Pregare con l'inno eucaristico "Adoro Te Devote"

In occasione del settimo anniversario della morte di mons. Javier Echevarría, prelato dell'Opus Dei, condividiamo questa lettera che scrisse nel 2004 per aiutare la preghiera di ciascuno sull'inno eucaristico “Adoro te devote”. Il testo della lettera è disponibile nei formati Epub, PDF e Mobi.

Scarica la lettera in PDF

Scarica la lettera in Epub

Scarica la lettera in Mobi

Lettera pastorale in occasione dell’Anno dell’Eucaristia

S.E. Mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei

«Nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e Pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini»[1]. Questa misteriosa e ineffabile manifestazione dell’amore di Dio verso l’umanità, occupa un posto privilegiato nel cuore dei cristiani e, tangibilmente, dei figli di Dio nell’Opus Dei. Questo ci insegnava il nostro amatissimo Padre con il suo esempio, con la sua predicazione e con i suoi scritti, quando affermava che l’Eucaristia costituisce «il centro e la radice della vita spirituale del cristiano»[2].

Perciò ci ha colmato di gioia la decisione del Santo Padre, resa pubblica nella scorsa Solennità del Corpus Domini , di celebrare un Anno dell’Eucaristia nella Chiesa universale. Ricorderete che questo tempo comincia in questo mese di ottobre, con il Congresso Eucaristico Internazionale di Guadalajara, in Messico, e si concluderà nell’ottobre del 2005 con l’Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata proprio a questo mirabile Sacramento.

In continuità ideale con il Giubileo del 2000 e nello spirito della Lettera Apostolica Novo Millennio ineunte , esprimo il desiderio che i fedeli della Prelatura, i Cooperatori e le persone che si formano al calore dello spirito dell’Opera, assecondino giorno dopo giorno il Romano Pontefice e si adoperino con tutte le forze affinché la Santa Eucaristia diventi sempre di più il centro della loro intera esistenza. Vi suggerisco anche, nell’Anno eucaristico, uniti alla Madonna nella recita del Rosario e mossi dall’esempio di San Josemaría, di recarvi spesso davanti al tabernacolo per dire con profonda sincerità a Gesù, fattosi Ostia Santa: Adoro te devote ! Proponiamoci questa meta e impegniamoci a raggiungerla, perché la nostra vita varrà tanto quanto l’intensità della nostra pietà eucaristica.

Adoro te devote, latens Deitas, quæ sub his figuris vere latitas

Tanto Dio amò il mondo

Cominciamo con un atto personale di profonda adorazione dell’Eucaristia, di Cristo stesso, perché in questo Santissimo Sacramento «è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, e, quindi, il Cristo tutto intero»[3]. Gesù è presente, ma non si vede: è nascosto sotto le specie del pane e del vino[4] . «È nascosto nel Pane [...] per amor tuo»[5].

L’amore per le creature che Egli manifesta è il motivo per cui è rimasto fra noi, in questo mondo, sotto il velo eucaristico. «Sin da piccolo ho capito perfettamente il perché dell’Eucaristia: è un sentimento che proviamo tutti; restare per sempre accanto a colui che amiamo»[6]. San Josemaría, considerando il mistero dell’amore di Cristo che pone le sue delizie trattenendosi tra i figli degli uomini (cfr Pro 8, 31), che non vuole lasciarci orfani (cfr Gv 14, 18), che ha deciso di stare con noi fino alla consumazione dei secoli (cfr Mt 28, 20), spiegava il motivo dell’istituzione di questo Sacramento con l’immagine delle persone che debbono separarsi. «Vorrebbero stare sempre insieme, però il dovere - un qualunque dovere - li costringe a dividersi»; allora, non avendo altra possibilità, «si scambiano un ricordo, forse una fotografia», ma «non possono fare di più, perché il potere delle creature non è all’altezza del loro volere». Gesù, Dio e Uomo, supera questi limiti per amore nostro. «Ciò che noi non possiamo fare, lo può fare il Signore». Egli «non ci lascia un simbolo, ma la realtà: ci lascia se stesso»[7] , colui che nacque da Maria a Betlemme, che lavorò a Nazaret e percorse la Galilea e la Giudea e che morì crocifisso sul Golgota, colui che risuscitò gloriosamente il terzo giorno e apparve ripetutamente ai suoi discepoli [8].

La fede cristiana ha confessato sempre questa identità, anche per respingere le nostalgie di quanti giustificavano il loro scarso spirito cristiano, dicendo di non vedere il Signore come accadeva ai primi discepoli; o di quanti asserivano che si sarebbero comportati ben diversamente se avessero potuto stare fisicamente accanto a lui. «Quanti sono quelli che ora dicono: “Vorrei vedere le sue fattezze, la sua figura, le sue vesti, i suoi calzari!”. Ma ecco che puoi vederlo, puoi toccarlo, puoi mangiarlo. Tu vorresti vedere le sue vesti; ma Egli ti dà se stesso, non solo perché tu lo veda, ma perché lo tocchi e lo mangi, e lo riceva dentro di te. Nessuno, dunque, si avvicini sfiduciato, tiepido: ma tutti ardenti, ferventi e vigilanti»[9].

Un Dio vicino

San Josemaría ci ha insegnato a fare pienamente nostra la fede dalla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, affinché il Signore entri veramente nella nostra vita e noi nella sua, e lo guardiamo e lo contempliamo, con gli occhi della fede, come una persona realmente presente: ci vede, ci ascolta, ci aspetta, ci parla, si avvicina e ci cerca, si immola per noi nella Santa Messa[10].

Nostro Padre diceva che gli uomini hanno la tendenza a immaginare il Signore «lassù, lontano, dove brillano le stelle», quasi non si interessi delle sue creature; e non riescono a credere «che è sempre anche al nostro fianco»[11]. Forse avrete incontrato persone che considerano il Creatore molto diverso dagli uomini, senza particolare interesse per le piccole o grandi vicende della vita dell’uomo. Noi, invece, sappiamo che non è così, ma che «eccelso è il Signore e guarda verso l’umile» (Sal 137, 6, Vg): si rivolge a ciascuno di noi con amore, tutto ciò che è nostro gli interessa.

«Il Dio della nostra fede non è un essere lontano, che contempla impassibile la sorte degli uomini: le loro fatiche, le loro lotte, le loro angosce. È un padre che ama i suoi figli fino al punto da inviare il Verbo, Seconda Persona della Santissima Trinità, affinché si incarni, muoia per noi e ci redima. È lo stesso Padre affettuoso che adesso ci attrae dolcemente a sé con l’azione dello Spirito Santo che abita nei nostri cuori»[12]. Il suo amore e il suo interessamento infinito per ciascuno di noi hanno indotto il Figlio a rimanere nell’Ostia Santa, oltre che a incarnarsi, lavorare e soffrire come gli uomini suoi fratelli. È veramente Emanuele, Dio con noi. «Il Creatore si è prodigato per amore delle sue creature. Nostro Signore Gesù Cristo, come se non bastassero tutte le altre prove della sua misericordia, istituisce l’Eucaristia perché possiamo averlo sempre vicino, dal momento che Egli - per quanto ci è dato di capire -, pur non abbisognando di nulla, mosso dal suo amore, non vuole fare a meno di noi»[13].

Atti di adorazione

Al cospetto di questo mistero di fede e di amore, cadiamo in adorazione; è inevitabile, perché solo così mostriamo adeguatamente di credere che l’Eucaristia è Cristo veramente, realmente e sostanzialmente presente con il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità. Anche questa disposizione è necessaria, perché solo così il nostro amore, sottomesso e completo, offre risposta adeguata all’immenso amore di Gesù per ciascuno di noi (cfr Gv 13, 1; Lc 22, 15). La nostra adorazione di Cristo, in quanto Dio, nel sacramento, comprende insieme un gesto esterno e una devozione interna: ci si innamora. Non è un ritualismo convenzionale, ma un’oblazione intima della persona che si riflette esternamente. «Nella Santa Messa noi adoriamo, compiendo con amore il primo dovere della creatura verso il Creatore: “Adorerai il Signore Dio tuo, e Lui solo servirai” ( Dt 6, 13; Mt 4, 10). Non si tratta di adorazione fredda, esteriore, servile; ma di intima consapevolezza, di dedizione, di tenero amore filiale»[14].

I gesti di adorazione - chinare la testa o piegare il corpo, genuflettersi, prostrarsi - esprimono sempre riverenza, affetto, sottomissione, annullamento, desiderio di unione, di servizio e mai, naturalmente, servilismo. La vera adorazione non significa allontanamento, distanza, ma è una identificazione d’amore, perché «un figlio di Dio tratta il Signore come Padre. Non con ossequio servile né con riverenza formale, ma con sincerità e fiducia»[15].

Quanta importanza dava San Josemaría alle manifestazioni di devozione, per quanto piccole potessero sembrare! Sono particolari pieni di significato, che rivelano la finezza interiore di una persona, la qualità della sua fede e del suo amore. «Che fretta hanno ormai tutti quanti nei riguardi di Dio! [...]. Tu non avere fretta. Non fare, al posto di una devota genuflessione, una contorsione del corpo che è una specie di sberleffo [...]. Fa’ la genuflessione così, adagio, con devozione, ben fatta. E mentre adori Gesù sacramentato, digli nel tuo cuore: Adoro te devote, latens deitas . Ti adoro, mio Dio nascosto»[16].

Un’importanza ancora maggiore egli attribuiva alla disposizione interiore di amore che deve permeare tutte le manifestazioni esterne della devozione eucaristica. L’adorazione di Gesù presente nel sacramento va dalla contemplazione del suo amore per noi all’umile dichiarazione d’amore per Lui della creatura; ma non è solo una questione di parole, che pure sono necessarie, ma soprattutto di fatti esterni e interiori di donazione: «Parliamo con il Signore, ciascuno di noi, dicendogli senza parole che niente potrà separarci da Lui, che la sua disponibilità - inerme - a restare sotto le apparenze, così fragili, del pane e del vino ci ha convertiti a una schiavitù volontaria»[17]. Facendo eco a San Giovanni Damasceno, San Tommaso d’Aquino spiega che, nella adorazione autentica, l’umiliazione esteriore del corpo manifesta ed eccita la devozione interiore dell’anima, l’anelito di sottomettersi a Dio e di servirlo[18].

Non dobbiamo temere - tutto il contrario! - di ripetere al Signore che lo amiamo e lo adoriamo, ma dobbiamo avvalorare le parole con le nostre azioni, aderendo e obbedendo alla sua volontà: «Dio Nostro Signore ha bisogno che gli ripetiate ogni giorno, quando lo ricevete: Signore, credo che sei Tu, credo che sei realmente nascosto nelle specie sacramentali! Ti adoro, ti amo! Quando lo andate a trovare in oratorio, ripeteteglielo nuovamente: Signore, credo che sei realmente presente! Ti adoro, ti amo! Questo significa amare il Signore. Così lo ameremo sempre di più. Poi, continuate ad amarlo durante la giornata, pensando e mettendo in pratica questa considerazione: voglio terminare bene ogni cosa per amore di Gesù, che ci presiede dal tabernacolo»[19].

