"Giornata Mondiale della Gioventù Lisbona 2023", ebook gratuito

Pubblichiamo l'ebook gratuito con gli interventi e le omelie di papa Francesco durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona.

ePub ► Giornata Mondiale della Gioventù Lisbona 2023

PDF ► Giornata Mondiale della Gioventù Lisbona 2023


Programma

Mercoledì 2 agosto

Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico nel Centro Culturale di Belém

Giovedì 3 agosto

Incontro con i giovani universitari presso la “Universidade Católica Portuguesa”

Incontro con i giovani di Scholas Occurrentes

Cerimonia di accoglienza

Venerdì 4 agosto

Incontro con i rappresentanti di alcuni centri di assistenza e di carità nel “Centro Paroquial de Serafina”

Via Crucis con i giovani nel “Parque Eduardo VII”

Sabato 5 agosto

Preghiera del Santo Rosario con i giovani ammalati presso la Cappella delle Apparizioni del Santuario di Nostra Signora di Fatima

Veglia con i giovani nel “Parque Tejo”

Domenica 6 agosto

Santa Messa per la Giornata Mondiale della Gioventù nel “Parque Tejo”

Angelus

Incontro con i volontari della GMG presso il “Passeio marítimo” di Algés


Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico nel Centro Culturale di Belém

Vi saluto cordialmente e ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le cortesi parole che mi ha rivolto – è molto accogliente il Presidente, grazie! Sono felice di essere a Lisbona, città dell’incontro che abbraccia vari popoli e culture e che diventa in questi giorni ancora più universale; diventa, in un certo senso, la capitale del mondo, la capitale del futuro, perché i giovani sono futuro. Ciò ben si adatta al suo carattere multietnico e multiculturale – penso al quartiere Mouraria, dove vivono in armonia persone provenienti da più di sessanta Paesi – e rivela il tratto cosmopolita del Portogallo, che affonda le radici nel desiderio di aprirsi al mondo e di esplorarlo, navigando verso orizzonti nuovi e più vasti.

Non lontano da qui, a Cabo da Roca, è scolpita la frase di un grande poeta di questa città: «Aqui… onde a terra se acaba e o mar começa» (L. Vaz de Camões, Os Lusíadas, VIII). Per secoli si credeva che lì vi fosse il confine del mondo, e in un certo senso è vero: ci troviamo ai confini del mondo perché questo Paese confina con l’oceano, che delimita i continenti. Lisbona ne porta l’abbraccio e il profumo. Mi piace associarmi a quanto amano cantare i portoghesi: «Lisboa tem cheiro de flores e de mar» (A. Rodrigues, Cheira bem, cheira a Lisboa, 1972). Un mare che è molto più di un elemento paesaggistico, è una chiamata impressa nell’animo di ogni portoghese: «mar sonoro, mar sem fundo, mar sem fin» l’ha chiamato una poetessa locale (S. de Mello Breyner Andresen, Mar sonoro). Davanti all’oceano, i portoghesi riflettono sugli immensi spazi dell’anima e sul senso della vita nel mondo. E anch’io, lasciandomi trasportare dall’immagine dell’oceano, vorrei condividere alcuni pensieri.

Secondo la mitologia classica, Oceano è figlio del cielo (Urano): la sua vastità porta i mortali a guardare in alto e a elevarsi verso l’infinito. Ma, al contempo, Oceano è figlio della terra (Gea) che abbraccia, invitando così ad avvolgere di tenerezza l’intero mondo abitato. L’oceano, infatti, non collega solo popoli e Paesi, ma terre e continenti; perciò Lisbona, città dell’oceano, richiama all’importanza dell’insieme, a pensare i confini come zone di contatto, non come frontiere che separano. Sappiamo che oggi le grandi questioni sono globali, eppure spesso sperimentiamo l’inefficacia nel rispondervi proprio perché davanti a problemi comuni il mondo è diviso, o per lo meno non abbastanza coeso, incapace di affrontare unito ciò che mette in crisi tutti. Sembra che le ingiustizie planetarie, le guerre, le crisi climatiche e migratorie corrano più veloci della capacità, e spesso della volontà, di fronteggiare insieme tali sfide.

Lisbona può suggerire un cambio di passo. Qui nel 2007 è stato firmato l’omonimo Trattato di riforma dell’Unione Europea. Esso afferma che «l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, art. 1,4/2.1); ma va oltre, asserendo che «nelle relazioni con il resto del mondo […] contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani» (art. 1,4/2.5). Non sono solo parole, ma pietre miliari per il cammino della comunità europea, scolpite nella memoria di questa città. Ecco lo spirito dell’insieme, animato dal sogno europeo di un multilateralismo più ampio del solo contesto occidentale.

Secondo un’etimologia discussa, il nome Europa deriverebbe proprio da una parola che indica la direzione di occidente. È certo invece che Lisbona è la capitale più a ovest dell’Europa continentale. Essa richiama dunque la necessità di aprire vie di incontro più vaste, come il Portogallo già fa, soprattutto con Paesi di altri continenti accomunati dalla stessa lingua. Auspico che la Giornata Mondiale della Gioventù sia, per il “vecchio continente” - possiamo dire l’“anziano” continente -, un impulso di apertura universale, cioè un impulso di apertura che lo renda più giovane. Perché di Europa, di vera Europa, il mondo ha bisogno: ha bisogno del suo ruolo di pontiere e di paciere nella sua parte orientale, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Così l’Europa potrà apportare, all’interno dello scenario internazionale, la sua specifica originalità, delineatasi nel secolo scorso quando, dal crogiuolo dei conflitti mondiali, fece scoccare la scintilla della riconciliazione, inverando il sogno di costruire il domani con il nemico di ieri, di avviare percorsi di dialogo, percorsi di inclusione, sviluppando una diplomazia di pace che spenga i conflitti e allenti le tensioni, capace di cogliere i segnali di distensione più flebili e di leggere tra le righe più storte.

Nell’oceano della storia, stiamo navigando in un frangente tempestoso e si avverte la mancanza di rotte coraggiose di pace. Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? La tua tecnologia, che ha segnato il progresso e globalizzato il mondo, da sola non basta; tanto meno bastano le armi più sofisticate, che non rappresentano investimenti per il futuro, ma impoverimenti del vero capitale umano, quello dell’educazione, della sanità, dello stato sociale. Preoccupa quando si legge che in tanti luoghi si investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. E questo è vero. Mi diceva l’economo, alcuni giorni fa, che il migliore reddito di investimenti è nella fabbricazione di armi. Si investe più sulle armi che sul futuro dei figli. Io sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra e accendere luci di speranza; un’Europa che sappia ritrovare il suo animo giovane, sognando la grandezza dell’insieme e andando oltre i bisogni dell’immediato; un’Europa che includa popoli e persone con la loro propria cultura, senza rincorrere teorie e colonizzazioni ideologiche. E questo ci aiuterà a pensare ai sogni dei padri fondatori dell’Unione europea: questi sognavano alla grande!

L’oceano, immensa distesa d’acqua, richiama le origini della vita. Nel mondo evoluto di oggi è divenuto paradossalmente prioritario difendere la vita umana, messa a rischio da derive utilitariste, che la usano e la scartano: la cultura dello scarto della vita. Penso a tanti bambini non nati e anziani abbandonati a sé stessi, alla fatica di accogliere, proteggere, promuovere e integrare chi viene da lontano e bussa alle porte, alla solitudine di molte famiglie in difficoltà nel mettere al mondo e crescere dei figli. Verrebbe anche qui da dire: verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote? Verso dove navigate? Dove andate se, di fronte al male di vivere, offrite rimedi sbrigativi e sbagliati, come il facile accesso alla morte, soluzione di comodo che appare dolce, ma in realtà è più amara delle acque del mare? E penso a tante leggi sofisticate sull’eutanasia.

Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita. E se da molte parti oggi si respira un clima di protesta e insoddisfazione, terreno fertile per populismi e complottismi, la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme. Rinverdisce il desiderio di creare novità, di prendere il largo e navigare insieme verso il futuro. Vengono in mente alcune parole ardite di Pessoa: «Navigare è necessario, vivere non è necessario […]; quello che serve è creare» (Navegar é preciso). Diamoci dunque da fare con creatività per costruire insieme! Immagino tre cantieri di speranza in cui possiamo lavorare tutti uniti: l’ambiente, il futuro, la fraternità.

