E oggi possiamo essere in festa perché questa festa è cominciata già da molto tempo in ogni comunità.

Abbiamo ascoltato poco fa nella presentazione, abbiamo visto dalle bandiere che veniamo da culture e popoli diversi, parliamo lingue diverse, usiamo vestiti diversi. Ognuno dei nostri popoli ha vissuto storie e circostanze diverse. Quante cose ci possono differenziare! Ma nulla di tutto ciò ci ha impedito di incontrarci, tante differenze non hanno impedito di incontrarci e di stare insieme, di divertirci insieme, di celebrare insieme, di confessare Gesù Cristo insieme. Nessuna differenza ci ha fermati. E questo è possibile perché sappiamo che c’è Qualcuno che ci unisce, che ci fa fratelli. Voi, cari amici, avete fatto tanti sacrifici per potervi incontrare e così diventate veri maestri e artigiani della cultura dell’incontro. Voi con questo diventate maestri e artigiani della cultura dell’incontro, che non è “Ciao, come va? Ciao, a presto”. No, la cultura dell’incontro è quella che ci fa camminare insieme con le nostre differenze ma con amore, tutti uniti nello stesso cammino. Voi, con i vostri gesti e i vostri atteggiamenti, coi vostri sguardi, i desideri e soprattutto la vostra sensibilità, voi smentite e screditate tutti quei discorsi che si concentrano e si impegnano nel creare divisione, quei discorsi che cercano di escludere ed espellere quelli che “non sono come noi”. Come in vari Paesi dell’America diciamo: “Non sono GCU [gente como uno, gente come noi]. Voi smentite questo. Tutti sono persone come noi, tutti con le nostre differenze. E questo perché avete quel fiuto che sa intuire che «il vero amore non annulla le legittime differenze, ma le armonizza in una superiore unità» (Benedetto XVI, Omelia, 25 gennaio 2006). Lo ripeto: “Il vero amore non annulla le legittime differenze, ma le armonizza in una superiore unità”. Sapete chi ha detto questo? Sapete? Papa Benedetto XVI, che ci sta guardando, e gli facciamo un applauso, gli mandiamo un saluto da qui! Lui ci sta guardando alla televisione. Un saluto, tutti, tutti con le mani, a Papa Benedetto! Al contrario, sappiamo che il padre della menzogna, il demonio, preferisce sempre un popolo diviso e litigioso. Lui è il maestro della divisione, e ha paura di un popolo che impara a lavorare insieme. E questo è un criterio per distinguere le persone: i costruttori di ponti e i costruttori di muri. I costruttori di muri che seminando paura cercano di dividere e di impaurire le persone. Voi invece volete essere costruttori di ponti. Cosa volete essere? [i giovani rispondono: “Costruttori di ponti!”] Avete imparato bene, mi piace!

Voi ci insegnate che incontrarsi non significa mimetizzarsi, né che tutti pensano la stessa cosa o vivere tutti uguali facendo e ripetendo le stesse cose: questo lo fanno i pappagalli. Incontrarsi vuol dire saper fare un’altra cosa: entrare nella cultura dell’incontro, è una chiamata e un invito ad avere il coraggio di mantenere vivo e insieme un sogno comune. Abbiamo tante differenze, parliamo lingue differenti. Tutti ci vestiamo in modo diverso ma, per favore, puntiamo ad avere un sogno in comune. Questo sì lo possiamo fare. E questo non ci annulla, ci arricchisce. Un sogno grande e un sogno capace di coinvolgere tutti. Il sogno per il quale Gesù ha dato la vita sulla croce e lo Spirito Santo si è riversato e ha marchiato a fuoco il giorno di Pentecoste nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, nel cuore di ciascuno, nel tuo, nel tuo, nel tuo…, nel mio, anche nel tuo – lo ha impresso nella speranza che trovi spazio per crescere e svilupparsi. Un sogno, un sogno chiamato Gesù, seminato dal Padre: Dio come Lui, come il Padre, inviato dal Padre con la fiducia che crescerà e vivrà in ogni cuore. Un sogno concreto, che è una Persona, che scorre nelle nostre vene, fa trasalire il cuore e lo fa sussultare ogni volta che ascoltiamo: «Amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli». Come si chiama il nostro sogno? [i giovani rispondono: “Gesù!”] Non sento… [ripetono: “Gesù!”] Non sento…[più forte: “Gesù!”]

Un santo di queste terre – ascoltate questo – un santo di queste terre amava dire: «Il cristianesimo non è un insieme di verità da credere, di leggi da osservare, o di proibizioni. Il cristianesimo visto così non è per nulla attraente. Il cristianesimo è una Persona che mi ha amato tanto, che desidera e chiede il mio amore. Il cristianesimo è Cristo» (S. Oscar Romero, Omelia, 6 novembre 1977). Lo diciamo tutti insieme? [insieme ai giovani] Il cristianesimo è Cristo. Un’altra volta: Il cristianesimo è Cristo. Un’altra volta: È Cristo! È portare avanti il sogno per cui Lui ha dato la vita: amare con lo stesso amore con cui ci ha amato. Non ci ha amato a metà, non ci ha amato un pochino. Ci ha amato totalmente, ci ha colmati di tenerezza, di amore, ha dato la sua vita.

Ci domandiamo: Che cosa ci tiene uniti? Perché siamo uniti? Che cosa ci spinge ad incontrarci? Sapete che cos’è che ci tiene uniti? È la certezza di sapere che siamo stati amati con un amore profondo che non vogliamo e non possiamo tacere; un amore che ci provoca a rispondere nello stesso modo: con amore. È l’amore di Cristo quello che ci spinge (cfr 2 Cor 5,14).

Vedete: un amore che unisce è un amore che non si impone e non schiaccia, un amore che non emargina e non mette a tacere e non tace, un amore che non umilia e non soggioga. È l’amore del Signore, amore quotidiano, discreto e rispettoso, amore di libertà e per la libertà, amore che guarisce ed eleva. È l’amore del Signore, che sa più di risalite che di cadute, di riconciliazione che di proibizione, di dare nuova opportunità che di condannare, di futuro che di passato. È l’amore silenzioso della mano tesa nel servizio e nel donarsi: è l’amore che non si vanta, che non si pavoneggia, l’amore umile, che si dà agli altri sempre con la mano tesa. Questo è l’amore che ci unisce oggi.

Ti chiedo: credi in questo amore? [rispondono: “Sì!”] E faccio un’altra domanda: credi che questo un amore “vale la pena”? Gesù una volta, a una persona che aveva fatto una domanda, alla fine rispose: “Se tu credi questo, va’ e fa’ lo stesso”. Nel nome di Gesù io vi dico: andate e fate lo stesso. Non abbiate paura di amare, non abbiate paura di questo amore concreto, di questo amore che ha tenerezza, di questo amore che è servizio, di questo amore che dà la vita.

E questa è stata la stessa domanda e la chiamata che ha ricevuto Maria. L’angelo le domandò se voleva portare questo sogno nel suo grembo, se voleva renderlo vita, renderlo carne. Maria aveva l’età di tante di voi, l’età di tante ragazze come voi. Disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Chiudiamo gli occhi, tutti, e pensiamo a Maria. Non era stupida, sapeva quello che sentiva il suo cuore, sapeva che cos’era l’amore, e ha risposto: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». In questo breve momento di silenzio, in cui Gesù dice a ognuno – a te, a te, a te –: “Te la senti? Vuoi?”. Pensa a Maria e rispondi: “Voglio servire il Signore. Avvenga per me secondo la tua parola”. Maria ha saputo dire “sì”. Ha avuto il coraggio di dare vita al sogno di Dio. E questo è quello che oggi ci chiede: Vuoi dare carne con le tue mani, i tuoi piedi, il tuo sguardo, il tuo cuore al sogno di Dio? Vuoi che sia l’amore del Padre ad aprirti nuovi orizzonti e a portarti per sentieri mai immaginati e pensati, sognati o attesi, che rallegrino e facciano cantare e danzare il cuore?

Abbiamo il coraggio di dire all’angelo, come Maria: “Eccoci, siamo i servi del Signore, avvenga per noi…”? Non rispondete adesso, ognuno risponda nel suo cuore. Ci sono domande a cui si risponde solo in silenzio.

Cari giovani, questa Giornata non sarà fonte di speranza per un documento finale, un messaggio concordato o un programma da eseguire. No, non sarà questo. Quello che darà più speranza in questo incontro saranno i vostri volti e una preghiera. Questo darà speranza. Col volto con cui tornerete a casa, col cuore cambiato con cui tornerete a casa, con la preghiera che avete imparato a dire con questo cuore cambiato. La cosa che darà più speranza in questo incontro saranno i vostri volti, la vostra preghiera. E ognuno tornerà a casa con la nuova forza che si genera ogni volta che ci incontriamo con gli altri e con il Signore, pieni di Spirito Santo per ricordare e mantenere vivo quel sogno che ci fa fratelli e che siamo chiamati a non lasciar congelare nel cuore del mondo: dovunque ci troveremo, qualsiasi cosa staremo facendo, potremo sempre guardare in alto e dire: “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”. Volete ripeterlo con me? “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”. [insieme ai giovani] “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”. Più forte, siete rauchi. “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”.

Bene. E dato che vogliamo essere buoni e educati, non possiamo terminare questo primo incontro senza ringraziare. Grazie a tutti coloro che hanno preparato con grande entusiasmo questa Giornata Mondiale della Gioventù, tutto questo. Grazie, forte! Grazie per aver avuto il coraggio di costruire e di ospitare, per aver detto “sì” al sogno di Dio di vedere i suoi figli riuniti. Grazie a Mons. Ulloa e a tutti i suoi collaboratori per aver aiutato a far sì che oggi Panamá sia non solo un canale che collega i mari, ma anche un canale in cui il sogno di Dio continua a trovare altri piccoli canali per crescere e moltiplicarsi e irradiarsi in tutti gli angoli della terra.

Amici, amici e amiche, Gesù vi benedica! Ve lo auguro con tutto il cuore. Santa Maria la Antigua vi accompagni e vi protegga, perché possiamo dire senza paura, come lei: «Eccomi. Avvenga di me».

Grazie!


Liturgia penitenziale con i giovani privati della libertà nel Centro de Cumplimiento de Menores Las Garzas de Pacora

«Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (Lc 15,2), abbiamo appena ascoltato nel Vangelo. È ciò che mormoravano alcuni farisei, scribi, dottori della legge, piuttosto scandalizzati, piuttosto infastiditi dal modo in cui Gesù si comportava.

Con questa espressione cercavano di squalificarlo, screditarlo davanti a tutti, ma non fecero che evidenziare uno degli atteggiamenti di Gesù più comuni, più distintivi, più belli: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». E tutti siamo peccatori, tutti, e per questo Gesù ci accoglie con affetto, tutti noi che siamo qui; e se qualcuno non si sente peccatore, tra tutti noi che siamo qui, sappia che Gesù non lo riceverà, si perderà il meglio.