Tibi se cor meum totum subiicit, quia, te contemplans, totum déficit

Stupirsi davanti al mistero d’amore

Davanti alla donazione di Gesù nell’Eucaristia, quante volte nostro Padre ha ripetuto: «È rimasto per te»; «Si è umiliato fino a questo estremo per amor tuo»[20]. Nel contemplare tanto amore, il cuore credente rimane fulminato, colmo di ammirazione, e desidera contraccambiare, consegnandosi del tutto al Signore. «Io mi commuovo dinanzi a questo mistero d’Amore»[21]. Coltiviamo questo sentimento, questa disposizione dell’intelletto e della volontà, per non abituarci e per conservare l’animo semplice del bambino che si meraviglia davanti ai doni che suo padre gli prepara. Diciamo anche, con profonda gratitudine: «Grazie, Gesù, grazie per esserti abbassato tanto, fino a saziare tutte le necessità del nostro povero cuore»[22]. Come conseguenza logica, mettiamoci a cantare, lodando nostro Padre Dio, che ha voluto nutrire i suoi figli con il Corpo e il Sangue di suo Figlio; e lodiamolo senza posa, sapendo che la lode non sarà mai sufficiente[23].

Gesù è rimasto nell’Eucaristia per guarire la nostra fragilità, i nostri dubbi, paure, angosce; per alleviare la nostra solitudine, le perplessità, gli scoraggiamenti; per farci compagnia lungo il cammino; per sostenerci nella lotta; ma soprattutto per insegnarci ad amare, per attrarci al suo Amore. «Quando contemplate l’Ostia Santa esposta nell’ostensorio sull’altare, pensate che amore, che tenerezza è quella di Cristo. Io me lo spiego per l’amore che vi porto; se, lavorando lontano, potessi stare nello stesso tempo accanto a ciascuno di voi, come lo farei volentieri! Cristo, invece, può farlo! Ed Egli, che ci ama con un amore infinitamente superiore a quello che tutti i cuori della terra possono albergare, è rimasto affinché possiamo unirci sempre alla sua Santissima Umanità, e per aiutarci, per consolarci, per fortificarci, affinché siamo fedeli»[24].

«I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore -. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» ( Is 55, 8-9). La logica eucaristica supera ogni logica umana, non solo perché la presenza di Cristo sotto le specie sacramentali è un mistero che mai potremo comprendere pienamente col nostro intelletto, ma anche perché la donazione di Cristo nell’Eucaristia va molto oltre la piccolezza del cuore umano, oltre quella di tutti i cuori umani messi insieme. Alle facoltà della nostra mente tanta generosità può apparire inspiegabile, perché è molto lontana dagli egoismi grandi o piccoli che tante volte ci tendono un agguato.

«Il pazzo più grande che ci sia mai stato e che mai ci sarà è Lui. C’è pazzia più grande di darsi come e a chi Egli si dà? Perché sarebbe già stata pazzia il farsi e restare Bambino indifeso; però, in tal caso, anche molti cattivi si sarebbero inteneriti, e non avrebbero osato maltrattarlo. Gli parve poco: volle annichilirsi di più e darsi di più. E si è fatto cibo, si è fatto Pane. Divino Pazzo! Come ti trattano gli uomini?... E io stesso?»[25].

È necessario dilatare il cuore per avvicinarsi a Gesù sacramentato. È vero, occorre avere fede; ma per essere anima di Eucaristia, occorre anche “saper amare”, “sapersi dare agli altri”, imitando, nella nostra piccolezza, la donazione di Cristo a tutti e a ciascuno. Con la sua esperienza personale, San Josemaría ha potuto confidarci: «La frequenza con cui facciamo visita al Signore è in funzione di due fattori: fede e cuore; vedere la verità e amarla»[26].

Alla “scuola” di San Josemaría

Nostro Padre assaporò in profondità, sin dalla prima giovinezza, l’amore di Cristo presente in questo Sacramento, perché aveva una fede enorme - «che si poteva tagliare» - e perché sapeva amare: poteva porsi «come esempio di uomo che sa amare». Per questo la «pazzia d’amore» del Signore che ci si dona in questo Sacramento «gli rubò il cuore», e comprese a quali vertici di annichilimento e di umiliazione era arrivato il Signore per il tenero e forte affetto verso ciascuno di noi. Anche per questo seppe ricambiare un tale amore senza rifugiarsi in un generico anonimato: si considerò direttamente interpellato da Cristo che nell’Eucaristia si offriva per la sua vita e per quella di tutti, e a buon diritto poté dunque scrivere, riferendosi al Santo Sacrificio: «La “nostra” Messa, Gesù...»[27].

Percorriamo ogni giorno l’itinerario del nostro amatissimo Fondatore: chiediamo al Signore molte volte, con gli Apostoli e con San Josemaría: adauge nobis fidem! ; così impareremo, alla “scuola di Mariano” a darci costantemente agli altri, cominciando a servire coloro che ci stanno accanto con una attenzione ricolma di amore sacrificato. Così sapremo entrare anche noi nel mistero dell’Amore eucaristico e unirci intimamente al sacrificio di Cristo. Nello stesso tempo, l’amore che proviamo verso il Signore sacramentato ci spingerà a darci agli altri, senza farci notare, senza farlo pesare: come ha fatto Lui. «Gesù è venuto sulla terra ed è rimasto in mezzo a noi nell’Eucaristia per amore e per insegnarci ad amare»[28].

Nella nostra condotta personale dobbiamo imitare Gesù, che oblatus est quia ipse voluit ( Is 53, 7, Vg): la decisa determinazione interiore di donarsi alla persona amata, di fare ciò che essa spera e chiede. Abbiamo bisogno di un cuore puro, pieno degli affetti giusti, vuoto di disordini introdotti da un io esorbitante. «Le manifestazioni esterne dell’amore devono nascere dal cuore, e continuare in una testimonianza di vita cristiana [...]. Rendiamo le nostre parole vere, chiare, opportune: che sappiano consolare e aiutare, che sappiano soprattutto portare agli altri la luce di Dio»[29].

L’essere veramente anime di Eucaristia non si riduce a una fedele osservanza di alcune formalità, che d’altra parte sono indispensabili; ma comporta la donazione completa del cuore e della vita, per amore a Colui che ci ha donato e ancora oggi ci dona la sua con una generosità assoluta. Impariamo dalla Madonna l’umiltà e la disponibilità senza condizioni ad amare, accogliere e servire Gesù. Meditiamo spesso, come ci suggeriva il nostro amatissimo Padre, che Ella «fu concepita immacolata perché potesse albergare Gesù Cristo nel suo seno»; e riflettiamo sulla domanda con cui concludeva l’invito: «Se il rendimento di grazie deve essere proporzionato alla differenza che corre tra il dono e i meriti, non dovremmo trasformare tutta la nostra giornata in una incessante Eucaristia?»[30].

Visus, tactus, gustus in te fallitur, sed audítu solo tuto creditur

Con la luce della fede

Quanto è evidente, davanti al Santissimo Sacramento, la sconfitta dei sensi! L’esperienza sensibile, la via naturale per la quale la nostra intelligenza conosce le cose, in questo caso non basta. Solo l’udito salva l’uomo dal naufragio sensibile davanti all’Eucaristia. Solo ascoltando la Parola di Dio che rivela ciò che la mente non percepisce attraverso la sensibilità, e accogliendola con la fede, si riesce a sapere che la sostanza, pur sembrandolo, non è pane ma il corpo di Cristo, non è vino ma il sangue del Redentore.

Anche l’intelletto naufraga, perché non riesce e non riuscirà mai a comprendere la possibilità che, pur rimanendo del pane e del vino ciò che è sensibile - le “specie” -, la realtà sostanziale costituisca il Corpo e il Sangue di Cristo. «Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura»[31].

Grazie a questa virtù teologale, davanti al Mistero eucaristico si raggiunge la certezza che alla sola ragione umana appare impossibile. «Signore, io credo fermamente. Grazie per averci concesso la fede! Credo in Te, in questa meraviglia di amore che è la tua Presenza Reale sotto le specie eucaristiche, dopo la consacrazione, sull’altare e nei Tabernacoli dove sei riservato. Credo più che se ti udissi con le mie orecchie, più che se ti vedessi con i miei occhi, più che se ti toccassi con le mie mani»[32].

«È tutta intera la nostra fede a essere posta in atto quando crediamo in Gesù e nella sua presenza reale sotto le specie del pane e del vino»[33]. Fede nel potere del Creatore, fede in Gesù, che afferma: «Questo è il mio corpo», e aggiunge: «Questo è il calice del mio sangue»; fede nell’azione ineffabile dello Spirito Santo, che è intervenuto nell’incarnazione del Verbo nel seno della Vergine e ora interviene nella mirabile conversione eucaristica, nella transustanziazione.

Fede nella Chiesa, che ci insegna: «Cristo, nostro Redentore, ha detto che ciò che offriva sotto la specie del pane (cfr Mt 26, 26-29; Mc 14, 22-25; Lc 22, 19s; 1 Cor 11, 24-26) era veramente il suo corpo; nella Chiesa di Dio vi fu sempre la convinzione, e questo santo Concilio lo dichiara ora di nuovo, che con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue. Questa conversione, quindi, in modo conveniente e appropriato è chiamata dalla Santa Chiesa Cattolica transustanziazione»[34].

In continuità con quel Concilio e con l’intera Tradizione, il Magistero successivo ha insistito sul fatto che «ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino hanno cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad essere realmente dinanzi a noi»[35].

Vi consiglio, soprattutto durante l’ Anno dell’Eucaristia , di rileggere e meditare alcuni dei più importanti documenti che il Magistero della Chiesa ha dedicato al Santissimo Sacramento[36] . Accogliamo con intima gratitudine questi venerati testi, rinforzando la nostra obœdientia fidei alla Parola di Dio che in questi insegnamenti ci viene trasmessa con l’autorità data da Cristo [37].

Credo quidquid dixit Dei Filius: nil hoc verbo veritatis verius

Parole di vita

La nostra fede si fonda sulle parole stesse del Signore, che la Chiesa ha interpretato sempre così come sono, vale a dire in senso pienamente reale. Dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, il Signore disse: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» ( Gv 6, 51). Non parlava in termini figurati; se così fosse stato, nel constatare che molti, compresi alcuni discepoli, si scandalizzavano per ciò che diceva, si sarebbe espresso con altri termini. Ma non lo fece; al contrario, confermò con forza: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» ( Gv 6, 54-55). Affinché non pensassero che stava per offrirsi loro come alimento in una forma materiale e sensibile, aggiunse: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita» ( Gv 6, 63).

Sono parole del Verbum spirans amorem : parole d’amore, che portano all’amore, perché rivelano l’Amore di Dio verso l’umanità, che annunciano la Buona Novella: «La Trinità si è innamorata dell’uomo»[38]. È mai possibile che le nostre cose non gli importino nulla? È mai possibile che non intervenga in nostro favore nel momento del bisogno? «Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» ( Is 49, 14-15). Con l’incarnazione del Verbo, l’interesse, l’attenzione di Dio per ciascuno di noi ci arriva attraverso il suo Cuore umano. «Gesù si commuove alla vista della fame e del dolore, ma soprattutto si commuove alla vista dell’ignoranza: “Gesù vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore e si mise a insegnare loro molte cose” ( Mc 6, 34)»[39].

Un atteggiamento di fiducia

Sul piano naturale è logico sottolineare l’importanza dell’esperienza sensibile come fondamento della scienza e del sapere. Ma se gli occhi «restano attaccati alle cose terrene», non è difficile e non è strano che succeda ciò che descriveva nostro Padre: «Gli occhi dell’anima si annebbiano; la ragione si crede autosufficiente per comprendere tutto prescindendo da Dio [...]. L’intelligenza umana si considera il centro dell’universo, si esalta ancora una volta al “diventerete come Dio” ( Gn 3, 5) e, tutta piena d’amore per se stessa, volge le spalle all’amore di Dio»[40]. In un’epoca che «favorisce un clima mondiale teso a incentrare tutto sull’uomo, in un ambiente di materialismo che ignora la vocazione trascendente dell’uomo»[41] , dobbiamo coltivare in noi e diffondere attorno a noi l’atteggiamento di apertura verso gli altri, di una ragionevole fiducia nella loro parola.

