Esiste una città della medicina dove si parla di «eccellenza scientifica» e di «servizio alla persona». E dove il visitatore, nell'interrogare i medici, nel conoscere le storie dei pazienti, nell'informarsi sulle apparecchiature d'avanguardia e nell'osservare il lavoro delle infermiere che si laureano nella facoltà universitaria (ragazze dal look severo, divisa verde pallido e gonna rigorosamente al ginocchio) finisce, al termine della visita, per azzardare una definizione: una cattedrale della medicina proiettata nel futuro ma con laboratori illuminati da ideali vetrate gotiche.
L'Università Campus Bio-Medico di Roma, che da dieci anni sorge in via Longoni, sulla Prenestina, che funziona secondo i criteri di una moderna azienda ospedaliera e cura i pazienti in base a un progetto «inquadrato in una visione cristiana di tutte le attività umane», sta per spiccare il salto. Sessanta milioni di euro sono stati investiti negli ultimi 10 anni. Altri 126 milioni serviranno a rendere la cattedrale più grande. E a costruire a Trigoria, in una vicina area di 60 ettari in parte donati da Alberto Sordi (dove è già operativo il Centro per la salute dell'anziano con un poliambulatorio e day hospital neurologico), nuove strutture: un policlinico universitario con 350 posti letto, un polo di ricerche in biomedicina e bioingegneria, un residence per le famiglie dei pazienti.
«Da via Longoni trasferiremo parte dell'attuale complesso» spiega il direttore del Policlinico Felice Barela. « Qui funzionano la facoltà di medicina con il corso di laurea classico, il corso di laurea per infermieri, quello per dietisti e la facoltà di ingegneria biomedica. Queste strutture saranno trasferite a Trigoria, mentre qui resteranno il polo oncologico e il poliambulatorio operativo per le esigenze dei quartieri della zona est di Roma».
Un'impresa di successo. Iniziata il 14 febbraio 1992, data in cui il governo italiano istituì la Libera università Campus Bio-Medico con l'autorizzazione a rilasciare titoli di studio riconosciuti in Italia e all'estero secondo la normativa europea, la cattedrale della medicina dal volto umano dovrebbe essere ultimata nei prossimi quattro anni. Con quale obiettivo?
«Non stiamo facendo una nuova università, ma un'università di tipo nuovo» risponde Paolo Arullani, presidente del Campus Bio-Medico. «Un'università che si pone un fine preciso, tanto innovativo quanto, a nostro avviso, necessario: l'integrazione vera tra competenza scientifica e formazione umanistica». In che senso? «Siamo convinti che solo una formazione integrata di questo tipo sia il fondamento di ogni agire professionale che intenda collocare al centro la persona». Slancio professionale e fondamenti etici? «Mettiamola così: una formazione medica e scientifica che prenda coscienza della persona come unicità irripetibile considerandola sempre come fine e mai come mezzo». Come pensate di trovare 126 milioni di euro? «In parte con fondi pubblici» risponde Arullani «Il resto con fondi privati, con donazioni e con azioni delle quali si occupa la Spa Campus Bio-Medico».
Nella sala riunioni, mentre la responsabile della comunicazione, Paola Raschielli (p.raschielli@unicampus.it), mostra grafici e cifre del nuovo complesso, con i dipendenti che da 450 arriveranno a 1.600 e gli studenti che saliranno dagli attuali 700 a 2.000, ci sono due immagini incorniciate sulle opposte pareti, due ritratti, a rendere ancora più evidente il significato del progetto. A destra, la fotografia del dipinto di Raffaello con Platone e Aristotele nella scuola di Atene, che è diventata il logo del Campus. A sinistra, la figura di Josemaría Escrivá, fondatore dell'Opus Dei, santificato nell'ottobre scorso, e il cui primo successore, Álvaro Del Portillo, incoraggiò la realizzazione dell'opera. «Ci diceva che la sanità è un servizio dove possiamo fare un gran bene» conclude Arullani.
Valori forti, organizzazione impeccabile, una spiritualità fondata sull'idea che «Dio ama il lavoro ben fatto e nel lavoro ben fatto il cristiano realizza la propria santificazione». E grande spirito di squadra. «Sono venuto qui da un'altra università per la specializzazione in ortopedia» racconta Massimiliano Ippolito, 27 anni, laureato. «E la prima cosa che il professore mi ha detto mi ha lasciato di sasso: il tuo punto di vista teorico è soddisfacente e mi sta bene, ora però devi convincermi sul tuo approccio umano con il malato».
Sarà anche per questo che a leggere le testimonianze dei pazienti dimessi pubblicate sul bollettino del Campus, non si può fare a meno di notare come più di una lettera si concluda con l'impegno del firmatario a contribuire finanziariamente alla prosecuzione dell'opera. Qui tutti ci credono. Dal direttore sanitario, Felice Angrò, a Roberto Coppola, ordinario di chirurgia, all'infermiera Teresa Iori (laureata in quel corso universitario di tre anni che garantisce occupazione immediata data la carenza cronica di personale specializzato di questo tipo), tutti parlano la stessa lingua. Dicono che è l'ospedale ad adeguarsi ai problemi del paziente e non il paziente a essere soggetto alle necessità del reparto o ai capricci del primario. Spiegano che la pari dignità di tutte le figure professionali, dal chirurgo al direttore sanitario, agli impiegati, agli infermieri, è la vera forza del gioco di squadra.
«Certo, qui si pretende molto e devi dare molto» dice l'infermiera Iori. «Alcune mie compagne di corso che non erano d'accordo con questi principi se ne sono andate. Io no. Certo arrivi la sera che sei sfinita, ma vuoi mettere la soddisfazione del grazie che ti arriva dal malato?».