L’ambiente. Il Portogallo condivide con l’Europa tanti sforzi esemplari per la protezione del creato. Ma il problema globale rimane estremamente serio: gli oceani si surriscaldano e i loro fondali portano a galla la bruttezza con cui abbiamo inquinato la casa comune. Stiamo trasformando le grandi riserve di vita in discariche di plastica. L’oceano ci ricorda che la vita dell’uomo è chiamata ad armonizzarsi con un ambiente più grande di noi, che va custodito, va custodito con premura, pensando alle giovani generazioni. Come possiamo dire di credere nei giovani, se non diamo loro uno spazio sano per costruire il futuro?

Il futuro è il secondo cantiere. E il futuro sono i giovani. Ma tanti fattori li scoraggiano, come la mancanza di lavoro, i ritmi frenetici in cui sono immersi, l’aumento del costo della vita, la fatica a trovare un’abitazione e, ancora più preoccupante, la paura di formare famiglie e mettere al mondo dei figli. In Europa e, più in generale, in Occidente, si assiste a una fase discendente della curva demografica: il progresso sembra una questione riguardante gli sviluppi della tecnica e gli agi dei singoli, mentre il futuro chiede di contrastare la denatalità e il tramonto della voglia di vivere. La buona politica può fare molto in questo, può essere generatrice di speranza. Essa, infatti, non è chiamata a detenere il potere, ma a dare alla gente il potere di sperare. È chiamata, oggi più che mai, a correggere gli squilibri economici di un mercato che produce ricchezze, ma non le distribuisce, impoverendo di risorse e certezze gli animi. È chiamata a riscoprirsi generatrice di vita e di cura, a investire con lungimiranza sull’avvenire, sulle famiglie e sui figli, a promuovere alleanze intergenerazionali, dove non si cancelli con un colpo di spugna il passato, ma si favoriscano i legami tra giovani e anziani. Questo dobbiamo riprenderlo: il dialogo tra giovani e anziani. A questo richiama il sentimento della saudade portoghese, la quale esprime una nostalgia, un desiderio di bene assente, che rinasce solo a contatto con le proprie radici. I giovani devono trovare le proprie radici negli anziani. In tal senso è importante l’educazione, che non può solo impartire nozioni tecniche per progredire economicamente, ma è destinata a immettere in una storia, a consegnare una tradizione, a valorizzare il bisogno religioso dell’uomo e a favorire l’amicizia sociale.

L’ultimo cantiere di speranza è quello della fraternità, che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo. In tante parti del Portogallo il senso del vicinato e la solidarietà sono molto vivi. Però, nel contesto generale di una globalizzazione che ci avvicina, ma non ci dà la prossimità fraterna, tutti siamo chiamati a coltivare il senso della comunità, a partire dalla ricerca di chi ci abita accanto. Perché, come notò Saramago, «ciò che dà il vero senso all’incontro è la ricerca, e bisogna fare molta strada per raggiungere ciò che è vicino» (Todos os nomes, 1997). Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi. Ho saputo di tanti giovani che qui coltivano il desiderio di farsi prossimi; penso all’iniziativa Missão País, che porta migliaia di ragazzi a vivere nello spirito del Vangelo esperienze di solidarietà missionaria nelle zone periferiche, specialmente nei villaggi all’interno del Paese, andando a trovare molti anziani soli, e questo è un’ “unzione” per la gioventù. Vorrei ringraziare e incoraggiare, accanto ai tanti che nella società portoghese si occupano degli altri, la Chiesa locale, che fa tanto bene, lontana dalla luce dei riflettori.

Fratelli e sorelle, sentiamoci tutti insieme chiamati, fraternamente, a dare speranza al mondo in cui viviamo e a questo magnifico Paese. Deus abençoe Portugal!

Incontro con i giovani universitari presso la “Universidade Católica Portuguesa”

Grazie, Signora Rettrice, per le sue parole. Obrigado! Ha detto che tutti ci sentiamo «pellegrini». È una parola bella, il cui significato merita di essere meditato; letteralmente vuol dire lasciare da parte la routine abituale e mettersi in cammino con un’intenzione, muovendosi «attraverso i campi» o «oltre i propri confini», cioè fuori dalla propria zona di comfort verso un orizzonte di senso. Nel termine “pellegrino” vediamo rispecchiata la condizione umana, perché ognuno è chiamato a confrontarsi con grandi domande che non hanno risposta, una risposta semplicistica o immediata, ma invitano a compiere un viaggio, a superare sé stessi, ad andare oltre. È un processo che un universitario comprende bene, perché così nasce la scienza. E così cresce pure la ricerca spirituale. Essere pellegrino è camminare verso una meta o cercando una meta. C’è sempre il pericolo di camminare in un labirinto, dove non c’è meta. E nemmeno uscita. Diffidiamo delle formule prefabbricate – sono labirintiche –, diffidiamo delle risposte che sembrano a portata di mano, di quelle risposte sfilate dalla manica come carte da gioco truccate; diffidiamo di quelle proposte che sembrano dare tutto senza chiedere nulla. Diffidiamo! Questa diffidenza è un’arma per poter andare avanti e non continuare a girare in tondo. Una delle parabole di Gesù dice che la perla di grande valore colui la cerca con intelligenza e con intraprendenza, e dà tutto, rischia tutto ciò che ha per averla (cfr Mt 13,45-46). Cercare e rischiare: ecco i due verbi del pellegrino. Cercare e rischiare.

Pessoa ha detto, in modo tormentato ma corretto, che «essere insoddisfatti è essere uomini» (Mensagem, O Quinto Império). Non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti. Essere insoddisfatti, in questo senso e nella giusta misura, è un buon antidoto contro la presunzione di autosufficienza e contro il narcisismo. L’incompletezza caratterizza la nostra condizione di cercatori e pellegrini; come dice Gesù, “siamo nel mondo, ma non siamo del mondo” (cfr Gv 17,16). Siamo in cammino verso… Siamo chiamati a qualcosa di più, a un decollo senza il quale non c’è volo. Non allarmiamoci allora se ci troviamo interiormente assetati, inquieti, incompiuti, desiderosi di senso e di futuro, com saudade do futuro! E qui, insieme alla saudade do futuro, non dimenticatevi di mantenere viva la memoria del futuro. Non siamo malati, siamo vivi! Preoccupiamoci piuttosto quando siamo disposti a sostituire la strada da fare col fare sosta in qualsiasi punto di ristoro, purché ci dia l’illusione della comodità; quando sostituiamo i volti con gli schermi, il reale con il virtuale; quando, al posto delle domande che lacerano, preferiamo le risposte facili che anestetizzano. E le possiamo trovare in qualsiasi manuale sui rapporti sociali, su come comportarsi bene. Le risposte facili anestetizzano.

Amici, permettetemi di dirvi: cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo. Siate dunque protagonisti di una “nuova coreografia” che metta al centro la persona umana, siate coreografi della danza della vita. Le parole della Signora Rettrice sono state per me ispiratrici, in particolare quando ha detto che «l’università non esiste per preservarsi come istituzione, ma per rispondere con coraggio alle sfide del presente e del futuro». L’autopreservazione è una tentazione, è un riflesso condizionato della paura, che fa guardare all’esistenza in modo distorto. Se i semi preservassero sé stessi, sprecherebbero completamente la loro potenza generativa e ci condannerebbero alla fame; se gli inverni preservassero sé stessi, non ci sarebbe la meraviglia della primavera. Abbiate perciò il coraggio di sostituire le paure coi sogni. Sostituite le paure coi sogni: non siate amministratori di paure, ma imprenditori di sogni!