Prima vi dicevo che, per poter comprendere la «suprema benignità divina»[42] dell’Eucaristia, è necessario “saper amare”; considerate però che è ugualmente necessario “saper ascoltare” e confidare, prima di tutto, in Dio e nella sua Chiesa. La fede in Gesù sacramentato, che è sottomissione e, contemporaneamente, elevazione dell’intelligenza, ci libererà dalla spirale nefasta che allontana da Dio e dagli altri; ci difenderà dalla «totale presunzione» che nasconde «il peggiore dei mali»[43]. Prostrare l’intelligenza davanti alla Parola increata, nascosta nelle specie del pane, ci aiuta anche a non fidarci soltanto dei nostri sensi e del nostro giudizio e a rafforzare in noi l’autorità di Dio che non si sbaglia né può sbagliarsi.

Nel tabernacolo si cela la fortezza, il rifugio più sicuro contro i dubbi, i timori e le inquietudini[44] . Questo è il Sacramento della Nuova Alleanza, dell’Alleanza eterna, novità ultima e definitiva perché non ce ne sarà un’altra. Senza Cristo l’uomo e il mondo sarebbero nell’oscurità. Anche la vita del cristiano diventa sempre più buia se si separa da Lui. Questo Sacramento, con la sua definitiva novità, scaccia per sempre le cose vecchie, l’incredulità, il peccato. «Dobbiamo rifiutare e allontanare da noi tutto quanto è caduco, dannoso o inutile: lo scoraggiamento, la sfiducia, la tristezza, la viltà. La Sacra Eucaristia comunica ai figli di Dio la novità divina; e a noi tocca corrispondere in novitate sensus , rinnovando tutto il nostro sentire e il nostro operare. Ci è stato dato un principio nuovo di energia, una radice potente innestata nel Signore»[45].

In cruce latebat sola Deitas, at hic latet simul et humanitas

Con Cristo sul Calvario

La celebrazione dell’Eucaristia ci colloca sul Calvario, perché «in questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offerse una sola volta in modo cruento sull’altare della croce (cfr. Eb 9, 27) [...]. Si tratta, infatti, di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, Egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi»[46]. Al Calvario abbiamo accesso «non soltanto per mezzo di un ricordo pieno di fede, ma anche in un contatto attuale, poiché questo sacrificio ritorna presente , perpetuandosi sacramentalmente in ogni comunità che lo offre per mano del ministro consacrato»[47].

Sul Golgota, su un’altra croce, accanto a Gesù c’è Dima, il buon ladrone. Insieme a lui ci troviamo davvero davanti alla stessa Persona e assistiamo allo stesso drammatico avvenimento. Siamo anche in accordo con lui, o almeno vorremmo esserlo, nella fede profonda in questa Persona: egli credette che Gesù portava con sé il Regno di Dio e, pentito, desiderò stare con Cristo nel Suo Regno. Noi crediamo ugualmente che è Dio, il Figlio di Dio, che si fece uomo per salvarci; ma ci distinguiamo dal peccatore contrito per il fatto che egli vedeva l’umanità di Cristo, ma non la divinità; noi, invece, in Gesù sacramentato, non vediamo né la divinità né l’umanità.

Il ladrone pentito

A differenza dell’altro malfattore, Dima riconosceva le proprie colpe, accettava il castigo meritato per le sue offese e confessava la santità di Gesù. «Egli non ha fatto nulla di male» ( Lc 23, 41). Anche noi preghiamo il Signore di accoglierci nel suo Regno. Per riceverlo più purificati nel nostro petto, confessiamo le nostre colpe e gli chiediamo perdono; quando è necessario, come ci insegna la Chiesa, ricorrendo prima, con un dolore costruttivo, al sacramento della Riconciliazione:

«Se nessuno può partecipare a una sacra funzione senza una santa disposizione [...], tanto più il cristiano con maggior cura deve evitare di riceverlo senza una grande venerazione e santità, soprattutto poiché leggiamo queste parole, piene di timore, dell’Apostolo: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29). Colui che vuole comunicarsi deve richiamare alla mente il suo precetto: “Ciascuno, pertanto, esamini se stesso” ( 1 Cor 11, 28). La consuetudine della Chiesa dichiara che questo esame è necessario perché nessuno, consapevole di essere in peccato mortale, per quanto possa ritenersi contrito, si accosti alla Santa Eucaristia senza avere premesso la confessione sacramentale»[48].

L’umanità di Cristo crocifisso ha indotto Dima a non irrigidirsi e ad accettare con mansuetudine la sofferenza, respingendo la tentazione di ribellarsi. «Umiltà di Gesù: a Betlemme, a Nazaret, sul Calvario... Ma la sua umiliazione e il suo annichilimento sono maggiori nell’Ostia Santissima: più che nella stalla, che a Nazaret, che sulla Croce»[49]. Imitiamo il latro pœnitens nella disposizione umile, a maggior ragione perché l’esempio di annichilimento nell’Eucaristia, che contempliamo con la fede, è ancora maggiore di quello che egli vide con i suoi occhi sul Calvario. Quando l’«io» si erge superbo, reclamando diritti di comodità e di sensualità, riconoscimenti o ringraziamenti, il rimedio consiste nel guardare il Crocifisso, andare dal tabernacolo, partecipare sacramentalmente al suo sacrificio. A questa conclusione arrivava nostro Padre, che chiudeva così un punto di Cammino : «Perciò, quanto sono obbligato ad amare la Messa!»[50].

Cattedra di tutte le virtù

San Tommaso d’Aquino scrive che Cristo sulla Croce dà esempio di ogni virtù: « Passio Christi sufficit ad informandum totaliter vitam nostram »[51] , basta volgere gli occhi al Crocifisso per imparare tutto ciò di cui abbiamo bisogno nella vita. E insiste: « Nullum enim exemplum virtutis abest a Cruce »[52] , non mancano esempi di nessuna virtù, di tutte ve ne sono esempi abbondanti: fortezza, pazienza, umiltà, distacco, carità, obbedienza, disprezzo degli onori, povertà, abbandono...

Dell’Eucaristia possiamo affermare altrettanto: è cattedra eccelsa d’amore e di umiltà; in questo Dono divino possiamo rafforzarci anche nelle altre virtù cristiane. «Nella Sacra Eucaristia e nell’orazione troviamo la cattedra da cui impariamo a vivere, servendo lietamente tutte le anime: a governare, continuando a servire; a obbedire liberamente, volendo obbedire; a cercare l’unità nel rispetto della varietà, della diversità, nell’identificazione più intima»[53].

In modo particolare, dimostra di essere cattedra per le virtù che bisogna coltivare ogni giorno nel lavoro e in famiglia, nelle situazioni comuni delle persone normali: saper aspettare, saper accogliere tutti, essere sempre disponibili... Il silenzio di Gesù sacramentato è eloquente soprattutto per chi, come noi, deve santificarsi nel bel mezzo della strada , affaccendato in mille occupazioni in apparenza di scarsa importanza. Dal silenzio di quella sede, Egli ci indica che la vita ordinaria ci offre, insieme all’umiltà nella quale si svolge, una continua possibilità di santificazione e di apostolato; essa racchiude in sé tutto il tesoro e la forza di Dio, che interviene e dialoga in ogni istante con noi e s’interessa persino della caduta di un solo capello della creatura (cfr Mt 10, 29).

Contemplando Gesù nel sacramento, ci sentiamo impegnati a muoverci con rettitudine d’intenzione, senza altra volontà che compiere la Volontà di Dio: servire le anime perché arrivino in Cielo. Si scopre così l’importanza di darci agli altri, spendendo la propria esistenza nello stare insieme agli uomini nostri fratelli, senza chiasso, con pazienza, con discrezione; con l’amicizia e con l’affetto manifestati in opere, forse piccole, ma pratiche e utili; con la disponibilità di tempo e con la grandezza di cuore che sa pronunciare per tutti, per ognuno, la parola opportuna, il consiglio e la consolazione necessari, il chiarimento dottrinale e la correzione fraterna.

«Egli si adatta a tutto, accetta tutto, si espone a tutto - ai sacrilegi, alle bestemmie, alla fredda indifferenza di tanti - pur di offrire, anche a un solo uomo, l’occasione di scoprire i palpiti del suo Cuore ardente, nel suo petto ferito»[54].

Donarsi al servizio degli altri

Alla presenza reale di Gesù nel Tabernacolo, si comprende l’ineffabile efficacia del «nascondersi e scomparire», che non consiste nel dolce far niente, nell’isolarsi dagli altri, nell’evitare di influire sulle vicende nel proprio ambito familiare, professionale o sociale. Si traduce, piuttosto, nel dare tutta la gloria a Dio e nel rispettare la libertà degli altri, ma anche nello spingerli verso il Signore, non rudemente, ma con la “coazione” della propria donazione e della virtù lieta e generosa.

Guardando il Signore sacramentato, ci persuadiamo della convenienza di “farci pane”, in modo che gli altri possano cibarsi di ciò che è nostro - della nostra orazione, del nostro servizio, della nostra gioia - per fare passi avanti nel cammino della santità. Ci convinceremo della necessità del «sacrificio nascosto e silenzioso»[55] , senza spettacolo né gesti magniloquenti. «Gesù è rimasto nell’Eucaristia per amore..., per te. È rimasto, pur sapendo come lo avrebbero ricevuto gli uomini..., e come lo ricevi tu. È rimasto, affinché te ne cibi, affinché tu gli faccia visita e gli racconti le tue cose e, frequentandolo nell’orazione accanto al Tabernacolo e nella ricezione del Sacramento, ti innamori ogni giorno di più, e faccia in modo che altre anime - molte! - seguano lo stesso cammino»[56].

Nell’Eucaristia Gesù ci mostra con eloquenza divina che, per essere come Lui, bisogna donarsi agli altri completamente e senza mercanteggiare, sino a fare del nostro cammino un continuo servizio. «Arriverai a essere santo se hai carità, se sai fare le cose che gli altri gradiscono e che non offendono Dio, anche se ti costano»[57].

Ambo tamen credens atque confitens; peto quod petivit latro pœnitens

Al ritmo della contrizione

Ritorniamo alla scena del Calvario per ascoltare la petizione del buon ladrone, che tanto commuoveva San Josemaría quando meditava l’Adoro te devote. «Ho ripetuto molte volte il verso dell’inno eucaristico: Peto quod petivit latro poenitens , e ogni volta mi commuovo: chiedere come ha chiesto il ladrone pentito! Egli riconobbe di meritare, sì, quel castigo atroce... E con una parola rubò il cuore a Cristo e si aprì le porte del Cielo»[58].

Soprattutto negli ultimi anni, davanti alle difficoltà della Chiesa, nostro Padre si appellava con tutta l’anima alla misericordia divina, chiedendo comprensione e amore di Dio per sé e per tutti. Non esibiva meriti, poiché pensava di non averne affatto: «Ha fatto tutto il Signore», assicurava convinto. Non richiamava motivi di giustizia per ottenere dal Signore aiuto nella tribolazione e nella prova; cercava rifugio nella sua compassione. Così, dalla fede in Cristo passava alla contrizione: alla conversione continua e gioiosa. Con questa logica si muoveva nostro Padre, sicuro che cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies ( Sal 50 [51], 19), che Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato.