Gesù non ha paura di avvicinarsi a coloro che, per mille ragioni, portavano il peso dell’odio sociale, come nel caso dei pubblicani – ricordiamo che i pubblicani si arricchivano derubando il loro stesso popolo; essi suscitavano molta, molta indignazione –, oppure portavano l’odio sociale perché avevano fatto alcuni errori nella loro vita, degli errori e degli sbagli, qualche colpa, e così li chiamavano peccatori. Gesù lo fa perché sa che nel Cielo si fa più festa per un solo di quelli che sbagliano, dei peccatori convertiti, che per novantanove giusti che continuano bene (cfr Lc 15,7).

E mentre queste persone si limitavano a mormorare o a sdegnarsi, perché Gesù si incontrava con le persone segnate da qualche errore sociale, da qualche peccato, e chiudevano le porte della conversione, del dialogo con Gesù, Gesù si avvicina e si compromette, Gesù mette in gioco la sua reputazione e invita sempre a guardare un orizzonte capace di rinnovare la vita, di rinnovare la storia. Tutti, tutti abbiamo un orizzonte. Tutti. Qualcuno può dire: “Io non ce l’ho”. Apri la finestra, e lo troverai. Apri la finestra del tuo cuore, apri la finestra dell’amore che è Gesù, e lo troverai. Tutti abbiamo un orizzonte. Sono due sguardi ben diversi che si contrappongono: quello di Gesù e quello di questi dottori della legge. Uno sguardo sterile e infecondo – quello della mormorazione e del pettegolezzo, che sempre parla male degli altri e si sente giusto –, e un altro – che è quello del Signore – che chiama alla trasformazione e alla conversione, a una vita nuova, come tu hai detto poco fa [rivolto al giovane che ha fatto la testimonianza].

Lo sguardo della mormorazione e del pettegolezzo

E questo non vale solo per quei tempi, vale anche per oggi! Molti non sopportano e non amano questa scelta di Gesù, anzi, prima a mezza voce e alla fine gridando manifestano il loro disappunto cercando di screditare questo comportamento di Gesù e di tutti coloro che stanno con Lui. Non accettano, rifiutano questa scelta di stare vicino e di offrire nuove opportunità. Questa gente condanna una volta per tutte, scredita una volta per tutte e si dimentica che agli occhi di Dio loro stessi sono screditati e hanno bisogno di tenerezza, hanno bisogno di amore e di comprensione, ma non vogliono accettare. Non l’accettano. Con la vita della gente sembra più facile dare titoli e etichette che congelano e stigmatizzano non solo il passato ma anche il presente e il futuro delle persone. Mettiamo etichette alle persone: questo è così, quello ha fatto questo e ormai c’è e deve portarlo per il resto dei suoi giorni. Così è questa gente che mormora, i pettegoli, sono così. Etichette che, alla fine, non fanno altro che dividere: di qua i buoni, di là i cattivi; di qua i giusti, di là i peccatori. E questo, Gesù non lo accetta. Questa è la cultura dell’aggettivo: ci piace tanto “aggettivare” la gente, ci piace tanto. “Tu, come ti chiami?” – “Mi chiamo buono” – “No, questo è un aggettivo. Come ti chiami?”. Andare al nome della persona: chi sei, cosa fai, quali sogni hai, cosa sente il tuo cuore… Ai pettegoli questo non interessa; cercano subito un’etichetta per toglierseli di mezzo. La cultura dell’aggettivo che scredita la persona. Pensateci, per non cadere in questo [atteggiamento] che con tanta facilità ci viene offerto nella società.

Questo atteggiamento inquina tutto perché alza un muro invisibile che fa pensare che emarginando, separando e isolando si risolveranno magicamente tutti i problemi. E quando una società o una comunità si permette questo, e non fa altro che bisbigliare, spettegolare e mormorare, entra in un giro vizioso di divisioni, rimproveri e condanne. E’ interessante: queste persone che non accettano Gesù e quello che Gesù ci insegna, sono persone che litigano sempre tra loro, si condannano a vicenda, tra quelli che si chiamano giusti. E inoltre è un atteggiamento di emarginazione e di esclusione, di opposizione che fa dire irresponsabilmente come Caifa: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera» (Gv 11,50). Meglio che stiano custoditi tutti lì, che non vengano a dare fastidio, noi vogliamo vivere in pace. E’ duro questo, e questo ha dovuto affrontare Gesù, e questo affrontiamo anche noi oggi. Normalmente il filo si spezza nel punto più sottile: quello dei poveri e degli indifesi. E sono quelli che soffrono di più per queste condanne sociali, che non permettono di rialzarsi.

Come fa male vedere una società che concentra le sue energie nel mormorare e nello sdegnarsi piuttosto che nell’impegnarsi, impegnarsi per creare e opportunità e trasformazione!

Lo sguardo della conversione: l’altro sguardo

Invece, tutto il Vangelo è segnato da quest’altro sguardo che nasce né più né meno che dal cuore di Dio. Dio non ti abbandona mai. Dio non abbandona nessuno. Dio ti dice: “Vieni”. Dio ti aspetta e ti abbraccia, e se non sai la strada viene a cercarti, come ha fatto il pastore con le pecore. Invece, l’altro sguardo rifiuta. Il Signore vuole fare festa quando vede i suoi figli che ritornano a casa (cfr Lc15,11-32). Così ha testimoniato Gesù manifestando fino all’estremo l’amore misericordioso del Padre. Abbiamo un Padre. Lo hai detto tu: mi è piaciuta questa tua confessione: abbiamo un Padre. Io ho un Padre che mi ama. E’ una cosa bella. Un amore, quello di Gesù, che non ha tempo per mormorare, ma cerca di rompere il cerchio della critica inutile e indifferente, neutra e asettica. “Ti ringrazio, Signore – diceva quel dottore della legge –, perché non sono come quello”. Non sono come quello. Questi che pensano di avere l’anima purificata dieci volte in un’illusione di vita asettica che non serve a niente. Una volta ho sentito un contadino che diceva una cosa che mi ha colpito: “L’acqua più pulita qual è? Sì, l’acqua distillata – diceva –. Lei sa, padre, che quando la bevo non sa di niente”. Così è la vita di quelli che criticano e spettegolano e si separano dagli altri: si sentono tanto puliti, tanto asettici che non sanno di niente, sono incapaci di invitare qualcuno, vivono curandosi di sé stessi, per farsi la chirurgia estetica nell’anima e non per tendere la mano agli altri e aiutarli a crescere. Che è quello che fa Gesù, che accetta la complessità della vita e di ogni situazione; l’amore di Gesù, l’amore di Dio, l’amore di Dio Padre – come hai detto tu – è un amore che inaugura una dinamica capace di inventare strade, offrire opportunità di integrazione e trasformazione, opportunità di guarigione, di perdono, di salvezza. E mangiando con pubblicani e peccatori, Gesù rompe la logica che separa, che esclude, che isola, che divide falsamente tra “buoni e cattivi”. E non lo fa per decreto o solo con buone intenzioni, nemmeno con volontarismi o sentimentalismo. Come lo fa Gesù? Creando legami, legami capaci di permettere nuovi processi; scommettendo e festeggiando ad ogni passo possibile. Per questo Gesù, quando Matteo si converte – lo troverete nel Vangelo – non gli dice: “Bene, d’accordo, complimenti, vieni con me”. No, gli dice: “Andiamo a festeggiare a casa tua”, e invita tutti i suoi amici, che erano, come Matteo, condannati dalla società, a fare festa. Il pettegolo, colui che divide, non sa fare festa perché ha il cuore amaro.

Creare legami, fare festa, è quello che fa Gesù. E in questo modo rompe con un’altra mormorazione non facile da scoprire e che “perfora i sogni” perché ripete come un sussurro continuo: “Non ce la farai, non ce la farai”. Quante volte voi avete sentito questo: “Non ce la farai”. Attenzione, attenzione: questo è come il tarlo che ti si mangia da dentro. Quando tu senti “non ce la farai”, datti uno schiaffone: “sì, ce la farò e te lo dimostrerò”. È la mormorazione interiore, il pettegolezzo interiore, che emerge in chi, avendo pianto il proprio peccato, e consapevole del proprio errore, non crede di poter cambiare. E questo succede quando si è intimamente convinti che chi è nato “pubblicano” deve morire “pubblicano”; e questo non è vero. Il Vangelo ci dice tutto il contrario. Undici dei dodici apostoli erano peccatori gravi, perché hanno commesso il peggiore dei peccati: hanno abbandonato il loro Maestro, altri lo hanno rinnegato, altri sono scappati via. Hanno tradito, gli apostoli, e Gesù è andato a cercarli a uno a uno, e sono quelli che hanno cambiato il mondo. A nessuno è capitato di dire: “non ce la farai”, perché avendo visto l’amore di Gesù dopo il tradimento, [dice]: “Ce la farò, perché Tu mi darai la forza”. Attenzione al tarlo del “non ce la farai”! Ci vuole molta attenzione.

Amici, ognuno di noi è molto di più delle “etichette” che gli mettono; è molto di più degli aggettivi che vogliono darci, è molto di più della condanna che ci hanno imposto. Così Gesù ci insegna e ci chiama a credere. Lo sguardo di Gesù ci provoca a chiedere e cercare aiuto per percorrere le vie del superamento. A volte la mormorazione sembra vincere, ma non credeteci, non ascoltatela. Cercate e ascoltate le voci che spingono a guardare avanti e non quelle che vi tirano verso il basso. Ascoltate le voci che vi aprono la finestra e vi fanno vedere l’orizzonte. “Ma è lontano!” – “Sì, ma ce la farai”. Guardalo bene e ce la farai! Ogni volta che viene il tarlo con il “non ce la farai”, rispondetegli da dentro: “Ce la farò”, e guardate l’orizzonte.

La gioia e la speranza del cristiano – di tutti noi, e anche del Papa – nasce dall’aver sperimentato qualche volta questo sguardo di Dio che ci dice: “tu fai parte della mia famiglia e non posso abbandonarti alle intemperie”. Questo è quello che Dio dice a ciascuno di noi, perché Dio è Padre – l’hai detto tu. “Tu sei parte della mia famiglia e non ti abbandonerò alle intemperie, non ti lascerò a terra sulla strada, no, non posso perderti per strada” – ci dice Dio, ad ognuno di noi, con nome e cognome – “io sono qui con te”. Qui? Sì, qui. Questo è aver sentito, come l’hai condiviso tu, Luis, che in quei momenti in cui sembrava che tutto fosse finito qualcosa ti ha detto: no!, non è tutto finito, perché hai uno scopo grande che ti permette di comprendere che Dio Padre era ed è con tutti noi e ci dona persone con cui camminare e aiutarci a raggiungere nuove mete.

E così Gesù trasforma la mormorazione in festa e ci dice: “Rallegrati con me! (cfr Lc 15,6), andiamo a festeggiare”. Nella parabola del figliol prodigo mi è piaciuto una volta che ho trovato una traduzione che diceva che il padre, quando vide il figlio che tornava a casa, disse: “Andiamo a festeggiare”, e lì è iniziata la festa. E una traduzione diceva: “E lì iniziò il ballo”. La gioia, la gioia con la quale siamo accolti da Dio con l’abbraccio del Padre. “Iniziò il ballo”.

