Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani (giorno 6, 23 gennaio)

Sesta meditazione della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani (23 gennaio). Temi: Cristo ha voluto fondare la Chiesa sugli apostoli; tutti noi cristiani siamo chiamati a essere apostoli; apostolato ad fidem e ad gentes.

Giorno 6, 23 gennaio

Cristo ha voluto fondare la Chiesa sugli apostoli.

Tutti noi cristiani siamo chiamati a essere apostoli.

Apostolato ad fidem e ad gentes.

Il libro degli Atti degli Apostoli, dopo aver narrato la venuta dello Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco sui discepoli che erano riuniti a Gerusalemme, rende nota una caratteristica comune ai primi cristiani: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli» (At 2, 42). Oggi nella nostra orazione riflettiamo sull’ultima proprietà della Chiesa: la sua apostolicità.

San Josemaría ci fa notare che «la predicazione del Vangelo non sorge in Palestina per iniziativa personale di alcuni uomini infervorati. Che cosa avrebbero mai potuto fare gli Apostoli? In mezzo alle persone del loro tempo non contavano nulla: non erano ricchi, né colti, né eroi secondo il metro umano. Gesù getta sulle spalle di questo pugno di discepoli un compito immenso, divino. “Non siete stati voi a scegliere me, ma io ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia stabile; affinché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo dia” (Gv 15, 16).

Lungo i duemila anni della sua storia, la Chiesa conserva ininterrotta la successione apostolica. “I vescovi – dichiara il Concilio di Trento – sono succeduti agli Apostoli e sono posti, come dice lo stesso Apostolo [Paolo], dallo Spirito Santo per reggere la Chiesa di Dio (At 20, 28)”»[1]. Anche san Paolo, scrivendo a quelli di Efeso, un popolo che adorava gli dei che si fabbricano con le mani, ricorda loro che, essendo stati battezzati in nome di Cristo, si sono trasformati in «concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli» (Ef 2, 19).

Noi, come i primi cristiani, poggiamo su questo stesso fondamento. Attraverso la successione apostolica manteniamo nel tempo la certezza di continuare a lavorare per Iddio, ascoltando l’invito di Cristo stesso: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19). Inoltre, questo permette di conservare e trasmettere con certezza le parole udite per bocca degli stessi apostoli: «Prendi come modello le sane parole che hai udito da me» (2 Tm 1, 13). Oggi possiamo essere grati al Signore per l’apostolicità della Chiesa e pregare perché tutti noi cristiani arriviamo a riunirci – in virtù dell’origine divina – nell’unico popolo di Dio.

«Ogni volta che leggiamo gli Atti degli Apostoli – faceva notare san Josemaría – ci commuoviamo di fronte all’audacia, alla fede nella loro missione e alla gioia, in mezzo ai sacrifici, dei discepoli di Cristo. Non cercano le folle. E anche se le folle vengono, essi si rivolgono a ogni anima in concreto, a ogni uomo, uno per uno: Filippo, all’etiope (cfr. At 8, 26, 40); Pietro, al centurione Cornelio (cfr. At 10, 1-48); Paolo, a Sergio Paolo (cfr. At 13, 6-12)»[2]. Per comprendere l’apostolicità della Chiesa è necessario impegnarsi a vivere nuovamente il fervore dei primi discepoli, che lavoravano ben sapendo di avere scoperto in Cristo la cosa più importante della loro vita. San Paolo riesce a dirlo con parole infocate: «Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 8).

Papa Francesco sottolinea che «essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo: in una strada, in una piazza, sul lavoro, ovunque. In questa predicazione, sempre rispettosa e gentile, il primo momento consiste in un dialogo personale, in cui l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore»[3]. Ogni cristiano, lì dove si trova, è la presenza della Chiesa stessa, che vuole diffondere la sua gioia e la sua luce nel mondo. Partecipare alla diffusione del Vangelo ci unisce a quanto fu fatto nei primi tempi; ci dà la prova dell’apostolicità della Chiesa, che è fondata sulle parole e sulla vita di Cristo.