Ora, con la sua intercessione in Cielo, dobbiamo fare nostro questo ritmo di fede e di dolore che costituisce il segno inequivocabile di un’autentica vita interiore. La familiarità con l’Eucaristia rafforzerà la nostra speranza, la nostra fiducia nella misericordia del Signore, in molti modi; per esempio, aiutandoci a scoprire le nostre miserie, affinché le deponiamo ai piedi della Croce e così, lottando contro i difetti, innalziamo vittoriosa la Croce del Signore sulle nostre vite, sulle nostre debolezze.

Affidarsi alla misericordia di Dio

Dima trovò la misericordia e la grazia divine trasformando l’attività che era stata la sua “professione”: assalire e derubare gli altri. Sulla croce, grazie alla fede e a un dolore sincero, “assalì” Cristo, gli “rubò” il cuore ed entrò con Lui nella gloria. Nostro Padre ci ha trasmesso l’«amorosa consuetudine di “assalire” i Tabernacoli»[59] ; ci ha insegnato, soprattutto, a unire il nostro lavoro santificato all’offerta che Gesù fa di Se stesso nella Messa e a lavorare così con la forza che scaturisce dal suo sacrificio.

L’esperienza del latro pœnitens è anche la nostra: dalla misericordia del Signore aspettiamo la nostra santificazione. Nel ricevere il suo perdono e la sua grazia, mostriamo questi doni nella fraternità con cui trattiamo tutti, perché la santità, la perfezione, è direttamente legata alla misericordia. Lo dice chiaramente il Signore stesso: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» ( Mt 5, 48) e «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» ( Lc 6, 36).

Però dobbiamo tenere sempre presente che «la misericordia non si limita a un mero atteggiamento di compassione: la misericordia è sovrabbondanza di carità che, simultaneamente, comporta sovrabbondanza di giustizia»[60]. Questo si traduce semplicemente nel darsi e nel dedicarsi agli altri, come il buon samaritano: senza trascurare i propri doveri e, nello stesso tempo, decisi a sacrificare la comodità e a rinunciare ai piccoli, o non tanto piccoli, progetti e interessi personali. «Misericordia vuol dire mantenere il cuore in carne viva, umanamente e soprannaturalmente pervaso da un amore forte, abnegato, generoso»[61].

Concepita in tal modo, questa disposizione attiva dell’animo va applicata analogicamente a Cristo, Dio e Uomo. Sarebbe assurdo se riferissimo la nostra misericordia a Dio in Se stesso, ma non lo è se la riferiamo all’Umanità di Gesù, in quanto lo stesso Signore ci ha detto che considera diretta a Lui la misericordia usata verso gli uomini suoi fratelli, fossero anche i più piccoli (cfr Mt 25, 40). Inoltre possiamo in qualche modo praticare la misericordia, come riparazione, verso l’Umanità del Signore nascosto nel tabernacolo, dove ci si presenta come «il Grande Solitario»: è un profondo atto di amore e di pietà andare a fargli visita nel «carcere d’amore» dove è rimasto «volontariamente prigioniero»[62] perché ha voluto stare sempre con noi, sino alla fine.

Quante possibilità ci vengono offerte per “trattarlo bene”, per fargli compagnia, per manifestargli affetto! A questo ci esortava San Josemaría: «Gesù sacramentato, che ci aspetti amorevolmente in tanti tabernacoli abbandonati, io ti chiedo che in quelli dei nostri Centri ti trattiamo sempre “bene”, circondato dal nostro affetto, dalla nostra adorazione, dai nostri atti di riparazione, dall’incenso delle piccole vittorie, dal dolore per le nostre sconfitte»[63].

Plagas, sicut Thomas, non intueor, Deum tamen meum te confiteor

L’atteggiamento iniziale di Tommaso

Otto giorni dopo la Risurrezione di Gesù, nel Cenacolo, Tommaso può vedere il Signore che gli mostra le piaghe e gli dice: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente» ( Gv 20, 27). Anche noi, nell’Eucaristia, ci troviamo davvero davanti al suo corpo glorioso, anche se nel contempo nello stato di vittima - Christus passus - per la separazione sacramentale del corpo e del sangue. «Il Sacrificio eucaristico rende presente non solo il mistero della passione e della morte del Salvatore, ma anche il mistero della risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento. È in quanto vivente e risorto che Cristo può farsi nell’Eucaristia “pane di vita” ( Gv 6, 35 e 48), “pane vivo” ( Gv 6, 51)»[64].

Possiamo pensare che l’Apostolo Tommaso, quando arrestarono Gesù nel Getsemani e poi anche in seguito, davanti alla “sconfitta umana” di Cristo, si sentisse turbato, defraudato, disperato. Forse il suo crollo interiore fu soprattutto emotivo e per questo gli costava, più che agli altri dieci, accettare la realtà della Risurrezione del Signore. Gli era particolarmente difficile credere di nuovo in Gesù, sperare di nuovo in Lui, riempirsi un’altra volta di solido entusiasmo; in poche parole: amarlo e sentirsi amato da Lui. E mise delle condizioni.

Dio si è rivelato progressivamente e il corso storico della Rivelazione in qualche modo si traduce, a livello personale, nell’itinerario di fede di ciascuno. Qualsiasi nuovo passo in questo cammino comporta un abbandono interiore anch’esso “nuovo”, che è più costoso, perché obbliga a una maggiore identificazione con Cristo, a morire sempre di più al proprio io. Ci conviene saperlo, perché la reazione di San Tommaso può affacciarsi anche nella nostra anima: un atteggiamento di incredulità, di resistenza a credere senza tentennamenti, a credere di più: non meravigliamoci né spaventiamoci. Per evitare questo inconveniente, ripetiamo con più fede, davanti al tabernacolo e in altre occasioni: Dominus meus et Deus meus! ( Gv 20, 28).

Gli Apostoli credevano che Gesù fosse un profeta inviato da Dio, Messia e Salvatore di Israele, Figlio di Dio. Però si erano formati un’idea sbagliata su come sarebbe avvenuta la salvezza e quale forma avrebbe assunto il Regno del loro Maestro. Gli annunci dati almeno tre volte da Cristo sulla sua passione e morte non furono compresi del tutto. Poi, in parte per la loro indolenza e in parte per la tragedia della passione, gli avvenimenti li posero brutalmente davanti al piano di Dio, e tutti naufragarono, eccetto San Giovanni. Costò a tutti, e in modo particolare a San Tommaso, accettare la realtà gloriosa di Cristo risuscitato. Ma le diverse apparizioni del Signore sciolsero le loro riserve e lo stesso Tommaso superò la propria debolezza spirituale, come ho appena detto, con un meraviglioso atto di fede e di amore: Dominus meus et Deus meus!

Nell’ora della prova

Non possiamo neppure escludere in noi stessi, per diversi motivi, una resistenza iniziale a credere, dovuta all’accumularsi di esperienze negative, alla difficoltà di un ambiente anticristiano o a «un impensato incontro con la Croce»[65] , che ci appare più concreta e cruda: «Dio chiede a tutti una completa abnegazione e certe volte il povero uomo d’argilla, quale siamo noi, si ribella: soprattutto se abbiamo permesso che il nostro io s’interponga nel lavoro che dev’essere per Dio»[66].

Con la grazia di Dio, superiamo sempre siffatte situazioni, purché le affrontiamo per quello che sono: inviti ad avvicinarci di più a Dio, a conoscerlo meglio e ad amarlo di più, a servirlo con maggiore efficacia. E il mezzo più sicuro per superarle ci viene offerto dall’incontro con Cristo crocifisso e glorioso, con Gesù sacramentato. In un modo molto speciale è arrivato, allora, il momento di andare davanti al tabernacolo e parlare con il Signore, che ci mostra le sue piaghe come credenziali del suo amore; se abbiamo fede in queste piaghe che fisicamente non contempliamo, scopriremo con gli Apostoli la necessità del Mistero per cui «Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» ( Lc 24, 26); accetteremo più facilmente la Croce come un dono divino, perché comprenderemo l’esortazione di nostro Padre: «Dobbiamo riuscire a vedere la gloria e la felicità nascoste nel dolore».[67]

Le piaghe di Cristo

Ripeto, figlie e figli miei, che non dobbiamo sorprenderci né spaventarci se ci imbattiamo in situazioni particolarmente dure, nelle quali il chiaroscuro della fede ci presenta più esplicitamente la dimensione oscura; occasioni in cui forse sarà più difficile per noi riconoscere Cristo e anche solo intravedere il percorso del cammino voluto da Dio. Prove interiori possono essere dovute, a volte, alla miseria umana, alla nostra mancata risposta; spesso, però, non è così, ma fanno parte del piano voluto da Dio per identificarci con Cristo, per santificarci.

È arrivato il momento di “andare”, come fece l’Apostolo Tommaso, alle piaghe di Cristo. San Josemaría ce ne parla in questi termini: «Non dimenticate che stare con Cristo vuol dire, senza possibilità di dubbio, imbattersi nella sua Croce. Se ci abbandoniamo nelle mani di Dio, è frequente che egli permetta che assaporiamo il dolore, la solitudine, le contrarietà, le calunnie, la diffamazione, la derisione, dall’interno e dall’esterno: perché vuole configurarci a sua immagine e somiglianza, e permette perfino che ci chiamino pazzi e ci prendano per stolti. È il momento di amare la mortificazione passiva, che giunge - occulta, o sfrontata e insolente - quando non l’attendiamo [...]. Nell’ammirare e nell’amare davvero la Santissima Umanità del Signore, scopriremo a una a una le sue Piaghe. E in questi tempi di purificazione passiva, dolorosi, forti, di lacrime dolci e amare che cerchiamo di nascondere, sentiremo il bisogno di entrare in ciascuna delle sue Santissime Ferite: per purificarci, per godere del suo Sangue redentore, per fortificarci [...]. Andateci nel modo che più vi commuove: riversate nelle Piaghe del Signore tutto l’amore umano... e tutto l’amore divino. Questo è bramare l’unione, sentirsi fratelli di Cristo, suoi consanguinei, figli della stessa Madre, perché è Lei a condurci a Gesù»[68].

Non solo nei momenti di prova, ma sempre, cercheremo con maggiore perseveranza l’incontro con Cristo risuscitato, che ci aspetta sull’altare e nel tabernacolo. Con quanta fiducia e sicurezza andremo davanti a Gesù nel sacramento, per pregare, con l’audacia dei bambini, per tante necessità e intenzioni! L’Apostolo Tommaso mise l’incontro come condizione per credere; noi, ora, con la grazia di Dio, nutriamo la certezza che, se ci mettiamo dinanzi a Gesù, risolveremo tutte le nostre difficoltà spirituali. Non vediamo né l’umanità né la divinità del Signore, ma crediamo fermamente, e andiamo a Lui, che «ci vede, ci ascolta, ci attende e ci presiede dal Tabernacolo, dove è realmente presente, nascosto sotto le specie sacramentali [...], che gli fa dire: “Che ti succede?”, “Mi succede...” e, subito, la luce o, almeno, la forza di accettare, e la pace»[69]. Così saremo fedeli e sentiremo l’impulso e la forza per dire a tutti, senza rispetti umani, con naturalezza e premura, che abbiamo trovato Cristo, che lo abbiamo toccato, che vive! Assaporeremo, come San Josemaría, la verità e la gioia che Iesus Christus heri et hodie idem, et in sæcula! ( Eb 13, 8).

Fac me tibi semper magis credere, in te spem habere, te diligere

Anime di eucaristia: fede, amore, speranza

La crescita della vita spirituale è strettamente legata alla crescita della devozione eucaristica. Con quanta forza lo predicò nostro Padre! Con la sua personale esperienza spirituale, spinge ognuna e ognuno di noi: «Sii anima di Eucaristia! Se il centro dei tuoi pensieri e delle tue speranze è il tabernacolo, come saranno abbondanti, figlio mio, i frutti di santità e di apostolato!»[70].