Fratelli, voi fate parte della famiglia, voi avete molto da condividere. Aiutateci a sapere qual è il modo migliore per vivere e accompagnare il processo di trasformazione di cui, come famiglia, tutti abbiamo bisogno. Tutti!

Una società si ammala quando non è capace di far festa per la trasformazione dei suoi figli; una comunità si ammala quando vive la mormorazione che schiaccia e condanna, senza sensibilità, il pettegolezzo. Una società è feconda quando sa generare dinamiche capaci di includere e integrare, di farsi carico e lottare per creare opportunità e alternative che diano nuove possibilità ai suoi figli, quando si impegna a creare futuro con comunità, educazione e lavoro. Questa comunità è sana. E anche se può sperimentare l’impotenza di non sapere come, non si arrende e ritenta di nuovo. E tutti dobbiamo aiutarci per imparare, in comunità, a trovare queste strade, a tentare e ritentare ancora. È un patto che dobbiamo avere il coraggio di fare: voi, ragazzi, ragazze, i responsabili della vigilanza e le autorità del Centro e del Ministero, tutti, e le vostre famiglie, come pure gli operatori pastorali. Tutti, lottate, lottate – ma non tra di voi, per favore! –, per che cosa?, per cercare e trovare strade di inserimento e di trasformazione. E questo il Signore lo benedice. Questo il Signore lo sostiene e questo il Signore lo accompagna.

Tra poco proseguiremo con la celebrazione penitenziale, in cui tutti potremo sperimentare lo sguardo del Signore, che non vede un aggettivo, mai: vede un nome, guarda gli occhi, guarda il cuore. Non vede un’etichetta né una condanna, ma vede dei figli. Sguardo di Dio che smentisce le squalifiche e ci dà la forza di creare quei patti necessari per aiutarci tutti a smentire le mormorazioni, quei patti fraterni che permettono alla nostra vita di essere sempre un invito alla gioia della salvezza, alla gioia di avere un orizzonte davanti, alla gioia della festa del figlio. Andiamo su questa strada. Grazie.


Via Crucis con i giovani nel Campo Santa Maria la Antigua – Cinta Costera

Cari giovani del mondo!

Camminare con Gesù sarà sempre una grazia e un rischio.

Una grazia, perché ci impegna a vivere nella fede e a conoscerlo, penetrando nel più profondo del suo cuore, comprendendo la forza della sua parola.

Un rischio, perché in Gesù le sue parole, i suoi gesti, le sue azioni contrastano con lo spirito del mondo, con l’ambizione umana, con le proposte di una cultura dello scarto e della mancanza di amore.

C’è una certezza che riempie di speranza questa Via Crucis: Gesù l’ha percorsa con amore. E l’ha vissuta anche la Vergine Gloriosa, colei che fin dall’inizio della Chiesa ha voluto sostenere con la sua tenerezza il cammino dell’evangelizzazione.

Signore, Padre di misericordia, in questa Cinta Costera, insieme a tanti giovani provenienti dal mondo intero, abbiamo accompagnato il tuo Figlio sulla via della croce; quella via che ha voluto percorrere per noi, per mostrarci quanto Tu ci ami e quanto sei coinvolto nella nostra vita.

Il cammino di Gesù verso il Calvario è un cammino di sofferenza e solitudine che continua ai nostri giorni. Egli cammina, soffre in tanti volti che soffrono per l’indifferenza soddisfatta e anestetizzante della nostra società, società che consuma e che si consuma, che ignora e si ignora nel dolore dei suoi fratelli.

Anche noi tuoi amici, o Signore, ci lasciamo prendere dall’apatia, dall’immobilismo. Non poche volte il conformismo ci ha sconfitto e paralizzato. È stato difficile riconoscerti nel fratello che soffre: abbiamo distolto lo sguardo, per non vedere; ci siamo rifugiati nel rumore, per non sentire; ci siamo tappati la bocca, per non gridare.

Sempre la stessa tentazione. È più facile e “paga di più” essere amici nella vittoria e nella gloria, nel successo e nell’applauso; è più facile stare vicino a chi è considerato popolare e vincente.

Com’è facile cadere nella cultura del bullismo, delle molestie, dell’intimidazione, dell’accanimento su chi è debole!

Per Te non è così, Signore: nella croce ti sei identificato con ogni sofferenza, con tutti quelli che si sentono dimenticati.

Per Te non è così, Signore, perché hai voluto abbracciare tutti quelli che tante volte consideriamo indegni di un abbraccio, di una carezza, di una benedizione; o peggio ancora, nemmeno ci accorgiamo che ne hanno bisogno, li ignoriamo.

Per Te non è così, Signore: nella croce ti unisci alla via crucis di ogni giovane, di ogni situazione per trasformarla in via di risurrezione.

Padre, oggi la via crucis di tuo Figlio si prolunga:

si prolunga nel grido soffocato dei bambini ai quali si impedisce di nascere e di tanti altri ai quali si nega il diritto di avere un’infanzia, una famiglia, un’educazione; nei bambini che non possono giocare, cantare, sognare...;

si prolunga nelle donne maltrattate, sfruttate e abbandonate, spogliate e ignorate nella loro dignità;

e negli occhi tristi dei giovani che si vedono strappar via le loro speranze di futuro dalla mancanza di educazione e di un lavoro degno;

si prolunga nell’angoscia di giovani volti, nostri amici, che cadono nelle reti di gente senza scrupoli – tra di loro si trovano anche persone che dicono di servirti, Signore –, reti di sfruttamento, di criminalità e di abuso, che mangiano sulla vita dei giovani.

La via crucis di tuo Figlio si prolunga in tanti giovani e famiglie che, assorbite in una spirale di morte a causa della droga, dell’alcol, della prostituzione e della tratta, si trovano privati non solo del futuro ma del presente. E così come furono spartite le tue vesti, Signore, viene spartita e maltrattata la loro dignità.

La via crucis di tuo Figlio si prolunga nei giovani coi volti accigliati che hanno perso la capacità di sognare, di creare e inventare il domani e “vanno in pensione” con la pena della rassegnazione e del conformismo, una delle droghe più consumate nel nostro tempo.

Si prolunga nel dolore nascosto e che fa indignare di quanti, invece di solidarietà, da parte di una società piena di abbondanza, trovano rifiuto, dolore e miseria, e per di più vengono indicati e trattati come portatori e responsabili di ogni male sociale.

La passione del tuo Figlio si prolunga nella solitudine rassegnata degli anziani, che lasciamo abbandonati e scartati.

Si prolunga nei popoli nativi, spogliati delle loro terre, delle loro radici e della loro cultura, facendo tacere e spegnendo tutta la sapienza che hanno e che ci possono offrire.

Padre, La via crucis di tuo Figlio si prolunga nel grido di nostra madre terra, che è ferita nelle sue viscere dall’inquinamento dell’atmosfera, dalla sterilità dei suoi campi, dalla sporcizia delle sue acque, e che si vede calpestata dal disprezzo e dal consumo impazzito al di là di ogni ragione.

Si prolunga in una società che ha perso la capacità di piangere e di commuoversi di fronte al dolore.

Sì, Padre, Gesù continua a camminare, a farsi carico e a soffrire in tutti questi volti mentre il mondo, indifferente, e in un comodo cinismo consuma il dramma della propria frivolezza.

E noi, Signore, che cosa facciamo?

Come reagiamo di fronte a Gesù che soffre, cammina, emigra nel volto di tanti nostri amici, di tanti sconosciuti che abbiamo imparato a rendere invisibili?

E noi, Padre di misericordia,

consoliamo e accompagniamo il Signore, indifeso e sofferente, nei più piccoli e abbandonati?

Lo aiutiamo a portare il peso della croce, come il Cireneo, facendoci operatori di pace, creatori di alleanze, fermenti di fraternità?

Abbiamo il coraggio di rimanere ai piedi della croce come Maria?

Contempliamo Maria, donna forte. Da Lei vogliamo imparare a rimanere in piedi accanto alla croce. Con la sua stessa decisione e il suo coraggio, senza evasioni o miraggi. Ella seppe accompagnare il dolore di suo Figlio, tuo Figlio, o Padre, sostenerlo con lo sguardo e proteggerlo con il cuore. Dolore che soffrì, ma che non la piegò. È stata la donna forte del “sì”, che sostiene e accompagna, protegge e abbraccia. Ella è la grande custode della speranza.

Anche noi, Padre, desideriamo essere una Chiesa che sostiene e accompagna, che sa dire: sono qui!, nella vita e nelle croci di tanti cristi che camminano al nostro fianco.

Da Maria impariamo a dire “sì” alla resistenza forte e costante di tante madri, tanti padri, nonni, che non smettono di sostenere e accompagnare i loro figli e nipoti quando sono “nei guai”.

Da lei impariamo a dire “sì” alla pazienza testarda e alla creatività di quelli che non si perdono d’animo e ricominciano da capo nelle situazioni in cui sembra che tutto sia perduto, cercando di creare spazi, ambienti familiari, centri di attenzione che siano una mano tesa nella difficoltà.

In Maria impariamo la forza per dire “sì” a quelli che non hanno taciuto e non tacciono di fronte a una cultura del maltrattamento e dell’abuso, del discredito e dell’aggressione, e lavorano per offrire opportunità e condizioni di sicurezza e protezione.

In Maria impariamo ad accogliere e ospitare tutti quelli che hanno sofferto l’abbandono, che hanno dovuto lasciare o perdere la loro terra, le radici, la famiglia, il lavoro.

Padre, come Maria vogliamo essere Chiesa, la Chiesa che favorisce una cultura capace di accogliere, proteggere, promuovere e integrare; che non stigmatizzi e meno ancora generalizzi con la più assurda e irresponsabile condanna di identificare ogni migrante come portatore del male sociale.

Da Lei vogliamo imparare a stare in piedi accanto alla croce, ma non con un cuore blindato e chiuso, ma con un cuore che sappia accompagnare, che conosca la tenerezza e la devozione; che sia esperto di pietà trattando con rispetto, delicatezza e comprensione. Desideriamo essere una Chiesa della memoria che rispetti e valorizzi gli anziani e rivendichi per essi lo spazio che è loro, come custodi delle nostre radici.

Padre, Come Maria vogliamo imparare a stare.

Insegnaci, Signore, a stare ai piedi della croce, ai piedi delle croci; apri questa sera i nostri occhi, il nostro cuore; riscattaci dalla paralisi e dalla confusione, dalla paura e dalla disperazione. Padre, insegnaci a dire: sono qui insieme al tuo Figlio, insieme a Maria e insieme a tanti discepoli amati che desiderano accogliere il tuo Regno nel cuore. Amen.

E dopo aver vissuto la Passione del Signore, insieme a Maria ai piedi della croce, andiamo con il cuore silenzioso e in pace, gioioso e con tanta voglia di seguire Gesù. Che Gesù vi accompagni e che la Vergine vi protegga. Arrivederci!