San Josemaría mette in evidenza che gli apostoli hanno sempre conservato il loro anelito missionario perché «avevano imparato dal Maestro. Ricordatevi di quella parabola degli operai che attendevano il lavoro in mezzo alla piazza del villaggio. Quando, a giorno inoltrato, arriva il padrone della vigna, si accorge che c’è ancora gente con le mani in mano: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?”. “Perché nessuno ci ha assoldati” (Mt 20, 6-7), rispondono. Questo non deve accadere nella vita del cristiano; non deve esserci qualcuno accanto a lui che possa affermare di non aver mai udito parlare di Cristo, perché nessuno glielo ha annunciato»[4]. Per un cristiano l’apostolato non è un compito circoscritto in un tempo delimitato, né un’attività riservata soltanto a determinate situazioni: un cristiano è sempre apostolo[5].

Questo senso di missione, che nasce dal battesimo, è stato anche una caratteristica del lavoro d’anime che san Josemaría stimolò sin dall’inizio. Perciò affermava, con una verità confermata in tanti anni, che «l’Opera ama con una particolare predilezione l’apostolato ad fidem [...] e rivolge ogni sua sollecitudine ad gentes», vale a dire, a tutti coloro ai quali non è ancora arrivato il conforto di Cristo. «Conoscete bene – ci diceva poi – l’ampiezza di orizzonti, la carità che abbiamo dimostrato sempre verso coloro che non condividono la nostra fede, con tutti quelli che non stanno nella Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana. Sin dal principio abbiamo considerato queste anime come amiche, e tante volte come cooperatrici nel nostro lavoro apostolico»[6].

Il modello per aprirci a tutte le persone è sempre stata la vita dei primi cristiani. Partendo da Gerusalemme, si disseminarono dappertutto, in tutte le culture, le nazioni e le lingue conosciute, seguendo il mandato che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19). In tal modo, con il passare dei secoli, «molte anime sono arrivate alla pienezza della fede – diceva san Josemaría -, grazie a questo dolcissimo cammino della carità. Rendete grazie a Dio e chiedetegli la fortezza e l’umiltà di non ostacolare mai l’azione della grazia, e di essere sempre buoni strumenti suoi. Vi ripeto: non giudicate temerariamente mai, siate buoni amici di tutti, rispettate la libertà degli altri e la libertà della grazia; e nello stesso tempo, confessate la vostra fede con le opere e con le parole»[7].

Con la nostra sincera amicizia aperta a tutti, «non esistono tempi condivisi che non siano apostolici: tutto è amicizia e tutto è apostolato, indistintamente»[8]. Confidando nell’intercessione degli apostoli, vogliamo, come i primi cristiani, perseverare nella sua dottrina e nei suoi aneliti di portare l’amicizia di Cristo a chi ci sta intorno. Chiediamo a Maria, Regina degli Apostoli, di aiutarci a ringraziare e apprezzare, in un modo sempre nuovo, l’apostolicità della Chiesa. E nello stesso tempo, di infiammare i nostri cuori con il fuoco di Cristo: «Fac ut ardeat cor meum in amando Christum Deum»[9].


[1] San Josemaría, Lealtà alla Chiesa, in La Chiesa nostra Madre, Ares, Milano 1993, n. 29.

[2]Ibid., n. 32

[3] Papa Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium, n. 128.

[4] San Josemaría, Lealtà alla Chiesa, in La Chiesa nostra Madre, Ares, Milano 1993, n. 32.

[5] Cfr. Fernando Ocáriz, Lettera, 14-II-2017, n. 9.

[6] San Josemaría, Istruzione, maggio 1935 / 14-IX-1950, n. 146.

[7] San Josemaría, Lettera 24-X-1965, nn. 56 e 62.

[8] Fernando Ocáriz, Lettera, 14-II-2017, n. 9.

[9] Inno Stabat Mater.