Il desiderio di santità e lo zelo apostolico trovano nella contemplazione eucaristica il canale e il fondamento più solido. «Non comprendo come si possa vivere cristianamente senza sentire il bisogno di un’amicizia costante con Gesù nella Parola e nel Pane, nella preghiera e nell’Eucaristia. Comprendo bene, invece, i vari modi in cui, lungo i secoli, le successive generazioni di fedeli hanno concretato la pietà eucaristica»[71].

Quando Dio si avvicina a un’anima per attirarla a Sé, la creatura deve fare più atti di fede, di speranza e di amore; deve intensificare la propria vita teologale, intensificando la preghiera, la penitenza, la frequenza dei sacramenti, il dialogo con l’eucaristia. Così si comportò sempre nostro Padre, soprattutto da quando il Signore cominciò a manifestarsi alla sua anima con i presagi dell’amore. Nel Seminario di San Carlo passò notti intere in preghiera, facendo compagnia al Signore nel tabernacolo; man mano che le giornate trascorrevano, percepiva sempre più profondamente il desiderio di stare di più con Lui.

Il cammino cristiano è un percorso essenzialmente teologale: frutto della conoscenza soprannaturale, della tensione verso il Bene infinito che è la Trinità, della comunione nella carità. E l’adorazione eucaristica ne è l’espressione più sublime, perché è rivolta a Dio nel modo in cui Egli ha deciso di mettersi a nostra disposizione. Nello stesso tempo, per lo stesso motivo, si mostra a noi come il mezzo migliore per crescere in queste tre virtù. Nostro Padre le invocava tutti i giorni, proprio nella Santa Messa, mentre elevava Gesù sacramentato nell’Ostia consacrata e nel calice col suo Sangue: adauge nobis fidem, spem, caritatem!

La fede, la speranza e la carità: virtù soprannaturali, che solo Dio può infondere nelle anime e solo Lui può accrescere. Ma questo non significa che ricevere questi doni divini esima dalla collaborazione personale, perché mai in nessuno dei suoi progetti l’Onnipotente impone il suo amore: «Non vuole degli schiavi, ma dei figli, e quindi rispetta la nostra libertà»[72]. Perciò di solito vuole che la sua azione ineffabile sia accolta e accompagnata dallo sforzo della creatura: meravigliamoci per l’importanza che attribuisce al nostro impegno.

Le delicatezze del Signore

Dobbiamo comprendere che il nascondimento di Gesù Cristo nelle specie eucaristiche, che risponde alle esigenze dell’economia sacramentale, realizza anche il desiderio divino di non forzare la libertà umana. Occultandosi, il Signore ci invita a cercarlo, mentre Egli ci viene incontro: «Egli stesso gli va incontro»[73]. Quante volte questo è successo a San Josemaría, che, senza rendersene conto, senza proporselo esplicitamente, si sorprendeva a “rimuginare” frasi della Scrittura che illuminavano aspetti del suo lavoro, che gli manifestavano la volontà di Dio, che davano risposta a problemi e dubbi che aveva esposto al suo Signore! «Racconta l’Evangelista che Gesù, dopo aver operato il miracolo, quando vogliono incoronarlo re, si nasconde. Signore, che ci fai partecipare al miracolo dell’Eucaristia: ti chiediamo di non nasconderti, di vivere con noi, di poterti vedere, toccare, sentire, di voler stare sempre vicino a Te, di essere il Re delle nostre vite e del nostro lavoro»[74].

La vita teologale, di fede, speranza e carità, per sua stessa natura tende sempre a qualcosa di più, a migliorare la propria risposta: non si accontenta di ciò che già fa. Un segno dell’autentico amore per Dio, pertanto, sta nel pensare che lo si ama poco, che occorre aumentare il dialogo quotidiano. Solo chi ama poco pensa di amare molto. Nostro Padre ci chiede con forza: «Come?... Non puoi fare di più? Non sarà, piuttosto, che... non puoi fare di meno?»[75]. Rispondiamo ricorrendo ancora una volta a Cristo, Signore nostro, nascosto nel tabernacolo: Fac me tibi semper magis credere, in te spem habere, te diligere.

Questa tensione verso il “più”, così come tutta la vita cristiana, trova nell’Eucaristia la sua radice e il suo centro. Gesù eucaristico, infatti, è il culmine del “crescendo” di donazione di Dio all’umanità e, se ci identifichiamo con Lui, ci comunicherà, prendendoci per mano, suaviter et fortiter , la stessa voglia di aumentare la donazione personale. Così si esprimeva San Josemaría: «Hai cominciato con la tua visita quotidiana... Non mi stupisce che tu mi dica: comincio ad amare alla follia la luce del tabernacolo»[76]. Davanti al tabernacolo supplichiamo con fervente pietà Gesù perché conceda a noi tutti, sempre più, una “fede operativa”, una “carità impegnata”, una “speranza costante” ( 1 Ts 1, 3).

O memoriale mortis Domini, panis vivus, vitam præstans homini

Memoriale del Sacrificio della Croce

L’Eucaristia è il memoriale della morte del Signore e il banchetto in cui Cristo ci dà l’alimento del suo corpo e del suo sangue. «La divina sapienza - insegna Pio XII - ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del nostro Redentore con segni esteriori che sono simbolo di morte. Infatti, per mezzo della transustanziazione del pane nel corpo e del vino nel sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue. Così l’attualizzazione memoriale della sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell’altare, perché per mezzo di simboli distinti si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima»[77].

Giovanni Paolo II, nell’esporre questa dottrina, scrive: «La Messa rende presente il sacrificio della Croce, non vi si aggiunge e non lo moltiplica. Quello che si ripete è la celebrazione memoriale, la “ostensione memoriale” ( memorialis demonstratio ) di esso, per cui l’unico e definitivo sacrificio redentore di Cristo si rende sempre attuale nel tempo. La natura sacrificale del Mistero eucaristico non può essere, pertanto, intesa come qualcosa a sé stante, indipendentemente dalla Croce o con un riferimento solo indiretto al sacrificio del Calvario»[78].

La Santa Messa, dunque, non si limita affatto a un semplice ricordo della vicenda salvifica del Golgota, ma l’attualizza sacramentalmente. Ogni sacramento realizza ciò che significa; così la Messa significa e fa presente lo stesso sacrificio di Gesù sul Calvario. Ci porta il memoriale vivo della Passione e Morte di Nostro Signore. «Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, fa memoria della Pasqua di Cristo, e questa diviene presente: il sacrificio che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla Croce rimane sempre attuale»[79]. Nel Sacrificio della Messa ci uniamo interamente all’offerta con cui Gesù Cristo, Capo della Chiesa, si donò a Dio Padre, in adorazione, azione di grazie, soddisfazione dei peccati dell’umanità e petizione per tutte le necessità del mondo.

Centro e radice della vita spirituale

Il nostro Fondatore, nella sua catechesi, si sforzava di spiegare l’intima relazione esistente tra l’Ultima Cena, la Croce e la Messa. In un periodo in cui, da più parti, veniva oscurata l’essenza sacrificale dell’Eucaristia, egli metteva in particolare rilievo il valore infinito del Santo Sacrificio. Con parole comprensibili a tutti, una volta disse: «Distinguo perfettamente l’istituzione della Sacra Eucaristia, che è un momento di manifestazione dell’amore divino e umano, dal Sacrificio sul legno della Croce. Nella Cena, Gesù era passibile, non aveva ancora patito; sul Calvario è paziente, e soffre con un gesto di Sacerdote Eterno. Gesù è lì inchiodato, dopo aver santificato il mondo con il suo passaggio, e muore per amore di ciascuno di noi: tutto il suo sangue è il prezzo della nostra anima, di ogni anima»[80].

Con la sua immolazione il Signore ci ha ottenuto una redenzione eterna (cfr Eb 9, 12). «Questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Gesù Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se fossimo stati presenti. Ogni fedele può così prendervi parte e attingerne i frutti inesauribilmente. Questa è la fede, di cui le generazioni cristiane hanno vissuto lungo i secoli»[81].

San Josemaría seppe accogliere questo legato di fede e viverlo a fondo con tutte le sue implicazioni. Seguendo il consiglio e l’esempio dei Santi Padri, cercò sempre di imitare, durante la giornata, ciò che si realizza nella Messa e consigliava la stessa cosa agli altri: «Identìficati con Gesù Ostia che si offre sull’altare!»[82]. Si esercitò sempre in ciò che insegnava: la Santa Messa, centro e radice della vita spirituale del cristiano , costituì il fondamento di ogni sua giornata. E lo seppe meditare e trasmettere alla luce della sua profonda contemplazione del Mistero eucaristico.

La Messa «è azione divina, trinitaria, non umana. Il sacerdote che celebra, collabora al progetto del Signore, prestando il suo corpo e la sua voce; ma non agisce in nome proprio, bensì in persona et in nomine Christi , nella persona di Cristo e nel nome di Cristo. L’amore della Trinità per gli uomini fa sì che dalla presenza di Cristo nell’Eucaristia derivino tutte le grazie per la Chiesa e per l’umanità. Questo è il sacrificio predetto da Malachia [...]. È il Sacrificio di Cristo, offerto al Padre con la cooperazione dello Spirito Santo: oblazione di valore infinito, che rende eterna in noi la Redenzione che i sacrifici dell’Antica Legge non hanno potuto realizzare. La Santa Messa ci pone così di fronte ai misteri principali della fede, in quanto è il dono che la Trinità fa di se stessa alla Chiesa. Si comprende allora come la Messa sia il centro e la radice della vita spirituale del cristiano e come sia anche il fine di tutti i Sacramenti. La vita della grazia, generata in noi dal Battesimo, fortificata e accresciuta dalla Confermazione, si avvia nella Messa verso la sua pienezza»[83].

Ricambiare i doni ricevuti

La celebrazione dell’Eucaristia, insisto, deve diventare centro e radice della vita spirituale di un figlio di Dio, perché in questo sacramento raggiunge l’apice il sacrificio della vita del Figlio di Dio: non solo lo mette davanti ai nostri occhi e ci permette di imitarlo nella nostra risposta quotidiana, ma ci concede anche la grazia della Redenzione e la possibilità di donarci come Lui per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

Ricevere un così ineffabile dono richiede lo sforzo della nostra risposta e la consapevolezza di doverci dare seriamente da fare per unirci, assieme a tutto ciò che è nostro, all’oblazione di Gesù a Dio Padre. «Nel Santo Sacrificio dell’altare, il sacerdote prende il Corpo del nostro Dio e il Calice con il suo Sangue, e li innalza sopra tutte le cose della terra, dicendo: “Per Ipsum, et cum Ipso, et in Ipso : per il mio Amore, con il mio Amore, nel mio Amore!». Unisciti a questo gesto. Più ancora: incorpora questa realtà nella tua vita»[84].

Voglio ribadire che nostro Padre non si limitò a insegnare che la Santa Messa è centro e radice della vita interiore, ma fece vedere anche come è possibile corrispondere personalmente alla donazione della Trinità nel Santo Sacrificio, affinché la battaglia spirituale di ognuno ruotasse veramente attorno alla Messa, di questo Sacrificio si nutrisse e in questo Olocausto si radicasse.

Fra gli altri consigli, diceva che gli era molto utile dividere la giornata in due metà: una per preparare la Messa e l’altra per renderne grazie; utilizzava il tempo del riposo notturno per intensificare il dialogo contemplativo, sottolineandone la dimensione eucaristica; soprattutto cercava di assaporare e trarre spunto da ogni gesto e da ogni parola dei diversi momenti della celebrazione eucaristica. Univa questo esercizio, con sfumature sempre nuove, a espressioni di fede, di speranza e di carità, a situazioni e intenzioni ben precise. Quanto ci aiuta la sua omelia “L’Eucaristia, mistero di fede e d’amore”![85].