Santa Messa con la dedicazione dell’altare della Cattedrale Basilica di Santa Maria la Antigua con Sacerdoti, Consacrati e Movimenti Laicali

Prima di tutto voglio congratularmi col Signor Arcivescovo, che per la prima volta, dopo quasi sette anni, ha potuto incontrare la sua sposa, questa chiesa, vedova provvisoria per tutto questo tempo. E congratularmi con la vedova, che oggi cessa di essere vedova, incontrando il suo sposo. Voglio anche ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo, le autorità e tutto il popolo di Dio, per tutto quello che hanno fatto perché il Signor Arcivescovo potesse incontrarsi con il suo popolo, non in una casa prestata, ma nella sua casa. Grazie!

Nel programma era previsto che questa cerimonia, per il tempo limitato, avesse due significati: la consacrazione dell’altare e l’incontro con sacerdoti, religiose, religiosi e laici consacrati. Perciò, quello che dirò sarà un po’ in questa linea, pensando ai sacerdoti, alle religiose, ai religiosi e ai laici consacrati, soprattutto a quelli che lavorano in questa Chiesa particolare.

«Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”» (Gv 4,6-7).

Il vangelo che abbiamo ascoltato non esita a presentarci Gesù stanco di camminare. A mezzogiorno, quando il sole si fa sentire con tutta la sua forza e potenza, lo troviamo presso il pozzo. Aveva bisogno di placare e saziare la sete, ristorare i suoi passi, recuperare le forze per poter continuare la sua missione.

I discepoli hanno vissuto in prima persona quello che significava la dedizione e la disponibilità del Signore per portare la Buona Notizia ai poveri, fasciare i cuori feriti, proclamare la liberazione ai prigionieri e la libertà ai prigionieri, consolare chi si trovava nel dolore, proclamare l’anno di grazia per tutti (cfr Is 61,1-3). Sono tutte situazioni che ti prendono la vita, ti prendono l’energia; e “non hanno risparmiato” nel regalarci tanti momenti importanti nella vita del Maestro, dove anche la nostra umanità possa incontrare una parola di Vita.

Affaticato per il viaggio

È relativamente facile per la nostra immaginazione, ossessionata dall’efficienza, contemplare ed entrare in comunione con l’attività del Signore, ma non sempre sappiamo o possiamo contemplare e accompagnare le “fatiche del Signore”, come se questa non fosse cosa di Dio. Il Signore si è affaticato, e in questa fatica trovano posto tante stanchezze dei nostri popoli e della nostra gente, delle nostre comunità e di tutti quelli che sono affaticati e oppressi (cfr Mt 11,28).

Le cause e i motivi che possono provocare la fatica del cammino in noi sacerdoti, consacrati e consacrate, membri dei movimenti laicali, sono molteplici: dalle lunghe ore di lavoro che lasciano poco tempo per mangiare, riposare, pregare e stare in famiglia, fino a “tossiche” condizioni lavorative e affettive che portano allo sfinimento e logorano il cuore; dalla semplice e quotidiana dedizione fino al peso rutinario di chi non trova il gusto, il riconoscimento o il sostegno per far fronte alle necessità di ogni giorno; dalle abituali e prevedibili situazioni complicate fino alle stressanti e angustianti ore di tensione. Tutta una gamma di pesi da sopportare.

Sarebbe impossibile cercare di abbracciare tutte le situazioni che sgretolano la vita dei consacrati, ma in tutte sentiamo la necessità urgente di trovare un pozzo che possa placare e saziare la sete e la stanchezza del cammino. Tutte invocano, come un grido silenzioso, un pozzo da cui ripartire.

Da un po’ di tempo a questa parte non sono poche le volte in cui pare essersi installata nelle nostre comunità una sottile specie di stanchezza, che non ha niente a che vedere con quella del Signore. E qui dobbiamo fare attenzione. Si tratta di una tentazione che potremmo chiamare la stanchezza della speranza. Quella stanchezza che nasce quando – come nel Vangelo – i raggi del sole cadono a piombo e rendono le ore insopportabili, e lo fanno con un’intensità tale da non permettere di avanzare o di guardare avanti. Come se tutto diventasse confuso. Non mi riferisco qui alla «particolare fatica del cuore» (S. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Mater, 17; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 287) di chi, “a pezzi” per il lavoro, alla fine della giornata riesce a mostrare un sorriso sereno e grato; ma a quell’altra stanchezza, quella che nasce di fronte al futuro quando la realtà “prende a schiaffi” e mette in dubbio le forze, le risorse e la praticabilità della missione in questo mondo che tanto cambia e mette in discussione.

È una stanchezza paralizzante. Nasce dal guardare avanti e non sapere come reagire di fronte all’intensità e all’incertezza dei cambiamenti che come società stiamo attraversando. Questi cambiamenti sembrerebbero non solo mettere in discussione le nostre modalità di espressione e di impegno, le nostre abitudini e i nostri atteggiamenti di fronte alla realtà, ma porre in dubbio, in molti casi, la praticabilità stessa della vita religiosa nel mondo di oggi. E anche la velocità di questi cambiamenti può portare a immobilizzare ogni scelta e opinione, e ciò che poteva essere significativo e importante in altri tempi, sembra non avere più spazio.

Sorelle e fratelli, la stanchezza della speranza nasce dal constatare una Chiesa ferita dal suo peccato e che molte volte non ha saputo ascoltare tante grida nelle quali si celava il grido del Maestro: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).

E così possiamo abituarci a vivere con una speranza stanca davanti al futuro incerto e sconosciuto, e questo fa sì che trovi posto un grigio pragmatismo nel cuore delle nostre comunità. Tutto apparentemente sembra procedere normalmente, ma in realtà la fede si consuma, si rovina. Comunità e presbiteri sfiduciati verso una realtà che non comprendiamo o in cui crediamo non ci sia più spazio per la nostra proposta, possiamo dare “cittadinanza” a una delle peggiori eresie possibili nella nostra epoca: pensare che il Signore e le nostre comunità non hanno più nulla da dire né da dare in questo nuovo mondo in gestazione (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 83). E allora succede che ciò che un giorno è nato per essere sale e luce del mondo, finisce per offrire la propria versione peggiore.

Dammi da bere

Le fatiche del viaggio arrivano e si fanno sentire. Che piaccia o no ci sono, ed è bene avere lo stesso ardire che ebbe il Maestro per dire: «Dammi da bere». Come accadde alla Samaritana e può accadere ad ognuno di noi, non vogliamo placare la sete con un’acqua qualsiasi, ma con quella «sorgente che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Sappiamo, come sapeva bene la Samaritana che portava da anni i recipienti vuoti di amori falliti, che non qualsiasi parola può aiutare a recuperare le forze e la profezia nella missione. Non qualsiasi novità, per quanto seducente possa apparire, può alleviare la sete. Sappiamo, come lei sapeva bene, che nemmeno la conoscenza religiosa, la giustificazione di determinate scelte e tradizioni passate o novità presenti, ci rendono sempre fecondi e appassionati «adoratori in spirito e verità» (Gv 4,23).

“Dammi da bere” è quello che chiede il Signore, ed è quello che chiede a noi di dire. Nel dirlo, apriamo la porta della nostra stanca speranza per tornare senza paura al pozzo fondante del primo amore, quando Gesù è passato per la nostra strada, ci ha guardato con misericordia, ci ha scelto e ci ha chiesto di seguirlo; nel dirlo, recuperiamo la memoria di quel momento in cui i suoi occhi hanno incrociato i nostri, il momento in cui ci ha fatto sentire che ci amava, che mi amava, e non solo in modo personale, anche come comunità (cfr Omelia nella Veglia Pasquale, 19 aprile 2014). Poter dire “dammi da bere” significa ritornare sui nostri passi e, nella fedeltà creativa, ascoltare come lo Spirito non ha creato un’opera particolare, un piano pastorale o una struttura da organizzare ma che, per mezzo di tanti “santi della porta accanto” – tra i quali troviamo padri e madri fondatori di istituti secolari, vescovi, parroci che hanno saputo dare basi solide alle loro comunità –, attraverso questi santi della porta accanto ha dato vita e ossigeno a un determinato contesto storico che sembrava soffocare e schiacciare ogni speranza e dignità.

“Dammi da bere” significa avere il coraggio di lasciarsi purificare, di recuperare la parte più autentica dei nostri carismi originari – che non si limitano solo alla vita religiosa, ma a tutta la Chiesa – e vedere in quali modalità si possano esprimere oggi. Si tratta non solo di guardare con gratitudine il passato, ma di andare in cerca delle radici della sua ispirazione e lasciare che risuonino nuovamente con forza tra di noi (cfr Papa Francesco - Fernando Prado, La forza della vocazione, Bologna 2018, 42-43).

“Dammi da bere” significa riconoscersi bisognosi che lo Spirito ci trasformi in donne e uomini memori di un incontro e di un passaggio, il passaggio salvifico di Dio. E fiduciosi che, come ha fatto ieri, così continuerà a fare domani: «Andare alla radice ci aiuta senza dubbio a vivere adeguatamente il presente, e a viverlo senza paura. È necessario vivere senza paura rispondendo alla vita con la passione di essere impegnati con la storia, immersi nelle cose. È una passione da innamorato» (ibid., 44).

La speranza stanca sarà guarita e godrà di quella «particolare fatica del cuore» quando non temerà di ritornare al luogo del primo amore e riuscirà ad incontrare, nelle periferie e nelle sfide che oggi ci si presentano, lo stesso canto, lo stesso sguardo che suscitò il canto e lo sguardo dei nostri padri. Così eviteremo il rischio di partire da noi stessi e abbandoneremo la stancante autocommiserazione per incontrare gli occhi con cui Cristo oggi continua a cercarci, continua a guardarci, continua a chiamarci e a invitarci alla missione, come ha fatto in quel primo incontro, l’incontro del primo amore.

* * *

E non mi sembra un avvenimento di poco conto che questa Cattedrale riapra le porte dopo un lungo tempo di restauro. Ha sperimentato il passare degli anni, come fedele testimone della storia di questo popolo, e con l’aiuto e il lavoro di molti ha voluto di nuovo regalare la sua bellezza. Più che una formale ricostruzione, che tenta sempre di ritornare a un originale passato, ha cercato di riscattare la bellezza degli anni aprendosi a ospitare tutta la novità che il presente le poteva dare. Una Cattedrale spagnola, india e afroamericana diventa così Cattedrale panamense, di quelli di ieri, ma anche di quelli di oggi che hanno reso possibile questo fatto. Non appartiene più solo al passato, ma è bellezza del presente.

E oggi nuovamente è grembo che stimola a rinnovare e alimentare la speranza, a scoprire come la bellezza di ieri diventi base per costruire la bellezza di domani.

Così agisce il Signore. Niente stanchezza della speranza; sì alla peculiare fatica del cuore di chi porta avanti ogni giorno ciò che gli è stato affidato nello sguardo del primo amore.

Fratelli, non lasciamoci rubare la speranza che abbiamo ereditato, la bellezza che abbiamo ereditato dai nostri padri! Essa sia la radice viva, la radice feconda che ci aiuti a continuare a rendere bella e profetica la storia della salvezza in queste terre.