Sarebbe uno spreco pensare a un’università impegnata a formare le nuove generazioni solo per perpetuare l’attuale sistema elitario e diseguale del mondo, in cui l’istruzione superiore resta un privilegio per pochi. Se la conoscenza non viene accolta come responsabilità, diventa sterile. Se chi ha ricevuto un’istruzione superiore (che oggi, in Portogallo e nel mondo, rimane un privilegio) non si sforza di restituire ciò di cui ha beneficiato, non ha capito fino in fondo cosa gli è stato offerto. Mi piace pensare al Libro della Genesi; le prime domande che Dio pone all’uomo sono: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Ci farà bene chiederci: dove sono? Me ne sto chiuso nella mia bolla o corro il rischio di uscire dalle mie sicurezze per diventare un cristiano praticante, un artigiano della giustizia, un artigiano della bellezza? E ancora: Dov’è mio fratello? Esperienze di servizio fraterno come la Missão País e molte altre che nascono in ambito accademico dovrebbero essere considerate indispensabili per chi passa da un’università. Il titolo di studio non deve infatti essere visto solo come una licenza per costruire il benessere personale, ma come un mandato per dedicarsi a una società più giusta, una società più inclusiva, cioè più progredita. Mi è stato detto che una vostra grande poetessa, Sophia de Mello Breyner Andresen, in un’intervista che è una sorta di testamento, alla domanda: «Che cosa le piacerebbe vedere realizzato in Portogallo in questo nuovo secolo?», ha risposto senza esitare: «Vorrei vedere realizzata la giustizia sociale, la riduzione del divario tra ricchi e poveri» (Entrevista de Joaci Oliveira, in Cidade Nova, nº 3/2001). Giro a voi questa domanda. Voi, cari studenti, pellegrini del sapere, cosa volete vedere realizzato in Portogallo e nel mondo? Quali cambiamenti, quali trasformazioni? E in che modo l’università, soprattutto quella cattolica, può contribuirvi?

Beatriz, Mahoor, Mariana, Tomás, vi ringrazio per le vostre testimonianze. Avevano tutte un tono di speranza, una carica di entusiasmo realista, senza lamentele ma nemmeno senza fughe in avanti idealiste. Volete essere «protagonisti, protagonisti del cambiamento», come ha detto Mariana. Ascoltandovi, ho pensato a una frase che forse vi è familiare, dello scrittore José de Almada Negreiros: «Ho sognato un Paese in cui tutti arrivavano a essere maestri» (A Invenção do Dia Claro). Anche questo anziano che vi parla – ormai sono vecchio –, sogna che la vostra generazione divenga una generazione di maestri. Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza. E maestri che difendano la vita del pianeta, minacciata in questo momento da una grave distruzione ecologica.

Come alcuni di voi hanno sottolineato, dobbiamo riconoscere l’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune. Tuttavia, ciò non può essere fatto senza una conversione del cuore e un cambiamento della visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Non ci si può accontentare di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi. In questo caso «le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro» (Lett. enc. Laudato si’, 194). Non dimenticatelo: le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta invece di farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione. Perché, in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Studiate bene questo che vi dico: in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Voi siete la generazione che può vincere questa sfida: avete gli strumenti scientifici e tecnologici più avanzati ma, per favore, non cadete nella trappola di visioni parziali. Non dimenticate che abbiamo bisogno di un’ecologia integrale, abbiamo bisogno di ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri; abbiamo bisogno di mettere il dramma della desertificazione in parallelo con quello dei rifugiati; il tema delle migrazioni insieme a quello della denatalità; abbiamo bisogno di occuparci della dimensione materiale della vita all’interno di una dimensione spirituale. Non creare polarizzazioni, ma visioni d’insieme.

Grazie, Tomás, per aver detto che «non è possibile un’autentica ecologia integrale senza Dio, che non può esserci futuro in un mondo senza Dio». Vorrei dirvi: rendete la fede credibile attraverso le scelte. Perché se la fede non genera stili di vita convincenti non fa lievitare la pasta del mondo. Non basta che un cristiano sia convinto, deve essere convincente; le nostre azioni sono chiamate a riflettere la bellezza, gioiosa e insieme radicale, del Vangelo. Inoltre, il cristianesimo non può essere abitato come una fortezza circondata da mura, che alza bastioni nei confronti del mondo. Perciò ho trovato toccante la testimonianza di Beatriz, quando ha detto che proprio «a partire dal campo della cultura» si sente chiamata a vivere le Beatitudini. In ogni epoca uno dei compiti più importanti per i cristiani è recuperare il senso dell’incarnazione. Senza l’incarnazione, il cristianesimo diventa ideologia – e la tentazione delle ideologie cristiane, tra virgolette, è molto attuale. È l’incarnazione che permette di essere stupiti dalla bellezza che Cristo rivela attraverso ogni fratello e sorella, ogni uomo e donna.

A tale proposito, è interessante che nella vostra nuova cattedra dedicata all’«Economia di Francesco» abbiate aggiunto la figura di Chiara. Il contributo femminile è indispensabile. Nell’inconscio collettivo, quante volte si pensa che le donne sono di seconda categoria, sono riserve, non giocano come titolari. Questo esiste nell’inconscio collettivo. Il contributo femminile è indispensabile. Del resto, nella Bibbia si vede come l’economia della famiglia è in larga parte in mano alla donna. Lei, con la sua saggezza, è la vera “reggente” della casa, che non ha per fine esclusivamente il profitto, ma la cura, la convivenza, il benessere fisico e spirituale di tutti, e pure la condivisione con i poveri e i forestieri. È entusiasmante intraprendere gli studi economici con questa prospettiva: con l’obiettivo di restituire all’economia la dignità che le spetta, perché non sia preda del mercato selvaggio e della speculazione.

L’iniziativa del Patto Educativo Globale, e i sette principi che ne formano l’architettura, includono molti di questi temi, dalla cura della casa comune alla piena partecipazione delle donne, fino alla necessità di trovare nuove modalità d’intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso. Vi invito a studiare il Patto educativo globale e ad appassionarvene. Uno dei punti che tratta è l’educazione all’accoglienza e all’inclusione. Non possiamo fingere di non aver sentito le parole di Gesù nel capitolo 25 di Matteo: «ero straniero e mi avete accolto» (v. 35). Ho seguito con emozione la testimonianza di Mahoor, quando ha evocato cosa significa vivere con «il sentimento costante di assenza di un focolare, della famiglia, degli amici […], di essere rimasta senza casa, senza università, senza soldi […], stanca, esausta e abbattuta dal dolore e dalle perdite». Ci ha detto di aver ritrovato speranza perché qualcuno ha creduto nell’impatto trasformante della cultura dell’incontro. Ogni volta che qualcuno pratica un gesto di ospitalità, provoca una trasformazione.

Amici, sono molto contento di vedervi comunità educativa viva, aperta alla realtà, e consapevoli che il Vangelo non fa da ornamento, ma anima le parti e l’insieme. So che il vostro percorso comprende diversi ambiti: studio, amicizia, servizio sociale, responsabilità civile e politica, cura della casa comune, espressioni artistiche... Essere un’università cattolica vuol dire anzitutto questo: che ogni elemento è in relazione al tutto e che il tutto si ritrova nelle parti. Così, mentre si acquisiscono le competenze scientifiche, si matura come persone, nella conoscenza di sé e nel discernimento della propria strada. Strada sì, labirinto no. Allora, avanti! Una tradizione medievale racconta che quando i pellegrini del Cammino di Santiago si incrociavano, uno salutava l’altro esclamando «Ultreia» e l’altro rispondeva «et Suseia». Sono espressioni di incoraggiamento a continuare la ricerca e il rischio del cammino, dicendoci reciprocamente: “Dai, coraggio, vai avanti!”. Questo è ciò che auguro anch’io a tutti voi, con tutto il cuore. Grazie.


Incontro con i giovani di Scholas Occurrentes

Domanda n. 1 (POR)

Buongiorno. Scholas! Scholas! Scholas!

Quando mi è stato presentato, non ho avuto dubbi ad accettarlo e abbracciarlo perché è uno spazio dove tutti condividono le proprie emozioni e sentimenti. È uno spazio dove ognuno contribuisce con ciò che ha, di valori etici e morali, per il benessere della comunità. Indipendentemente dalla sua religione od origine. Sono della Guinea Bissau e sono musulmano, ma mi sento parte di questo spazio. E, come musulmano, sento l’obbligo e il dovere di unirmi e di far parte di questo movimento. Perché ciò a cui anche l’islam esorta è la buona convivenza tra le credenze, tra le diverse credenze. Ed esorta e si preoccupa del benessere della comunità. Ci dice che cosa dobbiamo fare, che dobbiamo prenderci cura del prossimo e, per questo motivo, vorrei chiedere perché Scholas è uno spazio con cui tutti si identificano e perché tanta diversità per ottenere un’opera d’arte.