Tutto ciò che, con la grazia di Cristo - linfa divina - ci arriva dalla radice eucaristica, esige anche, ve lo ripeto, un impegno da parte nostra. San Josemaría ci esorta a questa stupenda lotta quotidiana: «Lotta per far sì che il Santo Sacrificio dell’Altare sia il centro e la radice della tua vita interiore, in modo che tutta la giornata si trasformi in un atto di culto, prolungamento della Messa che hai ascoltato e preparazione alla successiva, che trabocca in giaculatorie, in visite al Santissimo, nell’offerta del tuo lavoro professionale e della tua vita famigliare...»[86].

Comunione con Cristo e unità della Chiesa

Nel Sacrificio dell’Altare si uniscono l’aspetto conviviale e quello sacrificale: Cristo, mediante il sacerdote, si offre come Vittima a Dio Padre e lo stesso Padre lo dona a noi come cibo. Cristo sacramentato è il «Pane dei figli»[87]. La comunione del corpo e sangue del Signore ci colma di una grazia specifica, che produce nell’anima effetti analoghi a quelli che il cibo causa nel corpo, «come sono il nutrire, il crescere, il curare e il dilettare»[88]. Ma, a differenza del cibo materiale, dove il corpo assimila ciò che mangia, qui succede il contrario: siamo noi a essere assimilati da Cristo al suo Corpo, ci trasformiamo in Lui. «La nostra partecipazione nel Corpo e nel Sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo»[89].

L’Eucaristia si eleva nella Chiesa come il sacramento dell’unità perché, nel mangiare tutti uno stesso Pane, diventiamo un solo Corpo. La Santa Messa e la Comunione edificano la Chiesa, costruiscono la sua unità e la sua stabilità, le danno coesione. «Coloro che ricevono l’Eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa. La Comunione rinnova, fortifica, approfondisce questa incorporazione alla Chiesa già realizzata mediante il Battesimo. Nel Battesimo siamo stati chiamati a formare un solo corpo (cfr 1 Cor 12, 13). L’Eucaristia realizza questa chiamata»[90].

Figlie e figli miei, come è importante che ci uniamo al Capo visibile, nel celebrare il Santo Sacrificio o nel parteciparvi! Tutti ben uniti al Capo della Chiesa universale, al Papa; ai Vescovi, che sono a capo di ogni Chiesa particolare, e soprattutto a questo vostro Padre che il Signore ha voluto collocare come Capo visibile e principio di unità in questa «piccola parte della Chiesa» che è l’Opera.

Præsta meæ menti de te vivere, et te illi semper dulce sapere

Vivere di Cristo

«La carne del Signore è vivificante in quanto è la carne propria dello stesso Verbo»[91]. San Luca scrive: «Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6, 19). Anche il Pane eucaristico è non solo pane vivo, ma anche vivificante, che dà la vita divina in Cristo. Nel riceverlo, ognuno può dire con San Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Præsta meæ menti de te vivere... Questa strofa ci invita a far sì che tutto in noi si alimenti dello stare sempre in Cristo, adottando una condotta assolutamente fedele al suo amore, gustando con perseveranza le sue delizie: la nostra felicità e il nostro “gusto” siano in Cristo, mentre andiamo da Lui «come il ferro attirato dalla forza della calamita»[92].

Questo desiderio sincero, questa petizione, costituisce un aiuto potente per anelare e curare l’unità di vita; insomma, a non avere nell’anima nient’altro che il Signore (cfr Mt 6, 24), a cercare una sola cosa (cfr Lc 10, 42), a sottomettersi del tutto a un solo Amore, Lui stesso, a volere soltanto ciò che vuole Dio e ad accogliere tutto il resto perché Dio lo vuole e nel modo e nella misura che Egli dispone; a essere a tal punto identificato con Cristo, che compiere la sua Volontà diventa nella creatura una caratteristica essenziale della sua personalità. Ciò significa possedere «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» ( Fil 2, 5); per ottenerlo, bisogna chiederlo a Lui, come San Josemaría: «Che io guardi con i tuoi occhi, Cristo mio, Gesù dell’anima mia»[93].

Noi cristiani non dobbiamo dimenticare che, con il Signore, omnia sancta , tutto è santo; senza di Lui, mundana omnia , tutto è mondano. Non lasciamoci ingannare dalla mancanza di amore che si nasconde dietro un’apparente naturalezza, per non affrontare con decisione e per amore le conseguenze della fedeltà a Cristo. Il nostro rapporto con Dio si può costruire solo sull’unico modello, Cristo; dobbiamo vedere chiaramente che la relazione di Gesù con suo Padre risplende di una completa unità: «Io e il Padre siamo una cosa sola» ( Gv 10, 30).

Unità di vita

La Santa Messa, per se stessa e ancor più quando si lotta perché sia il centro della propria vita interiore, ha un potere veramente unificante dell’esistenza umana. Gesù sacramentato, nella rinnovazione incruenta del suo sacrificio sul Calvario, assume completamente le attività e le intenzioni della persona che si unisce alla sua oblazione e le ricapitola nell’adorazione che Egli presenta al Padre, nel ringraziamento che gli indirizza, nell’espiazione che gli offre e nella petizione che gli rivolge.

Così come Cristo, nel suo percorso terreno, ricapitolò la storia umana fin da Adamo e nel suo sacrificio ricapitolò la propria vita, così anche nel Sacrificio della Messa si unifica tutto ciò che Dio concede all’umanità e si sintetizza tutto ciò che l’umanità può elevare al Padre in Cristo, sotto l’impulso del Paraclito. In sintesi, «la Sacra Eucaristia [...] riassume e realizza le misericordie di Dio verso gli uomini»[94].

Il Santo Sacrificio compendia ciò che deve essere la nostra condotta: adorazione amorevole, ringraziamento, espiazione, petizione; vale a dire, dedizione a Dio e, attraverso di Lui, agli altri. Nella Messa deve confluire tutto ciò che ci pesa e ci opprime, tutto ciò che ci riempie di gioia e ci entusiasma, ogni cosa dell’attività quotidiana; dobbiamo andarvi con le nostre preoccupazioni, con quelle degli altri e del mondo intero.

Durante le scorse festività natalizie, dicevo a un gruppo di vostri fratelli di non andare davanti al Presepe solo con le loro intenzioni e necessità, ma di portare al Bambino le sofferenze e le necessità di tutte le persone dell’Opera, della Chiesa, del mondo intero. La stessa cosa ora consiglio a tutti voi: andate a Messa presentando al Signore le necessità materiali e spirituali di tutti, così come Cristo salì sul Legno carico dei peccati degli uomini di tutti i tempi. Sforziamoci di salire con Lui e come Lui sulla Croce, dove poté intercedere presso suo Padre - e ora intercede dagli altari e dai tabernacoli della terra - per ottenere, con sovrabbondanza divina, le grazie di cui ogni creatura ha bisogno, nessuna esclusa.

Ricorderete che nel 1966 San Josemaría visse una forte esperienza, che raccontò così: «Dopo tanti anni, quel sacerdote fece una meravigliosa scoperta: comprese che la Santa Messa è un vero lavoro: operatio Dei , lavoro di Dio. E quel giorno, nel celebrarla, provò dolore, gioia e stanchezza. Sentì nella sua carne la spossatezza di un lavoro divino. Anche a Cristo richiese sforzo la prima Messa: la Croce»[95].

Interpretò questo episodio come se Dio avesse voluto premiare il suo sforzo di anni per incentrare la sua esistenza intera nel Santo Sacrificio; e nello stesso tempo confermargli la validità soprannaturale del cammino per raggiungere l’unità di vita, così caratteristica dello spirito dell’Opera. Lottiamo, giorno dopo giorno, affinché, qualsiasi cosa facciamo, la nostra mente sia rivolta a Cristo, per aderire ai suoi disegni e anche per addentrarci nel suo dolce sapere.

Pie pellicane, Iesu Domine, me immundum munda tuo sanguine

Purificarsi sempre più

L’antica credenza secondo cui il pellicano alimenta i suoi piccoli con il proprio sangue, facendolo sgorgare dal suo petto ferito col becco, è stata tradizionalmente un simbolo eucaristico, che cercava di esemplificare in qualche modo l’inseparabilità dell’aspetto sacrificale da quello conviviale dell’Eucaristia. In effetti, nella Santa Messa «si effettua l’opera della nostra redenzione»[96] : ci viene dato da mangiare il Corpo di Cristo e ci viene dato da bere il suo Sangue.

È evidente che in questo Sacramento il sangue di Cristo redime e, nello stesso tempo, alimenta e rallegra. È sangue che lava tutti i peccati (cfr Mt 26, 28) e fa tornare candida l’anima (cfr Ap 7, 14). Un sangue che genera donne e uomini dal corpo casto e dal cuore puro (cfr Zc 9, 17). Un sangue che inebria, che ubriaca con lo Spirito Santo e che scioglie le lingue per cantare e narrare i « magnalia Dei » ( At 2, 11), le meraviglie di Dio.

Essendo lo stesso Sacrificio del Calvario, l’Eucaristia ha in sé la virtù di lavare ogni peccato e di concedere ogni grazia: dalla Messa, come dal Calvario, nascono gli altri sacramenti, che poi ci indirizzano all’Olocausto di Gesù Cristo come al loro fine. Però il sacramento ordinario - ripetetelo nell’apostolato -, voluto da Dio per la remissione dei peccati mortali, non è la Messa, ma la Penitenza; la Riconciliazione con Dio e con la Chiesa mediante l’assoluzione che segue alla confessione completamente sincera e contrita, davanti al sacerdote, di tutti i peccati mortali ancora non direttamente perdonati in questo sacramento[97].

Comunicarsi degnamente

L’Eucaristia, proprio perché è una manifestazione e una comunicazione di amore, esige, in coloro che vogliono ricevere il corpo e il sangue del Signore, una chiara disposizione di unione a Gesù mediante la grazia. «Hai pensato qualche volta a come ti prepareresti per ricevere il Signore, se si potesse fare la Comunione una sola volta nella vita? Siamo riconoscenti a Dio per la facilità che abbiamo di avvicinarci a Lui, ma... dobbiamo esprimere gratitudine preparandoci molto bene, per riceverlo»[98].

La qualità e la delicatezza della preparazione dipendono, come vi ricordavo prima, dalla finezza e dalla profondità interiore della persona, e in particolare dalla sua fede e dal suo amore a Gesù sacramentato. «Dobbiamo ricevere il Signore, nell’Eucaristia, come si ricevono i grandi della terra, anzi, meglio!: con ornamenti, luci, vestiti nuovi... E se mi domandi che pulizia, che ornamenti e che luci devi avere, ti risponderò: pulizia nei tuoi sensi, uno per uno; ornamenti nelle tue facoltà, una per una; luce in tutta la tua anima»[99].

Naturalmente, per ricevere il Signore sacramentalmente non occorre aspettare di essere perfetti - aspetteremmo per sempre -, né dobbiamo smettere di assistere alla Messa perché manchiamo di sentimento o perché a volte inseguiamo le distrazioni. «Comùnicati. Non è mancanza di rispetto. Comùnicati proprio oggi, appena uscito da quel laccio. Dimentichi che Gesù ha detto: il medico non è necessario ai sani, ma ai malati?»[100].