Veglia con i giovani nel Campo San Juan Pablo II – Metro Park

Cari giovani, buonasera!

Abbiamo visto questo bello spettacolo sull’Albero della Vita che ci mostra come la vita che Gesù ci dona è una storia d’amore, una storia di vita che desidera mescolarsi con la nostra e mettere radici nella terra di ognuno. Quella vita non è una salvezza appesa “nella nuvola” in attesa di venire scaricata, né una nuova “applicazione” da scoprire o un esercizio mentale frutto di tecniche di crescita personale. Neppure la vita che Dio ci offre è un tutorial con cui apprendere l’ultima novità. La salvezza che Dio ci dona è un invito a far parte di una storia d’amore che si intreccia con le nostre storie; che vive e vuole nascere tra noi perché possiamo dare frutto lì dove siamo, come siamo e con chi siamo. Lì viene il Signore a piantare e a piantarsi; è Lui il primo nel dire “sì” alla nostra vita, Lui è sempre il primo. È il primo a dire “sì” alla nostra storia, e desidera che anche noi diciamo “sì” insieme a Lui. Lui sempre ci precede, è il primo.

E così sorprese Maria e la invitò a far parte di questa storia d’amore. Senza dubbio la giovane di Nazaret non compariva nelle “reti sociali” dell’epoca, lei non era una influencer, però senza volerlo né cercarlo è diventata la donna che ha avuto la maggiore influenza nella storia.

E le possiamo dire, con fiducia di figli: Maria, la “influencer” di Dio. Con poche parole ha avuto il coraggio di dire “sì” e confidare nell’amore, a confidare nelle promesse di Dio, che è l’unica forza capace di rinnovare, di fare nuove tutte le cose. E tutti noi, oggi, abbiamo qualcosa da rinnovare dentro. Oggi dobbiamo lasciare che Dio rinnovi qualcosa nel nostro cuore. Pensiamoci un po’: che cosa voglio che Dio rinnovi nel mio cuore?

Sempre impressiona la forza del “sì” Maria, giovane. La forza di quell’“avvenga per me” che disse all’angelo. È stata una cosa diversa da un’accettazione passiva o rassegnata. È stato qualcosa di diverso da un “sì” come a dire: “Bene, proviamo a vedere che succede”. Maria non conosceva questa espressione: vediamo cosa succede. Era decisa, ha capito di cosa si trattava e ha detto “sì”, senza giri di parole. È stato qualcosa di più, qualcosa di diverso. È stato il “sì” di chi vuole coinvolgersi e rischiare, di chi vuole scommettere tutto, senza altra garanzia che la certezza di sapere di essere portatrice di una promessa. E domando a ognuno di voi: vi sentite portatori di una promessa? Quale promessa porto nel cuore, da portare avanti? Maria, indubbiamente, avrebbe avuto una missione difficile, ma le difficoltà non erano un motivo per dire “no”. Certo che avrebbe avuto complicazioni, ma non sarebbero state le stesse complicazioni che si verificano quando la viltà ci paralizza per il fatto che non abbiamo tutto chiaro o assicurato in anticipo. Maria non ha comprato una assicurazione sulla vita! Maria si è messa in gioco, e per questo è forte, per questo è una influencer, è l’influencer di Dio! Il “sì” e il desiderio di servire sono stati più forti dei dubbi e delle difficoltà.

Questa sera ascoltiamo anche come il “sì” di Maria riecheggia e si moltiplica di generazione in generazione. Molti giovani sull’esempio di Maria rischiano e scommettono, guidati da una promessa. Grazie, Erika y Rogelio, per la testimonianza che ci avete donato. Sono stati coraggiosi questi due! Meritano un applauso. Grazie! Avete condiviso i vostri timori, le difficoltà, tutto il rischio vissuto prima della nascita di Ines. A un certo punto avete detto: “A noi genitori, per diverse ragioni, costa molto accettare l’arrivo di un bimbo con qualche malattia o disabilità”, questo è sicuro, è comprensibile. Ma la cosa sorprendente è stata quando avete aggiunto: “Quando è nata nostra figlia abbiamo deciso di amarla con tutto il nostro cuore”. Prima del suo arrivo, di fronte a tutte le notizie e le difficoltà che si presentavano, avete preso una decisione e avete detto come Maria “avvenga per noi”, avete deciso di amarla. Davanti alla vita di vostra figlia fragile, indifesa e bisognosa la vostra risposta, di Erika e Rogelio, è stata: “sì”, e così abbiamo Ines. Voi avete avuto il coraggio di credere che il mondo non è soltanto per i forti! Grazie!

Dire “sì” al Signore significa avere il coraggio di abbracciare la vita come viene, con tutta la sua fragilità e piccolezza e molte volte persino con tutte le sue contraddizioni e mancanze di senso, con lo stesso amore con cui ci hanno parlato Erika e Rogelio. Prendere la vita come viene. Significa abbracciare la nostra patria, le nostre famiglie, i nostri amici così come sono, anche con le loro fragilità e piccolezze. Abbracciare la vita si manifesta anche quando diamo il benvenuto a tutto ciò che non è perfetto, a tutto quello che non è puro né distillato, ma non per questo è meno degno di amore. Forse che qualcuno per il fatto di essere disabile o fragile non è degno d’amore? Vi domando: un disabile, una persona disabile, una persona fragile, è degna di amore? [rispondono: sì!] Non si sente bene… [più forte: sì!] Avete capito. Un’altra domanda, vediamo come rispondete. Qualcuno, per il fatto di essere straniero, di avere sbagliato, di essere malato o in una prigione, è degno di amore? [rispondono: sì!] Così ha fatto Gesù: ha abbracciato il lebbroso, il cieco e il paralitico, ha abbracciato il fariseo e il peccatore. Ha abbracciato il ladro sulla croce e ha abbracciato e perdonato persino quelli che lo stavano mettendo in croce.

Perché? Perché solo quello che si ama può essere salvato. Tu non puoi salvare una persona, non puoi salvare una situazione, se non la ami. Solo quello che si ama può essere salvato. Lo ripetiamo? [insieme] Solo quello che si ama può essere salvato. Un’altra volta! [i giovani: “Solo quello che si ama può essere salvato”]. Non dimenticatelo. Per questo noi siamo salvati da Gesù: perché ci ama e non può farne a meno. Possiamo fargli qualunque cosa, ma Lui ci ama, e ci salva. Perché solo quello che si ama può essere salvato. Solo quello che si abbraccia può essere trasformato. L’amore del Signore è più grande di tutte le nostre contraddizioni, di tutte le nostre fragilità e di tutte le nostre meschinità. Ma è precisamente attraverso le nostre contraddizioni, fragilità e meschinità che Lui vuole scrivere questa storia d’amore. Ha abbracciato il figlio prodigo, ha abbracciato Pietro dopo i suoi rinnegamenti e ci abbraccia sempre, sempre, sempre dopo le nostre cadute aiutandoci ad alzarci e a rimetterci in piedi. Perché la vera caduta – attenzione a questo – la vera caduta, quella che può rovinarci la vita, è rimanere a terra e non lasciarsi aiutare. C’è un canto alpino molto bello, che cantano mentre salgono sulla montagna: “Nell’arte dell’ascesa, la vittoria non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto”. Non rimanere caduto! Dare la mano, perché ti facciano alzare. Non rimanere caduto.

Il primo passo consiste nel non aver paura di ricevere la vita come viene, non avere paura di abbracciare la vita così com’è. Questo è l’albero della vita che abbiamo visto oggi [durante la Veglia].

Grazie, Alfredo, per la tua testimonianza e il coraggio di condividerla con tutti noi. Mi ha molto colpito quando hai detto: “Ho iniziato a lavorare nell’edilizia fino a quando terminò quel progetto. Senza impiego le cose presero un altro colore: senza scuola, senza occupazione e senza lavoro”. Lo riassumo nei quattro “senza” per cui la nostra vita resta senza radici e si secca: senza lavoro, senza istruzione, senza comunità, senza famiglia. Ovvero una vita senza radici. Senza lavoro, senza istruzione, senza comunità e senza famiglia. Questi quattro “senza” uccidono.

È impossibile che uno cresca se non ha radici forti che aiutino a stare bene in piedi e attaccato alla terra. È facile disperdersi quando non si ha dove attaccarsi, dove fissarsi. Questa è una domanda che noi adulti siamo tenuti a farci, noi adulti che siamo qui, anzi, è una domanda che voi dovrete farci, voi giovani dovrete fare a noi adulti, e noi avremo il dovere di rispondervi: quali radici vi stiamo dando?, quali basi per costruirvi come persone vi stiamo offrendo? E’ una domanda per noi adulti. Com’è facile criticare i giovani e passare il tempo mormorando, se li priviamo di opportunità lavorative, educative e comunitarie a cui aggrapparsi e sognare il futuro! Senza istruzione è difficile sognare un futuro; senza lavoro è molto difficile sognare il futuro; senza famiglia e senza comunità è quasi impossibile sognare il futuro. Perché sognare il futuro significa imparare a rispondere non solo perché vivo, ma per chi vivo, per chi vale la pena di spendere la mia vita. E questo dobbiamo favorirlo noi adulti, dandovi lavoro, istruzione, comunità, opportunità.

Come ci diceva Alfredo, quando uno si sgancia e rimane senza lavoro, senza istruzione, senza comunità e senza famiglia, alla fine della giornata ci si sente vuoti e si finisce per colmare quel vuoto con qualunque cosa, con qualunque bruttura. Perché ormai non sappiamo per chi vivere, lottare e amare. Agli adulti che sono qui, e a quelli che ci stanno vedendo, domando: che cosa fai tu per generare futuro, voglia di futuro nei giovani di oggi? Sei capace di lottare perché abbiano istruzione, perché abbiano lavoro, perché abbiano famiglia, perché abbiano comunità? Ognuno di noi grandi, risponda nel proprio cuore.

Ricordo che una volta, parlando con alcuni giovani, uno mi ha chiesto: “Perché oggi tanti giovani non si domandano se Dio esiste o fanno fatica a credere in Lui ed evitano di impegnarsi nella vita?”. E io ho risposto: “E voi, cosa ne pensate?”. Tra le risposte che sono venute fuori nella conversazione mi ricordo di una che mi ha toccato il cuore ed è legata all’esperienza che Alfredo ha condiviso: “Padre, è che molti di loro sentono che, a poco a poco, per gli altri hanno smesso di esistere, si sentono molte volte invisibili”. Molti giovani sentono che hanno smesso di esistere per gli altri, per la famiglia, per la società, per la comunità…, e allora, molte volte si sentono invisibili. È la cultura dell’abbandono e della mancanza di considerazione. Non dico tutti, ma molti sentono di non avere tanto o nulla da dare perché non hanno spazi reali a partire dai quali sentirsi interpellati. Come penseranno che Dio esiste se loro stessi, questi giovani da tempo hanno smesso di esistere per i loro fratelli e per la società? Così li stiamo spingendo a non guardare al futuro, e a cadere in preda di qualsiasi droga, di qualsiasi cosa che li distrugge. Possiamo chiederci: cosa faccio io con i giovani che vedo? Li critico, o non mi interessano? Li aiuto, o non mi interessano? E’ vero che per me hanno smesso di esistere da tempo?