Papa:

Scholas rende possibile tutto ciò, che ognuno si senta interpretato. Con grande rispetto, ma non è un rispetto statico, ma dinamico, che mette in cammino, per fare cose, per esprimersi facendo, com’è questo dipinto, che come mi ha detto del Corral, è una cappella sistina dipinta da voi. (Applausi). Scholas ti mette in cammino, Scholas ti fa rispettare l’altro, e ascoltare l’altro che ha qualcosa da dirti, e l’altro ascoltare te perché tu hai qualcosa da dirgli. Scholas ti indica il cammino per andare avanti, ti fa andare avanti. Scholas è un incontro camminando, tutti, qualsiasi sia il Paese, qualsiasi sia la religione, soltanto guardare avanti e camminare insieme. E questo è costruttivo, come i tre km e mezzo di murale che voi avete fatto per arrivare qui.

Domanda n. 2 (POR)

Vorrei continuare un po’ nella direzione della diversità per entrare nel tema che è stato alla base dei due mesi del nostro lavoro, che è il caos. Noi, come gruppo, e anche io individualmente, abbiamo avuto l’opportunità di visitare varie comunità diverse, varie persone diverse, di religione diversa, di culture diverse, e questo ci ha dato una grandiosa opportunità per approfondire sempre più, non solo dentro di noi, ma anche dentro tutta la comunità, ciò che significa scoprire il sentimento vero che esse provano, le sofferenze vere che sentono e, in tal modo, dare loro l’opportunità di esprimere tutto ciò con una pennellata, con una linea sul murale. Dare loro l’opportunità di esprimersi! E questo inevitabilmente ci coinvolge, tocca il nostro cuore e ci fa pensare: abbiamo questo sentimento? Queste sofferenze fanno parte di noi, del nostro convivere? Allora vorrei domandare: che cosa ne sarebbe della nostra esistenza senza il caos originale? Grazie.

Papa:

Tu dici caos, va bene. È la crisi. Sapete da dove viene la parola “crisi”? Quando si raccoglieva il grano, si passava al setaccio [in spagnolo [cribar: fa notare la parentela tra “crisi” e “cribar”]. E la crisi nelle persone sono situazioni della vita, eventi, problemi organici, malumore o buonumore. Ti fa cribar, ossia setacciare, e tu devi scegliere. Una vita senza crisi è una vita asettica. A te piace bere acqua? Ti piace? Se ti do acqua distillata, uno schifo! L’acqua distillata è un’acqua senza crisi. Una vita senza crisi è come l’acqua distillata, non sa di niente. Non serve a niente. Solo per metterla nell’armadio e chiudere la porta. Le crisi bisogna accettarle, bisogna accettarle e risolverle. Perché neanche rimanere nella crisi è un bene, perché è un suicidio continuo. È come uno stare per arrivare, per arrivare. Le crisi le devi percorrere, le devi accettare. E raramente da solo. E anche questo è importante nel gruppo di Scholas. Camminare insieme per affrontare crisi insieme, risolvere cose. L’importante è andare avanti e crescere insieme. Allora, avanti, anche solo per mangiare una feijoada.

Domanda n. 3 (POR)

In questi ultimi due mesi abbiamo lavorato molto per riuscire a fare il murale che ha visto lì fuori. Ma questo murale veramente rappresenta il caos. Il caos che, molto spesso, quando lo viviamo, e quando lo viviamo da vicino, non capiamo, ed è una grande confusione. Sembrano solo linee aleatorie. Ma la verità è che arriva un momento in cui noi ci distanziamo. In quella distanza cominciamo a riuscire a vedere forme, colori; cominciamo a riuscire a trovare un senso in questo caos, a riuscire a pensare più di quello che spesso vediamo appena o sentiamo appena, ma sì, riusciamo a esprimere. Per me, ad esempio, è stata un’esperienza molto importante perché anch’io ho vissuto momenti di grande caos nella mia vita - credo che tutti li viviamo - e la verità è che, ascoltare la storia degli altri, aprirsi veramente per ascoltare, per condividere e per accogliere tutte le persone che hanno partecipato a questo murale, è stato un privilegio per noi, forse più che per loro, per noi che siamo qui e abbiamo permesso che ciò accadesse. E tutto ciò perché cerchiamo questo senso, tutti cerchiamo questo senso profondo di percepire che è qualcosa di più grande del semplice essere qui. E allora vorremmo domandarle: quando è passato accanto al murale, che cosa ha sentito, che cosa ha provato durante nel tragitto fino a qui, nel cuore di questo murale, che per noi è davvero semplicemente l’inizio o la fine. Non lo sappiamo. E prima che lei risponda, vorremmo anche, a nome di tutti, offrirle un pennello, questo pennello che rappresenta tutti noi.

Papa:

È bello quello che hai detto del caos. C’era uno che diceva che la vita dell’uomo, la nostra vita umana, è fare del caos un cosmo, ossia di ciò che non ha senso, è disordinato, è caotico, fare un cosmo, con senso, aperto, inviante, complessivo. Non voglio fare qui il catechista, ma se vediamo la struttura del racconto della Creazione, che è un racconto mitico, nel senso vero della parola “mito”, perché mito è forma di conoscenza. Allora usa questa storia colui che ha scritto il racconto della Creazione. Tra parentesi, questo è stato scritto molto tempo dopo che il popolo ebraico ha fatto l’esperienza della sua liberazione. Ossia, pima c’è tutta l’esperienza dell’esodo del popolo ebraico e poi guardano indietro. E come è iniziata la storia? Come si è trasformato il caos in cosmo? E lì, in un linguaggio poetico, si narra come Dio dal caos un giorno fa la luce, un altro giorno fa l’uomo, e continua a creare cose e a trasformare il caos in cosmo. Nella nostra vita succede lo stesso: ci sono momenti di crisi - riprendo questa parola -, che sono caotici, che non sai più a che punto di trovi, tutti attraversiamo questi momenti bui. Caos. E qui il lavoro personale, delle persone che ci accompagnano, di un gruppo così, è di trasformare il cosmo. A me risulta difficile in questo caos della Sistina [risate] pensare che dietro c’è un cosmo, perché il cosmo qual è? Lo state costruendo voi nel messaggio che state portando avanti, nel cammino che avete davanti. Non vi dimenticate mai di questo: trasformare un caos in un cosmo. E questo è il cammino di ognuno. Una vita che rimane nel caotico è una vita fallita, e una vita che non ha mai provato il caos è una vita distillata, dove tutto è perfetto. E le vite distillate non danno vita, muoiono in sé stesse. E se una vita personale e relazionale che ha provato la crisi come caos e lentamente dentro di sé, e nella comunità, si è trasformata in un cosmo… tanto di cappello!

Una delle giovani di Scholas Ocurrentes in spagnolo:

Grazie, Papa Francesco, per le tue parole. Grazie!

Una giovane in portoghese:

È una gioia per noi concludere così questo cammino. Ma, malgrado questa esperienza stia per finire, ci piacerebbe pensare che l’opera non finirà mai. Per questo oggi concluderemo cominciando. E così, quando un cammino si chiude, un nuovo cammino si apre. Abbiamo deciso di chiamare questo progetto: “Vita tra Mondi”. Infatti tutto il murale è un’esperienza e un’espressione di vita che nascono dall’incontro di tante realtà diverse. Perciò oggi faremo un salto e riuniremo un mondo fisico con un mondo virtuale.

Una giovane in spagnolo:

Ti chiediamo, caro Francesco, di accompagnarci fino alla parete che hai dietro di te e di regalarci l’ultima pennellata di questo murale, ma con un pennello molto particolare, capace di iniziare al tempo stesso un’opera virtuale che riuscirà a riunire le diverse comunità di Scholas in tutto il mondo.

José María del Corral, Presidente di Scholas Ocurrentes:

Papa Francesco, il video, questo pennello virtuale di cui parlava Eugenia è un’arma per la pace. Sembra una pistola perché sparerà qui ma, invece di uccidere, questa pennellata che darai sulla parete la darai anche nel mondo virtuale. In questo momento ci sono ragazzi di Scholas in Mozambico, che hanno montato un dispositivo, in Mozambico, a Tofo, per vedere la pennellata che darai ora, e seguirla nel mondo virtuale, perché i giovani vogliono che sia tu a unire il mondo fisico con quello virtuale perché il mondo virtuale non smetta mai di essere concreto e impegnato con la realtà. [applausi] Dipingiamo la parete.