A maggior ragione non devi omettere di ricevere la Santa Comunione se la frequenza nel ricevere questo Sacramento non sembra produrre in noi l’effetto che ci si potrebbe attendere dalla generosità divina. «Quanti anni di comunione quotidiana! Un altro sarebbe diventato santo - mi hai detto -, io invece sempre lo stesso! Figliolo - ti ho risposto -, prosegui nella Comunione quotidiana e pensa: che cosa sarei, se non mi fossi comunicato?»[101].

Un cristiano deve invece ragionare pensando che questa frequenza, ormai antica nella Chiesa, è segno di un amore autentico, che le miserie personali non possono spegnere. «Anima d’apostolo: quell’intimità di Gesù con te - tu così vicino a Lui, tanti anni! - non ti dice niente?»[102].

Quando ci si propongono tali fallaci argomenti, o altri simili, è più che mai il momento di avere, con gratitudine e fiducia in Gesù, l’atteggiamento del centurione, le cui parole ripetiamo nella Santa Messa: « Domine, non sum dignus! ». Non possiamo dimenticare che, in confronto con la maestà e la perfezione di Cristo, Dio e Uomo, noi siamo dei mendicanti che non possiedono nulla, macchiati dalla lebbra della superbia, incapaci di scorgere la mano di Dio negli avvenimenti e spesso paralizzati davanti alla sua Volontà. Ma tutto questo non giustifica la tendenza a battere in ritirata; ci deve indurre, invece, a ripetere molte volte, seguendo l’esempio di nostro Padre: «Vorrei, Signore, riceverti con la purezza, l’umiltà e la devozione...».

Cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere

Far conoscere l’efficacia dell’Eucaristia

Con queste parole ci viene ricordata ancora una volta la caratteristica così specifica dell’Eucaristia: la “sovrabbondanza”, la “profusione” di amore divino che ci è stata concessa e che ci viene continuamente offerta. La strofa dell’inno eucaristico si riferisce alla dimensione espiatoria del Sacramento: sarebbe bastata una goccia del sangue dell’Uomo-Dio per cancellare tutti i peccati dell’umanità; ma Egli volle spargerlo tutto. «Uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» ( Gv 19, 34). Il sangue, tra i popoli antichi e in certo qual modo anche oggi, è segno di vita. Cristo decise di non risparmiare nulla del suo sangue, anche come manifestazione della sua precisa volontà di comunicarci tutta la sua Vita.

Contemplare la donazione totale di Gesù a noi, considerare ancora una volta che «non è possibile scindere in Cristo la sua condizione di Dio-Uomo e la sua missione di Redentore»[103] , ci fa capire che non possiamo limitarci a comportarci personalmente come anime di Eucaristia: dobbiamo spingere anche gli altri a prendere la stessa decisione.

Non basta che ognuno e ognuna di noi cerchi e trovi il Signore nell’Eucaristia; dobbiamo riuscire a “contagiare”, con la nostra azione apostolica, quante più persone possibile, affinché anche loro contemplino e trovino questa ineguagliabile amicizia. «Amate moltissimo Gesù sacramentato e fate in modo che molte anime lo amino: solo se nutrite questa preoccupazione nelle vostre anime, saprete trasferirla agli altri, perché darete ciò che vivete, ciò che avete, ciò che siete»[104].

Davanti alla triste ignoranza che c’è anche tra molti cattolici, pensiamo, figlie e figli miei, all’importanza di spiegare alle persone che cos’è la Santa Messa e quanto vale, con quali disposizioni si può e si deve ricevere il Signore nella comunione, quale necessità proviamo di andare a fargli visita nei tabernacoli, come si manifestano il valore e il significato della correttezza della vita di pietà.[105]

Ci si apre un campo inesauribile e fecondissimo per l’apostolato personale, che porterà come frutto, con la benedizione del Signore, moltissime vocazioni. Ce lo ripeteva il nostro amatissimo Padre sin dal principio, anche col suo comportamento quotidiano. «Per compiere la Volontà di Cristo nostro Re [con queste parole si riferiva alla diffusione dell’Opera nel mondo], è necessario che abbiate molta vita interiore: che siate anime di Eucaristia, ostensori!, anime di orazione. Solo così, infatti, vi muoverete con lo slancio che lo spirito dell’Opera esige»[106].

Amare la mortificazione e la penitenza

Per trasformarci davvero in anime di Eucaristia e anime di orazione, non si può prescindere da una abituale unione con la Croce, anche mediante la mortificazione cercata o accettata. Don Álvaro ci ha lasciato scritto che una volta san Josemaría domandò ad alcuni suoi figli: «Che cosa faremo nell’Opus Dei per essere apostoli, come il Signore vuole?». E subito dopo, con energia e con fermissima convinzione, diede la risposta: «Portare Cristo crocifisso in noi [...]! Il Signore ascolta le richieste delle anime mortificate e penitenti»[107]. Don Álvaro ne traeva una conclusione che applicava a se stesso e a tutti: «Dunque, per essere fedeli al grande impegno di corredimere, dobbiamo identificarci personalmente con Nostro Signore Gesù Cristo mediante la crocifissione delle nostre passioni e delle nostre concupiscenze nell’anima e nel corpo (cfr Gal 5, 24). Ecco il divino “paradosso” che riguarda ciascuno di noi: “Per Vivere bisogna morire” ( Cammino , n. 187)»[108].

Proprio nel sacramento del Sacrificio del Figlio di Dio otteniamo la grazia e la forza per identificarci con Cristo sulla Croce. Non dubitiamo: l’origine e la radice della nostra vita di mortificazione si trovano nella devozione eucaristica. Saremo in condizioni di affermare che siamo vere anime di Eucaristia solo se siamo davvero, cum gaudio et pace, inchiodati con Cristo sulla Croce, se sappiamo «assoggettarci e umiliarci per l’Amore», se «i nostri pensieri, i nostri affetti, i nostri sensi e le nostre potenze, le nostre parole e le nostre opere», tutto insomma, è “strettamente legato” con l’amore per Maria, alla Croce di suo Figlio»[109]. Un’anima di Eucaristia è necessariamente, sempre e nello stesso tempo, un’anima sacerdotale, soprattutto quando la creatura si consuma nel desiderio di riparare e di sacrificare. Allora custodisce un’anima «essenzialmente, totalmente!, eucaristica»[110].

Quando capiremo sul serio che la Messa è «la nostra Messa, Gesù», perché la celebra Gesù con ognuno di noi e perché ognuno fa di sé un’oblazione a Dio Padre che si unisce a quella di Cristo, allora essa durerà per tutte le ventiquattro ore della giornata. «Amate molto il Signore. Abbiate desideri di riparazione, di maggiore contrizione. È necessario chiedergli scusa, prima di tutto per noi stessi, come fa il sacerdote prima di salire all’altare. Noi, che abbiamo anima sacerdotale, trasformiamo la nostra giornata in una messa, molto uniti a Cristo sacerdote, per presentare al Padre un’oblazione santa, che sia di riparazione per le nostre colpe personali e per quelle di tutti gli uomini [...]. Trattatemi bene il Signore, nella Messa e durante tutta la giornata»[111].

Iesu, quem velatum nunc aspicio, oro, fiat illud quod tam sitio,ut te revelata cernens facie, visu sim beatus tuæ gloriæ

L’anelito di vedere il volto di Cristo

L’Adoro te devote si conclude con questa strofa, che potremmo riassumere così: Signore, voglio vederti! Una conclusione assai logica, perché l’Eucaristia, «pegno della gloria futura»[112] , ci concede un anticipo della vita definitiva. «L’Eucaristia è realmente uno squarcio di cielo che si apre sulla terra. È un raggio di gloria della Gerusalemme celeste, che penetra le nubi della nostra storia e getta luce sul nostro cammino»[113].

Questo tesoro essenziale della Chiesa anticipa l’eternità, perché ci trasforma in commensali della “Cena dell’Agnello”, dove i beati si saziano della visione di Dio e del suo Cristo (cfr Ap 19, 6-10). Noi abbiamo già ottenuto, per grazia di Dio, di entrare nella stessa realtà, ma non in modo pieno: solo imperfettamente (cfr 1 Cor 13, 10-12). Con il dono del Sacramento aumenta in noi e si consolida la vita nuova conferita con il Battesimo, che è chiamata alla perfezione nella gloria.

Ricevere Gesù nella Santa Comunione ci rende sereni davanti alla morte e davanti alle incertezze del giudizio, perché Egli ha assicurato: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» ( Gv 6, 54). «Colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere l’aldilà per ricevere la vita eterna: la possiede già sulla terra , come primizia della pienezza futura, che riguarderà l’uomo nella sua totalità. Nell’Eucaristia riceviamo infatti anche la garanzia della risurrezione corporea alla fine del mondo»[114]. La fede e la speranza eucaristiche allontanano da noi molti timori.

La Sacra Eucaristia è «l’azione più sacra e trascendente che noi uomini possiamo realizzare, per grazia di Dio, in questa vita: unirci in comunione con il Corpo e il Sangue del Signore viene a essere per noi, in un certo senso, come scioglierci dai legami di terra e di tempo per trovarci di già con Dio nel Cielo, là dove Cristo stesso asciugherà le lacrime dei nostri occhi e dove non ci sarà morte, né pianto, né gemiti di fatica, perché il mondo vecchio sarà ormai passato (cfr Ap 21, 4)»[115].

Questo Sacramento si colloca sul limite tra questa vita e l’altra, non solo quando viene amministrato ai moribondi sotto forma di viatico, ma più propriamente perché contiene Christus passus , ormai glorioso, sicché partecipa nell’ordine sacramentale della condizione di questa vita, mentre sostanzialmente appartiene già all’altra. Anche per questo, la pietà eucaristica ci farà diventare sempre più Opus Dei e ci spingerà a comportarci come contemplativi nel mondo, perché camminiamo amando sulla terra e nel Cielo: «Non “tra” il Cielo e la terra, perché siamo del mondo. Nel mondo e nel Paradiso nello stesso tempo! Questa è quasi una formula che esprime come dobbiamo condurre la nostra vita mentre ci troviamo “in questo secolo”»[116].

Pegno della vita eterna

Il piano salvifico di Dio ha inizio in questa tappa terrena, che è la “penultima”, e si consuma in quella che deve venire, che è eterna [117]. Così la fede contiene quasi un inizio della conoscenza faccia a faccia, un principio della visione gloriosa e beatifica. Nell’Eucaristia la tensione verso la gloria poggia soprattutto sull’amore che nasce dallo stare insieme. L’anima eucaristica anela di adorare apertamente Colui che già adora nascosto nel Pane, perché lo stare sempre insieme a un amore nascosto genera un desiderio irrefrenabile di possederlo apertamente. «Frequenta l’Umanità Santissima di Gesù... Ed Egli metterà nella tua anima una fame insaziabile, un desiderio “spropositato” di contemplare il suo Volto»[118].

Sempre questa è stata l’impazienza dei santi, la stessa che San Josemaría serbava nel suo cuore. «Coloro che si amano, fanno di tutto per vedersi. Gli innamorati hanno occhi solo per il loro amore. Non è logico che sia così? Il cuore umano sente questi imperativi. Mentirei se negassi che mi divora il desiderio di contemplare il volto di Gesù. “ Vultum tuum, Domine, requiram ” ( Sal 26, 8), cercherò, Signore, il tuo volto. Mi rende felice chiudere gli occhi e pensare che arriverà il momento, quando Dio vorrà, in cui potrò vederlo, non “come in uno specchio, in maniera confusa..., ma a faccia a faccia” ( 1 Cor 13, 12). Sì, figli miei, “l’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” ( Sal 41, 3)»[119].