Lo sappiamo bene, non basta stare tutto il giorno connessi per sentirsi riconosciuti e amati. Sentirsi considerato e invitato a qualcosa è più grande che stare “nella rete”. Significa trovare spazi in cui con le vostre mani, con il vostro cuore e con la vostra testa potete sentirvi parte di una comunità più grande che ha bisogno di voi e di cui anche voi, giovani, avete bisogno.

E questo i santi l’hanno capito bene. Penso per esempio a Don Bosco [i giovani applaudono] che non se ne andò a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale – si vede che qui ci sono quelli che vogliono bene a Don Bosco!, un applauso! Don Bosco non è andato a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale; semplicemente imparò a guardare, a vedere tutto quello che accadeva attorno nella città e a guardarlo con gli occhi di Dio e, così, fu colpito da centinaia di bambini e di giovani abbandonati senza scuola, senza lavoro e senza la mano amica di una comunità. Molta gente viveva in quella stessa città, e molti criticavano quei giovani, però non sapevano guardarli con gli occhi di Dio. I giovani bisogna guardarli con gli occhi di Dio. Lui lo fece, Don Bosco, seppe fare il primo passo: abbracciare la vita come si presenta; e, a partire da lì, non ebbe paura di fare il secondo passo: creare con loro una comunità, una famiglia in cui con lavoro e studio si sentissero amati. Dare loro radici a cui aggrapparsi per poter arrivare al cielo. Per poter essere qualcuno nella società. Dare loro radici a cui aggrapparsi per non essere abbattuti dal primo vento che viene. Questo ha fatto Don Bosco, questo hanno fatto i santi, questo fanno le comunità che sanno guardare i giovani con gli occhi di Dio. Ve la sentite, voi grandi, di guardare i giovani con gli occhi di Dio?

Penso a tanti luoghi della nostra America Latina che promuovono quello che chiamano famiglia grande casa di Cristo che, col medesimo spirito di altri centri, cercano di accogliere la vita come viene nella sua totalità e complessità, perché sanno che «per l’albero c’è [sempre] speranza: se viene tagliato, ancora si rinnova, e i suoi germogli non cessano di crescere» (Gb 14,7).

E sempre si può “rinnovarsi e germogliare”, sempre si può cominciare di nuovo quando c’è una comunità, il calore di una casa dove mettere radici, che offre la fiducia necessaria e prepara il cuore a scoprire un nuovo orizzonte: orizzonte di figlio amato, cercato, trovato e donato per una missione. Il Signore si fa presente per mezzo di volti concreti. Dire “sì” come Maria a questa storia d’amore è dire “sì” ad essere strumenti per costruire, nei nostri quartieri, comunità ecclesiali capaci di percorrere le strade della città, di abbracciare e tessere nuove relazioni. Essere un “influencer” nel secolo XXI significa essere custodi delle radici, custodi di tutto ciò che impedisce che la nostra vita diventi “gassosa”, che la nostra vita evapori nel nulla. Voi adulti, siate custodi di tutto ciò che ci permette di sentirci parte gli uni degli altri, custodi di tutto ciò che ci fa sentire che apparteniamo gli uni agli altri.

Così l’ha vissuto Nirmeen nella GMG di Cracovia. Ha incontrato una comunità viva, gioiosa, che le è andata incontro, le ha dato un senso di appartenenza, e dunque di identità, e le ha permesso di vivere la gioia che comunica l’essere incontrata da Gesù. Nirmeen evitava Gesù, lo evitava, teneva le distanze, finché qualcuno le ha fatto mettere radici, le ha dato un’appartenenza, e quella comunità le ha dato il coraggio di incominciare questo cammino che ci lei ci ha raccontato.

Un santo – latinoamericano – una volta si domandò: «Il progresso della società, sarà solo per arrivare a possedere l’ultimo modello di automobile o acquistare l’ultima tecnologia sul mercato? In questo consiste tutta la grandezza dell’uomo? Non c’è niente di più che vivere per questo?» (S. Alberto Hurtado, Meditación de Semana Santa para jóvenes, 1946). Io vi domando, ai voi giovani: voi volete questa grandezza? O no? [“No!”] Siete incerti… Qui non si sente bene, che succede?… [“No!”] La grandezza non è soltanto possedere la macchina ultimo modello, o comprare l’ultima tecnologia sul mercato. Voi siete stati creati per qualcosa di più grande! Maria l’ha capito e ha detto: “Avvenga per me!”. Erika e Rogelio l’hanno capito e hanno detto: “Avvenga per noi!”. Alfredo l’ha capito e ha detto: “Avvenga per me!”. Nirmeen l’ha capito e ha detto: “Avvenga per me!”. Li abbiamo ascoltati qui. Amici, vi domando: Siete disposti a dire “sì”? [“Sì!”] Adesso rispondete, così mi piace di più! Il Vangelo ci insegna che il mondo non sarà migliore perché ci saranno meno persone malate, meno persone deboli, meno persone fragili o anziane di cui occuparsi, e neppure perché ci saranno meno peccatori, no, non sarà migliore per questo. Il mondo sarà migliore quando saranno di più le persone che, come questi amici che ci hanno parlato, sono disposte e hanno il coraggio di portare in grembo il domani e credere nella forza trasformatrice dell’amore di Dio. A voi giovani chiedo: volete essere “influencer” nello stile di Maria [“Sì!”] Lei ha avuto il coraggio di dire “avvenga per me”. Solo l’amore ci rende più umani, non i litigi, non lo studio soltanto: solo l’amore ci rende più umani, più pieni, tutto il resto sono buoni ma vuoti placebo.

Fra poco ci incontreremo con Gesù, Gesù vivo nell’eucaristia . Di certo avrete molte cose da dirgli, molte cose da raccontargli su varie situazioni della vostra vita, delle vostre famiglie e dei vostri paesi.

Stando di fronte a Gesù, faccia a faccia, abbiate il coraggio, non abbiate paura di aprirgli il cuore, perché Lui rinnovi il fuoco del Suo amore, perché vi spinga ad abbracciare la vita con tutta la sua fragilità, con tutta la sua piccolezza, ma anche con tutta la sua grandezza e bellezza. Che Gesù vi aiuti a scoprire la bellezza di essere vivi e svegli. Vivi e svegli.

Non abbiate paura di dire a Gesù che anche voi desiderate partecipare alla sua storia d’amore nel mondo, che siete fatti per un “di più”!

Amici, vi chiedo anche che, in questo faccia a faccia con Gesù, siate buoni e preghiate per me, perché anch’io non abbia paura di abbracciare la vita, perché sia capace di custodire le radici, e dica come Maria: “Avvenga per me secondo la tua parola!”.


Santa Messa per la Giornata Mondiale della Gioventù nel Campo San Juan Pablo II – Metro Parkk

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”» (Lc 4,20-21).

Così il Vangelo ci presenta l’inizio della missione pubblica di Gesù. Lo presenta nella sinagoga che lo ha visto crescere, circondato da conoscenti e vicini e chissà forse anche da qualche sua “catechista” di infanzia che gli ha insegnato la legge. Momento importante nella vita del Maestro, con cui il bambino che si era formato ed era cresciuto in seno a quella comunità, si alzava in piedi e prendeva la parola per annunciare e attuare il sogno di Dio. Una parola proclamata fino ad allora solo come promessa di futuro, ma che in bocca a Gesù si poteva solo dire al presente, facendosi realtà: «Oggi si è compiuta».

Gesù rivela l’adesso di Dio che ci viene incontro per chiamare anche noi a prendere parte al suo adesso, in cui «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi» e «proclamare l’anno di grazia del Signore» (cfr Lc 4,18-19). È l’adesso di Dio che con Gesù si fa presente, si fa volto, carne, amore di misericordia che non aspetta situazioni ideali o perfette per la sua manifestazione, né accetta scuse per la sua realizzazione. Egli è il tempo di Dio che rende giusti e opportuni ogni situazione e ogni spazio. In Gesù inizia e si fa vita il futuro promesso.

Quando? Adesso. Ma non tutti quelli che là lo ascoltarono si sono sentiti invitati o convocati. Non tutti i vicini di Nazaret erano pronti a credere in qualcuno che conoscevano e avevano visto crescere e che li invitava a realizzare un sogno tanto atteso. Anzi, dicevano: “Ma non è il figlio di Giuseppe?” (cfr Lc 4,22).

Anche a noi può succedere la stessa cosa. Non sempre crediamo che Dio possa essere tanto concreto e quotidiano, tanto vicino e reale, e meno ancora che si faccia tanto presente e agisca attraverso qualche persona conosciuta come può essere un vicino, un amico, un familiare. Non sempre crediamo che il Signore ci possa invitare a lavorare e a sporcarci le mani insieme a Lui nel suo Regno in modo così semplice ma incisivo. Ci costa accettare che «l’amore divino si faccia concreto e quasi sperimentabile nella storia con tutte le sue vicissitudini dolorose e gloriose» (Benedetto XVI, Catechesi, 28 settembre 2005).

E non sono poche le volte in cui ci comportiamo come i vicini di Nazaret, quando preferiamo un Dio a distanza: bello, buono, generoso, ben disegnato, ma distante e, soprattutto che non scomodi, un Dio “addomesticato”. Perché un Dio vicino e quotidiano, un Dio amico e fratello ci chiede di imparare vicinanza, quotidianità e soprattutto fraternità. Egli non ha voluto manifestarsi in modo angelico o spettacolare, ma ha voluto donarci un volto fraterno e amico, concreto, familiare. Dio è reale perché l’amore è reale, Dio è concreto perché l’amore è concreto. Ed è precisamente questa «concretezza dell’amore ciò che costituisce uno degli elementi essenziali della vita dei cristiani» (cfr Id., Omelia, 1 marzo 2006).

Anche noi possiamo correre gli stessi rischi della gente di Nazaret, quando nelle nostre comunità il Vangelo vuole farsi vita concreta e cominciamo a dire: “ma questi ragazzi, non sono figli di Maria, di Giuseppe, non sono fratelli di?… parenti di…? Questi non sono i ragazzini che noi abbiamo aiutato a crescere?… Che stia zitto, come possiamo credergli? Quello là, non era quello che rompeva sempre i vetri col pallone?”. E uno che è nato per essere profezia e annuncio del Regno di Dio viene addomesticato e impoverito. Voler addomesticare la Parola di Dio è una tentazione di tutti i giorni.