Papa:

Questa è la storia del buon Samaritano, e nessuno di noi è esente dall’essere un buon Samaritano. È un obbligo che abbiamo tutti. Ognuno deve cercarla nella vita, perché ognuno termina la propria vita […] ha perso come nella guerra. Il buon Samaritano lo trova gettato a terra, ma prima era passato un levita, era passato un sacerdote, però avevano fretta. Non gli hanno dato importanza. Ma oltre ad avere fretta, non potevano toccarlo perché c’era del sangue […] e secondo la legislazione di quel tempo chi toccava il sangue diventava impuro. Non so per quanto tempo doveva purificarsi, allora questo gli impediva di compiere il suo dovere, non doveva toccare. “Muori ma io non ti tocco, non divento impuro. Muori ma io non divento impuro”. Non dimenticatevi di questo. Quante volte può passare per la nostra mente: “Muori ma io non divento impuro”. Quante volte si preferisce la purezza rituale alla vicinanza umana […]. I Samaritani, nella mentalità dell’epoca, erano dei “disgraziati”, erano tutti disgraziati e commercianti, non erano puri di mente, di cuore, erano emarginati, ma il buon Samaritano lo vede, si ferma e la storia dice che provò compassione. “Muori, io mi preoccupo della mia purezza”. Provò compassione. Vi lascio la domanda: che cosa mi fa provare compassione? Oppure hai un cuore talmente arido che non provi compassione? Ognuno si dia una risposta. E poi che succede? Lo porta in un albergo e gli trova una stanza e dice al locandiere: “Guarda, io ripasserò tra tre giorni. Intanto prendi questo e se serve di più, al ritorno ti pago”. Questo “disgraziato” era uno che pagava. Allora abbiamo i ladroni che uccidono, il buon Samaritano che si prende cura e il levita e il sacerdote che se ne vanno per non diventare impuri. E Gesù dice: questo entra nel Regno dei Cieli, perché si è mosso a compassione. Pensate un po’ a questa storia. Dove sto io? Reco danno alla gente? Dove sto io? Evito le difficoltà reali o mi sporco le mani? A volte nella vita bisogna sporcarsi le mani per non sporcarsi il cuore.

Una giovane, in spagnolo:

Grazie, caro Francesco, per il tuo regalo, un vero segno per continuare a camminare insieme.

Papa: Ora vi do la benedizione, ma voi promettetemi di chiedere la benedizione anche per me, dopo.

Pregate per me, e chi tra voi non lo fa perché non può o perché non si sente, che mi mandi energia positiva.


Cerimonia di accoglienza

Benvenuti! Benvenuti e grazie di essere qui, sono felice di vedervi! Sono felice di ascoltare il simpatico chiasso che fate e di farmi contagiare dalla vostra gioia. È bello essere insieme a Lisbona: siete stati chiamati qui da me, dal Patriarca, che ringrazio per le sue parole, dai vostri Vescovi, sacerdoti, catechisti e animatori. Ringraziamo tutti coloro che vi hanno chiamato e tutti quelli che hanno lavorato per rendere possibile questo incontro, e lo facciamo con un forte applauso! Però è soprattutto Gesù che vi ha chiamati: ringraziamo Gesù con un altro forte applauso!

Voi non siete qui per caso. Il Signore vi ha chiamati, non solo in questi giorni, ma dall’inizio dei vostri giorni. Tutti ci ha chiamati fin dall’inizio della nostra vita. Sì, Lui vi ha chiamati per nome: abbiamo ascoltato dalla Parola di Dio che ci ha chiamati per nome. Provate a immaginare queste tre parole scritte a grandi lettere; e poi pensate che stanno scritte dentro ciascuno di voi, nei vostri cuori, come a formare il titolo della vostra vita, il senso di quello che sei: tu sei chiamato per nome, tu, tu, tu, tutti noi che siamo qui, io, tutti siamo stati chiamati con il nostro nome. Non siamo stati chiamati automaticamente, siamo stati chiamati per nome. Pensiamo a questo: Gesù mi ha chiamato con il mio nome. Sono parole scritte nel cuore. E poi pensiamo che sono scritte dentro ciascuno di noi, nei nostri cuori, e formano una specie di titolo della tua vita, il senso di quello che siamo, il senso di quello che siete: sei stato chiamato per nome, sei stato chiamato per nome, sei stato chiamato per nome! Nessuno di noi è cristiano per caso: tutti siamo stati chiamati per nome. Al principio della trama della vita, prima dei talenti che abbiamo, delle ombre e delle ferite che portiamo dentro, siamo stati chiamati. Siamo stati chiamati, perché? Perché siamo amati. Siamo stati chiamati perché siamo amati. È bello! Agli occhi di Dio siamo figli preziosi, che Egli ogni giorno chiama per abbracciare e incoraggiare; per fare di ciascuno di noi un capolavoro unico e originale; ognuno di noi è unico, è originale, e la bellezza di tutto questo non la possiamo intravedere.

Cari giovani, in questa Giornata Mondiale della Gioventù, aiutiamoci vicendevolmente a riconoscere questa realtà: siano questi giorni echi vibranti di questa chiamata d’amore di Dio, perché siamo preziosi agli occhi di Dio, nonostante quello che a volte vedono i nostri occhi; a volte i nostri occhio sono annebbiati dalle negatività e abbagliati da tante distrazioni. Che questi siano giorni in cui il mio nome, il tuo nome, il tuo nome attraverso fratelli e sorelle di tante lingue e nazioni – vediamo tante bandiere! – che lo pronunciano con amicizia, risuoni come una notizia unica nella storia, perché unico è il palpito di Dio per te. Siano giorni in cui fissare nel cuore che siamo amati così come siamo, non come vorremmo essere: come siamo adesso. Questo è il punto di partenza della GMG, ma soprattutto il punto di partenza della vita. Ragazzi e ragazze: siamo amati come siamo, senza trucco! Capito, questo?

Siamo chiamati per nome, ciascuno di noi. Non è un modo di dire, è Parola di Dio (cfr Is 43,1; 2 Tm 1,9). Amico, amica, se Dio ti chiama per nome significa che per Dio nessuno di noi è un numero. È un volto, è una faccia, è un cuore. Vorrei che ognuno di voi noti una cosa: tanti, oggi, sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato. Quanti lupi si nascondono dietro sorrisi di falsa bontà, dicendo di conoscere chi sei ma non volendoti bene, insinuando di credere in te e promettendoti che diventerai qualcuno, per poi lasciarti solo quando non interessi più. Queste sono le illusioni del virtuale e dobbiamo stare attenti a non lasciarci ingannare, perché tante realtà che oggi ci attirano e promettono felicità poi si mostrano poi per quello che sono: cose vane, bolle di sapone, cose superflue, cose che non servono e che ci lasciano il vuoto dentro. Vi dico una cosa: Gesù non è così, non è così! Lui ha fiducia in te, ha fiducia in ciascuno di voi, in ciascuno di noi perché per Gesù ciascuno di noi è importante, ciascuno di voi è importante. Questo è Gesù.

E allora noi, sua Chiesa, siamo la comunità di quelli che sono chiamati: non siamo la comunità dei migliori, no, siamo tutti peccatori, ma siamo chiamati, così come siamo. Pensiamo un poco a questo, nel nostro cuore: siamo chiamati così come siamo, con i problemi che abbiamo, con le limitazioni che abbiamo, con la nostra gioia travolgente, con il nostro desiderio di essere migliori, con il nostro desiderio di vincere. Siamo chiamati così come siamo. Pensate a questo. Gesù mi chiama così come sono, non come mi piacerebbe essere. Siamo la comunità dei fratelli e delle sorelle di Gesù, figli e figlie dello stesso Padre.

Amici, vorrei essere chiaro con voi, che siete allergici alle falsità e alle parole vuote: nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti. E questo Gesù lo dice chiaramente quando manda gli apostoli a invitare al banchetto di quell’uomo che lo aveva preparato, dice: “Andate e portate tutti, giovani e vecchi, sani e malati, giusti e peccatori: tutti, tutti, tutti”. Nella Chiesa c’è posto per tutti. “Padre, ma io sono un disgraziato…, sono una disgraziata, c’è posto per me?”. C’è posto per tutti! Tutti insieme, ognuno nella sua lingua, ripeta con me: “Tutti, tutti, tutti!”. [ripetono] Non si sente, ancora! “Tutti, tutti, tutti!”. E questa è la Chiesa, la Madre di tutti. C’è posto per tutti. Il Signore non punta il dito, ma apre le sue braccia. Questo ci fa pensare: il Signore non sa fare questo [puntare il dito], ma sa fare questo [abbracciare], ci abbraccia tutti. Ce lo mostra Gesù in croce, che tanto ha aperto le sue braccia da essere crocifisso e morire per noi. Gesù non chiude mai la porta, mai, ma ti invita a entrare: “entra e vedi”. Gesù ti riceve, Gesù accoglie. In questi giorni ciascuno di noi trasmetta il linguaggio d’amore di Gesù: “Dio ti ama, Dio ti chiama”. Che bello che è questo! Dio mi ama, Dio mi chiama, vuole che io sia vicino a Lui.