La devozione eucaristica trasmetterà e aumenterà in noi questo anelito, sino a far sì che stare con Cristo sia per noi l’unica cosa importante, senza per questo allontanarci dal mondo; al contrario, lo ameremo più appassionatamente, con il nostro cuore strettamente unito al Cuore di Cristo. L’intimità, il dialogo con il Signore nell’Eucaristia, ci darà a poco a poco la convinzione vigorosa che la felicità non si trova nei beni della terra, destinati a invecchiare e scomparire, ma nello stare per sempre con Lui, perché Egli è la felicità, e già ora lo possediamo come “tesoro infinito, perla preziosissima” in questo Sacramento[120] . «Mentre distribuiva la Santa Comunione, quel sacerdote aveva voglia di gridare: ti sto dando la Felicità!»[121].

La Vergine Santissima, donna eucaristica

Con l’invocazione di «donna eucaristica», Giovanni Paolo II ha additato alla Chiesa l’esempio di Maria come “scuola” e “guida” per imparare a meravigliarci - che significa accogliere, adorare, essere grati... - davanti al mistero dell’Eucaristia[122] . Alla luce della fede lo capiamo molto bene, come successe a nostro Padre, il quale ci faceva considerare che nella Santa Messa, «interviene, in qualche modo, la Vergine Santissima, a motivo della sua intima unione con la Trinità Beatissima e perché è Madre di Cristo, della sua Carne e del suo Sangue: Madre di Gesù, perfetto Dio e perfetto Uomo. Gesù, infatti, concepito nel seno di Maria Santissima senza intervento di uomo, ma per sola virtù dello Spirito Santo, è del sangue di sua Madre: lo stesso sangue che è offerto in sacrificio di redenzione sul Calvario e nella Santa Messa»[123].

Maria, ai piedi della Croce, unì il proprio sacrificio interiore - «osservate se c’è un dolore simile al mio dolore» ( Lam 1, 12) - a quello di suo Figlio, cooperando alla Redenzione sul Calvario. Ella stessa, «presente, con la Chiesa e come Madre della Chiesa, in ciascuna delle nostre Celebrazioni eucaristiche»[124] , coopera con il Figlio a diffondere nel mondo, Mediatrice di ogni grazia, l’infinita forza santificante del Santo Sacrificio che solo Gesù compie.

Figlie e figli miei, se in qualche modo ci siamo confrontati con Dima, il buon ladrone, e con l’Apostolo Tommaso, come possiamo non volgerci a Maria per conoscere e amare di più Gesù sacramentato, per imparare da Lui e imitarlo, per «trattarlo bene»? In questo personalissimo lavoro, che in modo incessante ci rinnoverà interiormente e ci riempirà di desideri di santità e di apostolato, facciamoci aiutare dalla contemplazione dei misteri del Rosario, dall’Annunciazione, in cui la Vergine accoglie incondizionatamente nel suo seno purissimo il Verbo incarnato, fino alla sua glorificazione, quando Dio la riceve in corpo e anima nella gloria e la incorona come Regina, Madre e Signora nostra.

«A Gesù si va e si “ritorna” sempre per Maria»[125]. Chiediamo a nostra Madre di prenderci sempre per mano, soprattutto nell’ Anno dell’Eucaristia , affinché diciamo continuamente al Signore sacramentato, con le parole e con le opere: «Ti adoro, ti amo!», Adoro te devote! Nel farlo, ascoltiamo il nostro amatissimo Padre, che ci ripete: «Invocate Maria e Giuseppe, perché in un modo o nell’altro sono presenti nel Tabernacolo, come lo furono a Betlemme e a Nazaret [...]. Non dimenticatelo!»[126].

Con tanto affetto, vi benedice

vostro Padre

+Javier

Roma, 6 ottobre 2004, secondo anniversario della canonizzazione di San Josemaría.

[1] Concilio Vaticano II, Decr. Presbyterorum ordinis , n. 5.

[2] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 87. Cfr Concilio Vaticano II, Const. dogm. Lumen gentium , n. 11; Decr. Presbyterorum ordinis , n. 14.

[3] Concilio di Trento, ses. XIII, Decreto sulla Sacra Eucaristia , can. 1 (Denz. 1651).

[4] Cfr. Ibid ., can. 2 (Denz. 1652).

[5] San Josemaría, Cammino , n. 538.

[6] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 14-IV-1960.

[7] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 83.

[8] Cfr. Ibid ., n. 84.

[9] San Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di San Matteo , 82, 4 (PG 58, 743).

[10] Cfr. Cammino , nn. 269, 537, 554; Forga , nn. 831, 991; E’ Gesù che passa, n. 151.

[11] San Josemaría, Cammino , n. 267.

[12] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 84.

[13] Ibid. 14 San Josemaría, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.

[14] San Josemaría, Omelia Sacerdote per l’eternità , 13-IV-1973.

[15] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 64.

[16] San Josemaría, Appunti presi durante una tertulia, ottobre 1972.

[17] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 90.

[18] Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Teologica , II-II, q. 84, a. 2; San Giovanni Damasceno, Sulla fede ortodossa , 4, 12 (PG 94, 1133).

[19] San Josemaría, Appunti presi durante una tertulia, 4-IV-1970.

[20] San Josemaría, Cammino , nn. 539, 538. Cfr. Solco , nn. 685, 686; Forga , n. 887.

[21] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 161.

[22] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 14-IV-1960.

[23] «Lauda, Sion, Salvatorem, / lauda ducem et pastorem / in hymnis et canticis. / Quantum potes, tantum aude: / quia maior omni laude, / nec laudare sufficis» (Messale Romano, Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, Sequenza Lauda Sion).

[24] San Josemaría, Forgia , n. 838. Cfr. nn. 832, 837.

[25] San Josemaría, Forgia , n. 824.

[26] San Josemaría, Solco , n. 818.

[27] San Josemaría, Cammino , n. 533.

[28] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 151.

[29] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 156.

[30] San Josemaría, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.

[31] Messale Romano, Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, Sequenza Lauda Sion.

[32] San Josemaría, Lettera 28-III-1973 , n. 7.

[33] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 153.

[34] Concilio di Trento, ses. XIII: Decreto sulla Sacra Eucaristia , cap. 4 (Denz. 1642).

[35] Paolo VI, Credo del Popolo di Dio , 30-VI-1968. Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 15.

[36] Cfr., per esempio, Pio XII, Lett. enc. Mediator Dei , 20-XI-1947; Paolo VI, Lett. enc. Mysterium fidei , 3-IX-1965; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003; Catechismo della Chiesa Cattolica , nn. 1322-1419.

[37] Cfr. Concilio Vaticano II, Const. dogma. Dei Verbum , n. 10

[38] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 84.

[39] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 109.

[40] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 6.

[41] San Josemaría, Lettera 28-III-1973 , n. 10.

[42] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 80.

[43] Ibid , n. 6.

[44] Cfr. San Josemaría, Solco , n. 817.

[45] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 155.

[46] Concilio di Trento, ses. XXII, Dottrina sul Santissimo Sacrificio della Messa, cap. 2 (Denz. 1743).

[47] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 12.

[48] Concilio di Trento, ses. XIII, Decreto sulla Sacra Eucaristia , cap. 7 (Denz. 1647).

[49] San Josemaría, Cammino , n. 533.

[50] Ibid. 51 San Tommaso d'Aquino, Commento 4 sul Credo.

[51] Ibid.

[52] San Tommaso d'Aquino, Commento 4 sul Credo.

[53] San Josemaría, Lettera 24-III-1931 , n. 61.

[54] San Josemaría, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.

[55] San Josemaría, Cammino , n. 509.

[56] San Josemaría, Forgia , n. 887.

[57] San Josemaría, Forgia , n. 556.

[58]San Josemaría, Vía Crucis , XII stazione, n. 4.

[59] San Josemaría, Cammino , n. 876.

[60] San Josemaría, Amici di Dio, n. 232.

[61] Ibid.

[62] San Josemaría, Forgia , n. 827

[63] San Josemaría, Lettera 28-III-1973 , n. 7.

[64] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 14.

[65] San Josemaría, Vía Crucis, V stazione.

[66] San Josemaría, Appunti presi durante una tertulia, 25-VI-1972.

[67] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 9-IV-1937.

[68] San Josemaría, Amici di Dio, nn. 301-303.

[69] San Josemaría, Amici di Dio, n. 249.

[70] San Josemaría, Forgia , n. 835.

[71] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 154.

[72] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 129.

[73] San Josemaría, Omelia Sacerdote per l’eternità , 13-IV-1973.

[74] San Josemaría, Forgia , n. 542.

[75] San Josemaría, Cammino , n. 23.

[76] San Josemaría, Solco , n. 688.

[77] Pio XII, Lett. enc. Mediator Dei , 20-XI-1947, n. 20.

[78] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 12. Cfr. Concilio di Trento, ses. 22, Dottrina sul Santo Sacrificio della Messa , cap. 2 (Denz. 1743).

[79] Catechismo della Chiesa Cattolica , n. 1364.

[80] San Josemaría, Appunti presi durante una tertulia, 22-V-1970.

[81] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 11.

[82] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 14-IV-1960.

[83] San Josemaría, È Gesù che passa, nn. 86-87.

[84] San Josemaría, Forgia , n. 541.

[85] Cfr. È Gesù che passa, nn. 88-91.

[86] San Josemaría, Forgia , n. 69.

[87] Messale Romano, Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, Sequenza Lauda Sion.

[88] San Tommaso d’Aquino, Summa Teologica , III, q. 79, a. 1.

[89] San Leone Magno, Omelia 12 sulla Passione, 7 (PL 54, 357).

[90] Catechismo della Chiesa Cattolica , n. 1396.

[91] Concilio di Efeso, anno 431 (Denz. 262).

[92] San Josemaría, Amici di Dio, n. 296.

[93] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 19-III-1975.

[94] San Josemaría, Conversazioni con Mons. Escrivá de Balaguer , n. 123.

[95] San Josemaría, Vía Crucis , XI stazione n. 4.

[96] Concilio Vaticano II, Const. dogm. Lumen gentium , n. 3.

[97] Cfr. Giovanni Paolo II, Exhort. apost. Reconciliatio et pænitentia , 2-XII-1984, n. 31, I.

[98] San Josemaría, Forgia , n. 828.

[99] San Josemaría, Forgia , n. 834.

[100] San Josemaría, Cammino , n. 536.

[101] Ibid., n. 534.

[102] Ibid., n. 321.

[103] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 122.

[104] San Josemaría, Appunti presi durante una tertulia, 4-IV-1970.

[105] San Josemaría, Cammino , n. 541.

[106] San Josemaría, Instrucción, 1-IV-1934, n. 3.

[107] Raccolta per don Álvaro, Lettera 16-VI-1978.

[108] Ibid.

[109] Ibid.

[110] San Josemaría, Forgia , n. 826.

[111] San Josemaría, Appunti presi durante una tertulia, 6-X-1968.

[112] Concilio Vaticano II, Const. Sacrosanctum Concilium , n. 47.

[113] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia, 17-IV-2003, n. 19.

[114] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 18.

[115] San Josemaría, Conversazioni con Mons. Escrivá de Balaguer , n. 113.

[116] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 27-III-1975.

[117] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitæ , 25-III-95, n. 2.

[118] San Josemaría, Vía Crucis , VI stazione, n. 2.

[119] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, 25-XII-1973.

[120] San Josemaría, Cammino , n. 432.

[121] San Josemaría, Forgia , n. 267.

[122] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, nn. 53-58.

[123] San Josemaría, È Gesù che passa , n. 89.

[124] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia , 17-IV-2003, n. 57.

[125] San Josemaría, Cammino , n. 495.

[126] San Josemaría, Appunti presi durante una conversazione, 6-VI-1974.