E anche a voi, cari giovani, può succedere lo stesso ogni volta che pensate che la vostra missione, la vostra vocazione, perfino la vostra vita è una promessa che però vale solo per il futuro e non ha niente a che vedere col presente. Come se essere giovani fosse sinonimo di “sala d’attesa” per chi aspetta il turno della propria ora. E nel “frattanto” di quell’ora, inventiamo per voi o voi stessi inventate un futuro igienicamente ben impacchettato e senza conseguenze, ben costruito e garantito e con tutto “ben assicurato”. Non vogliamo offrirvi un futuro di laboratorio! È la “finzione” della gioia, non la gioia dell’oggi, del concreto, dell’amore. E così con questa finzione della gioia vi “tranquillizziamo”, vi addormentiamo perché non facciate rumore, perché non disturbiate troppo, non facciate domande a voi stessi e a noi, perché non mettiate in discussione voi stessi e noi; e in questo “frattanto” i vostri sogni perdono quota, diventano striscianti, cominciano ad addormentarsi e sono “illusioni” piccole e tristi (cfr Omelia della Domenica delle Palme, 25 marzo 2018), solo perché consideriamo o considerate che non è ancora il vostro adesso; che siete troppo giovani per coinvolgervi nel sognare e costruire il domani. E così continuiamo a rimandarvi… E sapete una cosa? A molti giovani questo piace. Per favore, aiutiamoli a fare in modo che non gli piaccia, che reagiscano, che vogliano vivere l’“adesso” di Dio.

Uno dei frutti del recente Sinodo è stata la ricchezza di poterci incontrare e, soprattutto, ascoltare. La ricchezza dell’ascolto tra generazioni, la ricchezza dello scambio e il valore di riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che dobbiamo sforzarci di favorire canali e spazi in cui coinvolgerci nel sognare e costruire il domani già da oggi. Ma non isolatamente, uniti, creando uno spazio in comune. Uno spazio che non si regala né lo vinciamo alla lotteria, ma uno spazio per cui anche voi dovete combattere. Voi giovani dovete combattere per il vostro spazio oggi, perché la vita è oggi. Nessuno ti può promettere un giorno del domani: la tua vita è oggi, il tuo metterti in gioco è oggi, il tuo spazio è oggi. Come stai rispondendo a questo?

Voi, cari giovani, non siete il futuro. Ci piace dire: “Voi siete il futuro...”. No, siete il presente! Non siete il futuro di Dio: voi giovani siete l’adesso di Dio! Lui vi convoca, vi chiama nelle vostre comunità, vi chiama nelle vostre città ad andare in cerca dei nonni, degli adulti; ad alzarvi in piedi e insieme a loro prendere la parola e realizzare il sogno con cui il Signore vi ha sognato.

Non domani, adesso, perché lì, adesso, dov’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore (cfr Mt 6,21); e ciò che vi innamora conquisterà non solo la vostra immaginazione, ma coinvolgerà tutto. Sarà quello che vi fa alzare al mattino e vi sprona nei momenti di stanchezza, quello che vi spezzerà il cuore e che vi riempirà di meraviglia, di gioia e di gratitudine. Sentite di avere una missione e innamoratevene, e da questo dipenderà tutto (cfr Pedro Arrupe, S.J., Nada es más práctico). Potremo avere tutto, ma, cari giovani, se manca la passione dell’amore, mancherà tutto. La passione dell’amore oggi! Lasciamo che il Signore ci faccia innamorare e ci porti verso il domani!

Per Gesù non c’è un “frattanto”, ma un amore di misericordia che vuole penetrare nel cuore e conquistarlo. Egli vuole essere il nostro tesoro, perché Gesù non è un “frattanto” nella vita o una moda passeggera, è amore di donazione che invita a donarsi.

È amore concreto, di oggi vicino, reale; è gioia festosa che nasce scegliendo di partecipare alla pesca miracolosa della speranza e della carità, della solidarietà e della fraternità di fronte a tanti sguardi paralizzati e paralizzanti per le paure e l’esclusione, la speculazione e la manipolazione.

Fratelli, il Signore e la sua missione non sono un “frattanto” nella nostra vita, qualcosa di passeggero, non sono soltanto una Giornata Mondiale della Gioventù: sono la nostra vita di oggi e per il cammino!

Per tutti questi giorni in modo speciale ci ha accompagnato come una musica di sottofondo il fiat di Maria. Lei non solo ha creduto in Dio e nelle sue promesse come qualcosa di possibile, ha creduto a Dio e ha avuto il coraggio di dire “sì” per partecipare a questo adesso del Signore. Ha sentito di avere una missione, si è innamorata e questo ha deciso tutto. Che voi possiate sentire di avere una missione, che vi lasciate innamorare, e il Signore deciderà tutto.

E come avvenne nella sinagoga di Nazaret, il Signore, in mezzo a noi, ai suoi amici e conoscenti, di nuovo si alza in piedi, prende il libro e ci dice: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Cari giovani, volete vivere la concretezza del suo amore? Il vostro “sì” continui ad essere la porta d’ingresso affinché lo Spirito Santo doni una nuova Pentecoste, alla Chiesa e al mondo. Così sia.


Visita alla Casa Hogar del Buen samaritano

Grazie, Padre Domingo, per le parole che, a nome di tutti, mi ha rivolto. Ho desiderato questo incontro con voi, che siete qui nella Casa-famiglia “Il Buon Samaritano”, e anche con gli altri giovani presenti del Centro “Giovanni Paolo II”, della Casa-famiglia “San Giuseppe” delle Sorelle della Carità e della “Casa dell’Amore” della Congregazione dei Fratelli di Gesù Kkottonngae. Stare con voi è per me motivo di rinnovare la speranza. Grazie perché lo rendete possibile!

Preparando questo incontro ho potuto leggere la testimonianza di un membro di questa casa, che mi ha toccato il cuore perché diceva: «Qui sono nato di nuovo». Questa casa, e tutti i centri che voi rappresentate, sono segno della vita nuova che il Signore ci vuole donare. È facile confermare la fede di alcuni fratelli quando la si vede agire ungendo ferite, sanando speranza e incoraggiando a credere. Qui non nascono di nuovo solo coloro che potremmo chiamare “beneficiari primari” delle vostre case; qui la Chiesa e la fede nascono, qui la Chiesa e la fede si rinnovano continuamente per mezzo della carità.

Cominciamo a nascere di nuovo quando lo Spirito Santo ci dona occhi per vedere gli altri, come ci diceva il Padre Domingo, non solo come nostri vicini di casa – che già vuol dire molto – ma come nostri prossimi. Vedere gli altri come prossimo.

Il Vangelo ci dice che una volta domandarono a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Lui non rispose con teorie, nemmeno fece un discorso bello ed elevato, ma usò una parabola – quella del Buon Samaritano –, un esempio concreto di vita reale che tutti voi conoscete e vivete molto bene. Il prossimo è una persona, un volto che incontriamo nel cammino, e dal quale ci lasciamo muovere, ci lasciamo commuovere: muovere dai nostri schemi e priorità e commuovere intimamente da ciò che vive quella persona, per farle posto e spazio nel nostro andare. Così lo intese il buon Samaritano davanti all’uomo che era stato lasciato mezzo morto al bordo della strada non solo da alcuni banditi, ma anche dall’indifferenza di un sacerdote e di un levita che non ebbero il coraggio di aiutarlo, e come sapete, anche l’indifferenza uccide, ferisce e uccide. Gli uni per qualche misera moneta, gli altri per paura di contaminarsi, per disprezzo o disgusto sociale, senza problemi avevano lasciato quell’uomo per terra lungo la strada. Il buon Samaritano, come tutte le vostre case, ci mostra che il prossimo è prima di tutto una persona, qualcuno con un volto concreto, con un volto reale e non qualcosa da oltrepassare e ignorare, qualunque sia la sua situazione. È un volto che rivela la nostra umanità tante volte sofferente e ignorata.

Il prossimo è un volto che scomoda felicemente la vita perché ci ricorda e ci mette sulla strada di ciò che è veramente importante e ci libera dal banalizzare e rendere superflua la nostra sequela del Signore.

Stare qui è toccare il volto silenzioso e materno della Chiesa che è capace di profetizzare e creare casa, creare comunità. Il volto della Chiesa che normalmente non si vede e passa inosservato, ma è segno della concreta misericordia e tenerezza di Dio, segno vivo della buona notizia della resurrezione che agisce oggi nella nostra vita.

Fare “casa” è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere. Una casa, lo sappiamo tutti molto bene, ha bisogno della collaborazione di tutti. Nessuno può essere indifferente o estraneo, perché ognuno è una pietra necessaria alla sua costruzione. Questo implica il chiedere al Signore che ci dia la grazia di imparare ad aver pazienza, di imparare a perdonarci; imparare ogni giorno a ricominciare. E quante volte perdonare e ricominciare? Settanta volte sette, tutte quelle che sono necessarie. Creare relazioni forti esige la fiducia che si alimenta ogni giorno di pazienza e di perdono.

E così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo; qui tutti nasciamo di nuovo perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino.

Grazie a tutti voi per l’esempio e la generosità; grazie alle vostre Istituzioni, ai volontari e ai benefattori. Grazie a quanti rendono possibile che l’amore di Dio si faccia sempre più concreto, più reale, fissando lo sguardo negli occhi di coloro che ci stanno intorno e riconoscendoci come prossimi.

Ora che preghiamo l’Angelus, vi affido alla nostra Madre, la Vergine. Chiediamo a Lei, che come buona Madre è esperta di tenerezza e di vicinanza, di insegnarci ad essere attenti per scoprire ogni giorno chi è il nostro prossimo e di incoraggiarci ad andargli incontro prontamente e potergli offrire una casa, un abbraccio dove possa trovare protezione e amore di fratelli. Una missione in cui siamo tutti coinvolti.

Vi invito ora a mettere sotto il suo manto tutte le vostre preoccupazioni, tutte le necessità, i dolori che portate in voi, le ferite che patite, perché, come Buona Samaritana, venga a noi e ci assista con la sua maternità, la sua tenerezza, il suo sorriso di Madre.


Angelus

Cari fratelli e sorelle, oggi si celebra la Giornata internazionale della memoria delle vittime dell’Olocausto. Abbiamo bisogno di mantenere vivo il ricordo del passato, delle tragedie passate, e imparare dalle pagine nere della storia per non tornare mai più a commettere gli stessi errori. Continuiamo a sforzarci, senza sosta, di coltivare la giustizia, di far crescere la concordia e sostenere l’integrazione, per essere strumenti di pace e costruttori di un mondo migliore.

Desidero esprimere il mio dolore per le tragedie che hanno colpito lo Stato di Minas Gerais in Brasile e lo Stato di Hidalgo in Messico. Raccomando alla misericordia di Dio tutte le vittime e, nello stesso tempo, prego per i feriti ed esprimo il mio affetto e la mia vicinanza spirituale alle loro famiglie e a tutta la popolazione.

Qui a Panama ho pensato molto al popolo venezuelano, al quale mi sento particolarmente unito in questi giorni. Di fronte alla grave situazione che sta vivendo. chiedo al Signore che si cerchi e si raggiunga una soluzione giusta e pacifica per superare la crisi, nel rispetto dei diritti umani e cercando esclusivamente il bene di tutti gli abitanti del Paese. Vi invito a pregare, ponendo questa intercessione sotto la protezione di Nostra Signora di Coromoto, Patrona del Venezuela.