Voi stasera mi avete fatto anche delle domande, tante domande. Non stancatevi mai di fare domande! Fare domande è giusto, anzi spesso è meglio che dare risposte, perché chi domanda resta “inquieto” e l’inquietudine è il miglior rimedio all’abitudine, a quella normalità piatta che anestetizza l’anima. Ciascuno di noi ha dentro di sé le proprie inquietudini. Portiamo con noi queste inquietudini e portiamole nel dialogo tra di noi, portiamole con noi quando preghiamo davanti a Dio. Queste domande che con la vita diventano risposte, dobbiamo soltanto aspettarle. C’è una cosa molto interessante: Dio ama per sorpresa, non è programmato. L’amore di Dio è sorpresa. Sempre sorprende, sempre ci tiene svegli e ci sorprende.

Cari ragazzi e ragazze, vi invito a pensare a questa cosa tanto bella: che Dio ci ama, Dio ci ama come siamo, non come vorremmo essere o come la società vorrebbe che fossimo: come siamo. Ci ama con i difetti che abbiamo, con le limitazioni che abbiamo e con la voglia che abbiamo di andare avanti nella vita. Dio ci chiama così. Abbiate fiducia perché Dio è Padre, ed è un Padre che ci ama, un Padre che ci vuole bene. Questo non è molto facile, e per questo abbiamo un grande aiuto nella Madre del Signore, che è anche nostra Madre. Lei è nostra Madre. Solo questo volevo dirvi. Non abbiate paura, abbiate coraggio, andate avanti, sapendo che siamo protetti dall’amore di Dio. Dio ci ama. Diciamolo insieme, tutti: “Dio ci ama”. Più forte, che non sento! [ripetono] Non si sente qui… [ripetono] Grazie!


Incontro con i rappresentanti di alcuni centri di assistenza e di carità

Ringrazio il Parroco per le sue parole e saluto tutti voi, in particolare gli amici del Centro Paroquial da Serafina, della Casa Famiglia Ajuda de Berço e dell’Associazione Acreditar. E ringrazio per le vostre parole che hanno illustrato il lavoro che si fa, grazie! È bello essere qui insieme nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù, mentre guardiamo alla Vergine che si alza per andare ad aiutare. La carità, infatti, è l’origine e la meta del cammino cristiano, e la vostra presenza, realtà concreta di “amore in azione”, ci aiuta a non dimenticare la rotta, il senso di quello che stiamo facendo sempre. Grazie per le vostre testimonianze, delle quali vorrei sottolineare tre aspetti: fare il bene insieme, agire concretamente e stare vicini ai più fragili. Ossia, fare il bene insieme, agire concretamente, non solo con idee, bensì concretamente, stare vicino ai più fragili.

Primo: fare il bene insieme. “Insieme” è la parola chiave, che è stata ripetuta tante volte negli interventi. Vivere, aiutare e amare insieme: giovani e adulti, sani e malati, insieme. João ci ha detto una cosa molto importante: che non bisogna lasciarsi “definire” dalla malattia, ma farne parte viva del contributo che diamo all’insieme della comunità. È vero: non dobbiamo lasciarci “definire” dalla malattia o dai problemi, perché noi non siamo una malattia, non siamo un problema: ciascuno di noi è un regalo, è un dono, un dono unico, con i suoi limiti, ma un dono, un dono prezioso e sacro per Dio, per la comunità cristiana e per la comunità umana. Allora, così come siamo, arricchiamo l’insieme e lasciamoci arricchire dall’insieme!

Secondo: agire concretamente. Anche questo è importante. Come ci ha ricordato don Francisco, citando San Giovanni XXIII, la Chiesa non è un museo di archeologia. Alcuni la pensano così, ma non lo è. È l’antica fontana del villaggio che dà l’acqua alle generazioni di oggi come a quelle future (cfr Omelia nella Liturgia in Rito Bizantino-Slavo in onore di S. Giovanni Crisostomo, 13 novembre 1960). La fontana serve per placare la sete delle persone che arrivano, con il peso del viaggio o della vita e sono concretezza. Concretezza, dunque, attenzione al “qui e ora”, come già fate, con cura dei particolari e senso pratico, belle virtù tipiche del popolo portoghese.

Quando non si perde tempo a lamentarsi della realtà, ma ci si preoccupa di andare incontro ai bisogni concreti, con gioia e fiducia nella Provvidenza, accadono cose meravigliose. Lo testimonia la vostra storia: dall’incontro con lo sguardo di un anziano sulla strada nasce un centro di carità “a tutto tondo”, come quello in cui ci troviamo; da una sfida morale e sociale, la “campagna per la vita”, nasce un’associazione che aiuta mamme e famiglie in attesa, bambini, ragazzi e giovani in difficoltà, perché, come ci ha raccontato Sandra, trovino un progetto di vita sicuro; dall’esperienza della malattia nasce una comunità di sostegno a chi affronta la battaglia contro il cancro, specialmente ai bambini, affinché, come ci ha detto João, «l’evoluzione della cura e la migliore qualità della vita diventino per loro una realtà». Grazie per quello che fate! Continuate con mitezza e gentilezza a lasciarvi interrogare dalla realtà, con le sue povertà antiche e nuove, e a rispondere in modo concreto, con creatività e coraggio.

Il terzo aspetto: stare vicini ai più fragili. Tutti siamo fragili e bisognosi, ma lo sguardo di compassione del Vangelo ci porta a vedere le necessità di chi ha più bisogno. E a servire i poveri, i prediletti di Dio che si è fatto povero per noi (cfr 2 Cor 8,9): gli esclusi, gli emarginati, gli scartati, i piccoli, gli indifesi. Sono loro il tesoro della Chiesa, sono i preferiti di Dio! E, tra di loro, ricordiamoci di non fare differenze. Per un cristiano, infatti, non ci sono preferenze di fronte a chi bussa bisognoso alla porta: connazionali o stranieri, appartenenti a un gruppo o ad un altro, giovani o anziani, simpatici o antipatici...

E, a proposito di carità, vorrei ora raccontarvi una storia, specialmente a voi bambini, che forse non la conoscete. È la storia, veramente accaduta, di un giovane portoghese vissuto molto tempo fa. Si chiamava Giovanni Ciudad e abitava a Montemor-o-Novo. Sognava una vita avventurosa e così, da ragazzo, partì da casa in cerca della felicità. La trovò dopo tanti anni e molte avventure, quando incontrò Gesù. E fu così felice della scoperta che decise di cambiare perfino il nome e di chiamarsi, da allora in poi, non più Giovanni Ciudad, ma Giovanni di Dio. E fece una cosa ardita: andò in città e si mise a chiedere l’elemosina per strada, dicendo alla gente: «Fate del bene, fratelli, a voi stessi!». Capite? Chiedeva la carità, ma diceva a quelli che gliela facevano che, aiutando lui, in realtà aiutavano prima di tutto sé stessi! Spiegava, cioè, che i gesti d’amore sono un dono anzitutto per chi li fa, prima ancora che per chi li riceve; perché tutto quello che si accaparra per sé andrà perso, mentre quello che si dona per amore non andrà mai sprecato, ma sarà il nostro tesoro in cielo.

Per questo diceva: «Fate del bene, fratelli, a voi stessi!». Ma l’amore non rende felici solo in cielo, bensì già qui in terra, perché dilata il cuore e permette di abbracciare il senso della vita. Se vogliamo essere davvero felici, impariamo a trasformare tutto in amore, offrendo agli altri il nostro lavoro e il nostro tempo, dicendo parole e compiendo gesti buoni, anche con un sorriso, con un abbraccio, con l’ascolto, con lo sguardo. Cari ragazzi, fratelli e sorelle, viviamo così! Tutti possiamo farlo e tutti ne abbiamo bisogno, qui e ovunque nel mondo.

Sapete poi cosa successe a Giovanni? Che non lo capirono! Pensavano che fosse matto e lo chiusero in un manicomio. Ma lui non si demoralizzò, perché l’amore non si arrende, perché chi segue Gesù non perde la pace e non si piange addosso. E proprio lì, in manicomio, portando la croce, arrivò l’ispirazione di Dio. Giovanni si rese conto di quanto i malati avessero bisogno di aiuto e, quando finalmente lo lasciarono uscire, dopo alcuni mesi, cominciò a prendersi cura di loro con altri compagni, fondando un ordine religioso: i Fratelli Ospedalieri. Alcuni, però, cominciarono a chiamarli in un altro modo, proprio con le parole di quel giovane che diceva a tutti: “Fate-del-bene-fratelli”! A Roma noi li chiamiamo così: i “Fatebenefratelli”. Che bel nome, che insegnamento importante! Aiutare gli altri è un dono per sé e fa bene a tutti. Sì, amare è un dono per tutti! Ricordiamoci: “o amor é um presente para todos!”. Ripetiamolo insieme: o amor é um presente para todos!

Amiamoci così! Continuate a fare della vita un regalo d’amore e di gioia. Io vi ringrazio e vi raccomando, tutti quanti ma specialmente i bambini, andate avanti a pregare per me. Obrigado!

* * *

Parole a braccio

Sono molte le cose che vorrei dirvi ora, ma succede che non mi stanno funzionando “i riflettori” e non posso leggere bene. Perciò ve lo consegno, perché lo rendiate pubblico poi. Non si può forzare la vista e leggere male.

Voglio solo soffermarmi su qualcosa che non è scritto, ma che sta nello spirito dell’incontro: la concretezza. Non esiste amore astratto, non esiste. L’amore platonico sta in orbita, non sta nella realtà. L’amore concreto, quello che si sporca le mani. Ognuno di noi può chiedere: l’amore che io sento per tutti quelli che stanno qui, quello che sento per gli altri, è concreto o astratto? Quando io do la mano a una persona bisognosa, a un malato, a un emarginato, dopo aver dato la mano, faccio subito così [strofina la mano sulla veste] per non contagiarmi? Mi disgusta la povertà, la povertà degli altri? Cerco sempre la vita “distillata”, quella che esiste nella mia fantasia, ma non esiste nella realtà? Quante vite distillate, inutili, che passano senza lasciare un’impronta, perché quelle vite non hanno peso!

E qui abbiamo una realtà che lascia un’impronta, una realtà di tanti anni, tanti anni, che sta lasciando un’impronta che è d’ispirazione per gli altri. Non potrebbe esistere una Giornata Mondiale della Gioventù senza tener conto di questa realtà. Perché anche questo è gioventù, nel senso che voi generate vita nuova continuamente. Con la vostra condotta, con il vostro impegno, con il vostro sporcarvi le mani per toccare la realtà della miseria degli altri, state generando ispirazione, state generando vita. Grazie per questo! Vi ringrazio con tutto il cuore. Andate avanti e non vi scoraggiate! E se vi scoraggiate, prendete un bicchiere d’acqua e andate avanti!


Via Crucis con i giovani

Oggi camminerete con Gesù. Gesù è la Via e noi cammineremo con Lui, perché Lui cammina. Quando era tra noi, Gesù ha camminato, ha camminato curando i malati, assistendo i poveri, facendo giustizia… ha camminato predicando, insegnandoci. Gesù cammina, ma il cammino che più è inciso nel nostro cuore è il cammino del Calvario, la via della Croce. E oggi voi, noi, io pure, con la preghiera rinnoveremo la via della Croce. E guarderemo Gesù che passa e cammineremo con Lui. Il cammino di Gesù è Dio che esce da sé stesso, esce da sé stesso per camminare tra noi. Quello che ascoltiamo tante volte nella Messa: “E il Verbo si fece carne e camminò tra noi”. Ricordate? E il Verbo si fece uomo e camminò tra noi. E questo lo fa per amore. Lo fa per amore. E la Croce che accompagna ogni Giornata Mondiale della Gioventù è l’icona, è la figura di questo cammino. La Croce è il senso più grande dell’amore più grande, l’amore con il quale Gesù vuole abbracciare la nostra vita. La nostra? Sì, la tua, la tua, la tua, quella di ciascuno di noi. Gesù cammina per me. Dobbiamo dirlo tutti. Gesù intraprende questo cammino per me, per dare la sua vita per me. E nessuno ha più amore di chi dà la vita per i suoi amici, di colui che dà la vita per gli altri. Non dimenticate questo: nessuno ha più amore di chi dà la vita, e questo lo ha insegnato Gesù. Per questo, quando guardiamo il Crocifisso, che è tanto doloroso, una cosa così dura, vediamo la bellezza dell’amore che dà la sua vita per ciascuno di noi.

Diceva una persona molto credente una frase che mi ha colpito molto. Diceva così: “Signore, per la tua ineffabile agonia posso credere nell’amore”. Signore, per la tua ineffabile agonia posso credere nell’amore. E Gesù cammina, ma aspetta qualcosa, aspetta la nostra compagnia, aspetta che guardiamo… Non so, aspetta di aprire le finestre della mia anima, della tua anima, dell’anima di ciascuno di noi. Come sono brutte le anime chiuse, che seminano dentro e sorridono dentro! Non ha senso. Gesù cammina e aspetta con il suo amore, aspetta con la sua tenerezza, per darci consolazione, per asciugare le nostre lacrime.

Ora vi faccio una domanda, però non rispondete a voce alta: ciascuno risponda dentro di sé. Io piango, qualche volta? Ci sono cose nella vita che mi fanno piangere? Tutti nella vita abbiamo pianto, e piangiamo ancora. E lì c’è Gesù con noi, Lui piange con noi, perché ci accompagna nell’oscurità che ci porta al pianto.

Facciamo un po’ di silenzio, e ciascuno dica a Gesù per che cosa piange nella vita; ciascuno di noi lo dica a sé stesso, adesso, in silenzio.

[momento di silenzio]

Gesù, con la sua tenerezza, asciuga le nostre lacrime nascoste. Gesù vuole riempire, con la sua vicinanza, la nostra solitudine. Come sono tristi i momenti di solitudine! E Lui è lì, Lui vuole colmare questa solitudine. Gesù vuole colmare la nostra paura, la tua paura, la mia paura, quelle paure oscure vuole colmarle con la sua consolazione; e aspetta di spingerci ad abbracciare il rischio di amare. Perché, voi lo sapete, lo sapete meglio di me: amare è rischioso. Bisogna correre il rischio di amare. È un rischio, ma vale la pena correrlo, e Lui di accompagna in questo. Sempre ci accompagna, sempre cammina, sempre, durante la vita, è vicino a noi.

Non vorrei dire tante cose in più. Oggi faremo il cammino con Lui, il cammino della sua sofferenza, il cammino delle nostre ansie, il cammino delle nostre solitudini.

Adesso facciamo un secondo di silenzio e ciascuno di noi pensi alla propria sofferenza, pensi alla propria ansia, pensi alle proprie miserie. Non abbiate paura, pensateci, e pensate anche al desiderio che l’anima torni a sorridere.

[momento di silenzio]

E Gesù cammina con la Croce, muore sulla Croce, perché la nostra anima possa sorridere. Amen.


Preghiera con i giovani ammalati

Grazie, Mons. Ornelas, per le sue parole e grazie a tutti voi per la presenza e per la preghiera. Abbiamo recitato il Rosario, una preghiera bellissima, e vitale, perché ci mette a contatto con la vita di Gesù e di Maria. E abbiamo meditato i misteri della gioia, i quali ci ricordano che la Chiesa non può che essere la casa della gioia. La cappellina in cui ci troviamo è una bella immagine della Chiesa: accogliente, senza porte. La Chiesa non ha porte, affinché tutti possano entrare. E qui possiamo anche insistere sul fatto che tutti possono entrare, perché questa è la casa della Madre, e una madre ha sempre il cuore aperto per tutti i suoi figli, tutti, tutti, tutti, senza alcuna esclusione. Siamo qui, sotto lo sguardo materno di Maria, siamo qui come Chiesa, Chiesa madre. Il pellegrinaggio è proprio una caratteristica mariana, perché la prima a fare un pellegrinaggio dopo l’annunciazione di Gesù fu Maria. Appena venne a sapere che sua cugina era incita – era avanti con l’età la cugina – partì di corsa. È una traduzione un po’ libera, il Vangelo dice “andò in fretta”, noi diremmo “partì di corsa”, partì di corsa con quel desiderio di aiutare, di essere presente.