A Cristo e alla Vergine, ugualmente affidiamo le vittime dell’attentato terroristico perpetrato, questa domenica, nella cattedrale di Polo, nelle Filippine, mentre era in corso la celebrazione dell’Eucaristia. Ribadisco la mia più ferma riprovazione per questo episodio di violenza, che reca nuovi lutti in questa comunità cristiana, ed elevo le mie preghiere per i defunti e per i feriti. Il Signore, Principe della pace, converta il cuore dei violenti e conceda agli abitanti di quella regione una convivenza serena.

E oggi, nell’ultimo giorno della Giornata Mondiale della Gioventù, come offerta della Messa hanno portato una lista di venti giovani che non hanno potuto sapere come si svolgeva la Giornata della Gioventù, mediante la televisione, mediante la radio, giovani allievi della Scuola Cadetti di Polizia “Generale Francisco de Paula Santander”, in Colombia, uccisi dall’odio terrorista. Questi giovani sono stati un’offerta nella Messa, e in ricordo di essi mi permetto in questo Angelus di nominarli, e ciascuno nel proprio cuore, se non ad alta voce nel proprio cuore, dica quella parola che si usa dire in queste istituzioni quando si nomina un morto: “presente”. Che siano presenti davanti a Dio. Cadetto Luis Alfonso Mosquera Murillo; cadetto Oscár Javier Saavedra Camacho; cadetto Jonathan Efraín Suescón García; cadetto Manjardez Contreras Juan Felipe; cadetto Juan Diego Ayala Anzola; cadetto Juan David Rodas Agudelo; cadetto Diego Alejandro Pérez Alarcón; cadetto Jonathan Ainer León Torres; cadetto Alán Paul Bayona Barreto; cadetto Diego Alejandro Molina Peláez; cadetto Carlos Daniel Campaña Huertas; cadetto Diego Fernando Martínez Galvéz; cadetto Juan Esteban Marulanda Orozco; cadetto César AlbertoOjeda Gómez; cadetto Cristian Fabián González Portilla; cadetto Fernando Alonso Iriarte Agresoth; cadetto Ercia Sofía Chico Vallejo; cadetto Cristian Camilo Maquilón Martínez; cadetto Steven Rolando Prada Riaño; cadetto Iván René Munóz Parra. Ti preghiamo, Signore, di concedere loro la pace, e che anche al popolo colombiano Tu conceda la pace. Amen.

[Benedizione]

Di nuovo vi ringrazio per quello che state facendo qui, è grande, è molto bello. Dio vi benedica, e pregate per me. Grazie!

Incontro con i volontari della GMG

Cari volontari:

Prima di terminare questa Giornata Mondiale della Gioventù, ho voluto incontrarmi con tutti voi per ringraziare ciascuno del servizio che avete compiuto in questi giorni e durante gli ultimi mesi che hanno preceduto la Giornata.

Grazie a Bartosz, Stella Maris del Carmen e Maria Margarida per aver condiviso le loro esperienze in prima persona. Per me è stato molto importante ascoltarvi e rendermi conto della comunione che si crea quando ci uniamo per servire gli altri! Sperimentiamo come la fede acquista un sapore e una forza completamente nuovi: la fede diventa più viva, più dinamica e più reale. Si sperimenta una gioia – lo vediamo qui – una gioia diversa, per aver avuto l’opportunità di lavorare fianco a fianco con gli altri per raggiungere un sogno comune. So che tutti voi avete sperimentato tutto questo.

Voi ora sapete come batte il cuore quando si vive una missione, e non perché qualcuno ve l’ha raccontato, ma perché l’avete vissuto. Avete toccato con mano che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Avete dovuto anche vivere momenti duri che vi hanno richiesto diversi sacrifici. Come ci dicevi, Bartosz, uno sperimenta anche le proprie debolezze. Il bello è che queste debolezze non ti hanno fermato nel tuo impegno e nemmeno sono diventate la cosa centrale, né la più importante. Le hai sperimentate nel servizio, sì; cercando di capire e di servire gli altri volontari e i pellegrini, certo; però hai avuto il coraggio di non farti frenare da questo, di non farti paralizzare, e sei andato avanti. Che i nostri limiti, le nostre debolezze non ci paralizzino! Andare avanti, con i nostri difetti – poi li correggeremo – con le nostre debolezze…, andare avanti, e così è la bellezza di saperci inviati, la gioia di sapere che al di sopra di tutti gli inconvenienti abbiamo una missione da portare avanti. Non lasciare che i limiti, le debolezze e nemmeno i peccati ci frenino e ci impediscano di vivere la missione, perché Dio ci chiama a fare quello che possiamo e a chiedere quello che non possiamo, sapendo che il suo amore ci prende e ci trasforma in maniera graduale (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 49-50). Non spaventatevi se vedete le vostre debolezze; non spaventatevi neanche se vedete i vostri peccati: rialzatevi e avanti, sempre avanti! Non rimanete a terra, non chiudetevi, andate avanti con quello che avete di più importante, andate avanti, che Dio sa perdonare ogni cosa! Impariamo da tanti che come Bartosz hanno messo il servizio e la missione al primo posto, e il resto vedrai che verrà in aggiunta.

Grazie a tutti, perché in questi giorni siete stati attenti e disponibili fino ai più piccoli, ai più quotidiani e fino ai dettagli apparentemente più insignificanti, come offrire un bicchier d’acqua, e – contemporaneamente – avete seguito le cose più grandi che richiedevano molta pianificazione. Avete preparato ogni particolare con gioia, creatività e impegno, e con molta preghiera. Perché le cose pregate si sentono e si vivono in profondità. La preghiera dà spessore e vitalità a tutto quello che facciamo. Pregando scopriamo di far parte di una famiglia più grande di quanto possiamo vedere e immaginare. Pregando “apriamo il gioco” alla Chiesa che ci sostiene e ci accompagna dal cielo, ai santi e alle sante che ci hanno segnato il cammino, ma soprattutto pregando “apriamo il gioco” a Dio, perché Egli possa agire e possa entrare e possa vincere.

Avete voluto dedicare il vostro tempo, la vostra energia, le risorse a sognare e costruire questo incontro. Avreste perfettamente potuto scegliere altre cose, voi avete voluto impegnarvi. Questa parola, che vogliono cancellare: impegno. Questo vi fa crescere, questo vi fa diventare grandi, così come siete, ma impegno. Dare il meglio di sé per rendere possibile il miracolo della moltiplicazione non solo dei pani ma della speranza. E voi, dando il meglio di voi stessi, impegnandovi, fate il miracolo della moltiplicazione della speranza. Abbiamo bisogno di moltiplicare la speranza. Grazie! Grazie per tutto questo! E in questo dimostrate, ancora una volta, che è possibile rinunciare ai propri interessi a favore degli altri. Come hai fatto anche tu, Stella Maris. Io avevo letto le testimonianze prima, per questo ho potuto scrivere questo; e quando ho letto la tua ho sentito qualcosa come una voglia di piangere. Hai rinunciato ai tuoi interessi: avevi raccolto centesimo su centesimo per poter partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia, ma hai rinunciato per poter coprire le spese dei funerali dei tuoi tre nonni. Hai rinunciato per onorare le tue radici, e questo ti fa donna, ti fa adulta, ti fa coraggiosa. Hai rinunciato a partecipare a qualcosa che ti piaceva e che avevi sognato per poter aiutare e sostenere la tua famiglia, per onorare le tue radici, per poter essere lì; e il Signore, senza che te lo aspettassi né lo pensassi, ti stava preparando il regalo della Giornata Mondiale della Gioventù nella tua terra. Al Signore piace fare questi scherzi, al Signore piace rispondere in questo modo alla generosità: Lui sempre vince in generosità. Tu gli dai un pochino così, e Lui ti dà un mucchio così! Così è il Signore, che ci possiamo fare?, ci ama così. Come Stella Maris, anche molti di voi hanno fatto rinunce di ogni tipo. Tanti di voi avete fatto rinunce… Pensate adesso: a che cosa ho rinunciato io per diventare volontario? Pensateci un momento... Voi, con quello che avete pensato, avete dovuto accantonare sogni per prendervi cura della vostra terra e delle vostre radici. Questo il Signore lo benedice sempre, non si lascia vincere in generosità. Ogni volta che rinviamo qualcosa che ci piace per il bene degli altri e specialmente dei più fragili, o per il bene delle nostre radici come sono i nostri nonni e i nostri anziani, il Signore ce lo restituisce al cento per uno. Ti vince in generosità, perché nessuno può vincerlo in generosità, nessuno può superarlo nell’amore. Amici, date e vi sarà dato, e sperimenterete come il Signore vi verserà in grembo «una misura buona, pigiata, colma e traboccante» (Lc 6,38), come dice il Vangelo.

Cari amici, avete fatto un’esperienza di fede più viva, più reale; avete vissuto la forza che nasce dalla preghiera e la novità di una gioia diversa frutto del lavoro fianco a fianco anche con persone che non conoscevate. Adesso viene il momento dell’invio: andate, raccontate, andate, testimoniate, andate, trasmettete quello che avete visto e udito. E questo, non o fatelo con tante parole ma, come avete fatto qui, con gesti semplici, con gesti quotidiani, quelli che trasformano e fanno nuove tutte le cose, quei gesti capaci di creare un “chiasso”, un “chiasso” costruttivo, un “chiasso” d’amore. Vi racconto una cosa: quando sono arrivato, il primo giorno, per la strada c’era una signora con un cappello, una signora anziana, una nonna; era lì, vicino alla recinzione dove io passavo con l’auto, e aveva un cartello che diceva: “Anche noi nonne sappiamo fare chiasso!”. E aggiungeva: “Con saggezza”. Unitevi ai nonni per fare “chiasso”, sarà un chiasso incisivo, un chiasso geniale! Non abbiate paura, andate e parlate. Mi sembrava tanto vecchietta la signora e le ho chiesto l’età: aveva 14 anni meno di me. Che vergogna!

Chiediamo al Signore la sua benedizione. Che benedica le vostre famiglie e le vostre comunità e tutte le persone che incontrerete nel prossimo futuro. Mettiamo anche sotto il manto della Vergine Santa il nostro cuore, quello che sente il nostro cuore. Che lei vi accompagni. E come vi ho detto a Cracovia, non so se ci sarò alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù, ma vi assicuro che Pietro ci sarà e vi confermerà nella fede. Andate avanti, con forza e coraggio e, per favore – sono un’anima peccatrice –, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

[Preghiera]

E adesso vi do la benedizione. Mettiamo nel nostro cuore quello che siamo, quello che desideriamo, le persone con cui abbiamo lavorato in questi giorni, gli altri volontari, la gente che abbiamo visto. Mettiamo nel cuore i nostri amici, perché ricevano anche loro la benedizione; e mettiamo nel nostro cuore anche quelli che non ci vogliono bene, i nemici – ognuno di noi ne ha qualcuno –, perché Gesù benedica anche loro; e tutti insieme possiamo andare avanti.

[Benedizione]


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