Ci sono tanti titoli di Maria, ma pensandoci uno che pure potremmo dire è questo: la Vergine “che va di corsa”, ogni volta che c’è un problema; ogni volta che la invochiamo, non indugia, viene, è premurosa. Madonna premurosa, vi piace così? Diciamolo tutti insieme: Madonna premurosa! Si affretta per stare vicino a noi, si affretta perché Madre. In portoghese si dice “apressada”, mi dice Mons. Ornelas. Madonna “apressada”. E così accompagna la vita di Gesù; e non si nasconde dopo la Risurrezione, accompagna i discepoli, aspettando lo Spirito Santo; e accompagna la Chiesa che inizia a crescere dopo la Pentecoste. Madonna che ha premura e Madonna che accompagna. Accompagna sempre. Non è mai protagonista. Il gesto di Maria Madre di accogliere è duplice: prima accoglie e poi indica Gesù. Maria nella sua vita non fa altro che indicare Gesù. “Fate quello che vi dirà”. Seguite Gesù.

Questi sono i due gesti di Maria, pensiamoci bene: ci accoglie tutti e indica Gesù. E questo lo fa un po’ con premura, “apressada”. Madonna premurosa che ci accoglie tutti e ci indica Gesù. E ogni volta che veniamo qui ricordiamoci di questo. Maria qui si rese presente in modo speciale, perché l’incredulità di tanti cuori si aprisse a Gesù. Con la sua presenza ci indica Gesù, sempre indica Gesù. E oggi è qui tra noi, è sempre tra noi, ma oggi la sentiamo molto più vicina. Maria premurosa.

Amici, Gesù ci ama a tal punto da identificarsi con noi, e ci chiede di collaborare con Lui. E Maria ci indica questo che Gesù ci chiede: camminare nella vita collaborando con Lui. Vorrei che oggi guardassimo l’immagine di Maria e ognuno pensasse: che cosa mi dice Maria come Madre? che cosa mi sta indicando? Ci indica Gesù; a volte ci indica anche qualche piccola cosa che nel cuore non funziona bene, ma sempre indica. “Madre, cosa mi stai indicando?”. Facciamo un piccolo momento di silenzio e ognuno nel suo cuore dica: “Madre, che cosa mi stai indicando? Che c’è nella mia vita che ti preoccupa? Che c’è nella mia vita che ti commuove? Che c’è nella mia vita che ti interessa? E tu lo indichi”. E lì ci indica il cuore perché Gesù venga. E così come a noi indica Gesù, a Gesù indica il cuore di ognuno di noi.

Cari fratelli, sentiamo oggi la presenza di Maria Madre, la Madre che sempre dirà: “Fate quello che Gesù vi dice”; ci indica Gesù. Ma pure la Madre che dice a Gesù: “Fai quello che questi ti sta chiedendo”. Questa è Maria. Questa è la nostra Madre, la Madonna premurosa per stare vicino a noi. Che Lei ci benedica tutti! Amen.


Veglia con i giovani

Mi dà tanta gioia vedervi! Grazie per aver viaggiato, per aver camminato, e grazie di essere qui! E penso che anche la Vergine Maria ha dovuto viaggiare per vedere Elisabetta: «Si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39). Viene da chiedersi: perché Maria si alza e va in fretta dalla cugina? Certo, ha appena saputo che la cugina è incinta, ma anche lei lo è: perché allora andare se nessuno gliel’aveva chiesto? Maria compie un gesto non richiesto e non dovuto; Maria va perché ama e «chi ama vola, corre lietamente» (L’imitazione di Cristo, III,5). Questo è quello che ci fa l’amore.

La gioia di Maria è duplice: aveva appena ricevuto l’annuncio dell’angelo, che avrebbe accolto il Redentore, e anche la notizia che la cugina era incinta. Allora, è interessante: invece di pensare a sé stessa, pensa all’altra. Perché? Perché la gioia è missionaria, la gioia non è per uno, è per portare qualcosa. Vi domando: voi, che siete qui, che siete venuti a incontrarvi, a trovare il messaggio di Cristo, a trovare un senso bello della vita, questo, lo terrete per voi o lo porterete agli altri? Cosa pensate? Non sento… È per portarlo agli altri, perché la gioia è missionaria! Ripetiamolo tutti insieme: la gioia è missionaria! E così io porto questa gioia agli altri.

Ma questa gioia che abbiamo, altri ci hanno preparato a riceverla. Adesso guardiamo indietro, a tutto quello che abbiamo ricevuto: tutto questo ha predisposto il nostro cuore alla gioia. Tutti, se guardiamo indietro, abbiamo persone che sono state un raggio di luce per la nostra vita: genitori, nonni, amici, sacerdoti, religiosi, catechisti, animatori, maestri… Loro sono come le radici della nostra gioia. Ora facciamo un attimo di silenzio, e ciascuno pensa a coloro che ci hanno dato qualcosa nella vita, che sono come le radici della gioia.

[momento di silenzio]

Avete trovato? Avete trovato dei volti, delle storie? La gioia che è venuta attraverso quelle radici è quella che noi dobbiamo dare, perché noi abbiamo radici di gioia. E allo stesso modo noi possiamo essere radici di gioia per gli altri. Non si tratta di portare una gioia passeggera, una gioia del momento; si tratta di portare una gioia che crea radici. E mi domando: come possiamo diventare radici di gioia?

La gioia non sta nella biblioteca, chiusa – anche se è necessario studiare! – ma sta da un’altra parte. Non è custodita sotto chiave. La gioia bisogna cercarla, bisogna scoprirla. Bisogna scoprirla nel dialogo con gli altri, dove dobbiamo dare queste radici di gioia che abbiamo ricevuto. E questo, a volte, stanca. Vi faccio una domanda: voi vi stancate a volte? Pensate a cosa accade quando uno è stanco: non ha voglia di far niente, come diciamo in spagnolo uno getta la spugna perché non ha voglia di andare avanti e allora uno si arrende, smette di camminare e cade. Voi credete che una persona che cade, nella vita, che ha un fallimento, che anche commette errori gravi, forti, che la sua vita sia finita? No! Che cosa bisogna fare? Alzarsi! E c’è una cosa molto bella che oggi vorrei lasciarvi come ricordo. Gli alpini, ai quali piace scalare le montagne, hanno un canto molto bello che dice così: “Nell’arte di salire – sulla montagna –, quello che conta non è non cadere, ma non rimanere caduto”. È bello!

Chi rimane caduto è già “andato in pensione” dalla vita, ha chiuso, ha chiuso alla speranza, ha chiuso ai desideri e rimane a terra. E quando vediamo qualcuno, un nostro amico che è caduto, cosa dobbiamo fare? Sollevarlo. Fate caso a quando uno deve sollevare o devi aiutare una persona a sollevarsi, che gesto fa? Lo guarda dall’alto in basso. L’unica occasione, l’unico momento in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso, ed è per aiutarla a rialzarsi. Quante volte, quante volte vediamo persone che ci guardano così, sopra le spalle, dall’alto in basso! È triste. L’unico modo, l’unica situazione in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso è… ditelo voi…, forte: per aiutarla ad alzarsi.

Bene, questo un po’ è il cammino, la costanza nel camminare. E nella vita, per ottenere le cose bisogna allenarsi a camminare. A volte non abbiamo voglia di camminare, non abbiamo voglia di fare fatica, copiamo agli esami perché non abbiamo voglia di studiare e non arriviamo al risultato. Non so se a qualcuno di voi piace il calcio…, a me piace. Dietro a un gol, cosa c’è? Tanto allenamento. Dietro un risultato, cosa c’è? Tanto allenamento. E nella vita, non sempre uno può fare quello che vuole, ma quello che ci porta a fare la vocazione che abbiamo dentro – ognuno ha la propria vocazione. Camminare. E se cado, mi rialzo o qualcuno mi aiuterà a rialzarmi; non rimanere caduto; e allenarmi, allenarmi a camminare. E tutto questo è possibile, non perché seguiamo un corso sul camminare – non esistono corsi che ci insegnano a camminare nella vita –: questo si impara, si impara dai genitori, si impara dai nonni, si impara dagli amici, dandosi una mano a vicenda. Nella vita si impara, e questo è allenamento per camminare.

Vi lascio questi spunti. Camminare e, se si cade, rialzarsi; camminare con una meta; allenarsi tutti i giorni nella vita. Nella vita, nulla è gratis, tutto si paga. Solo una cosa è gratis: l’amore di Gesù! Quindi, con questo gratis che abbiamo – l’amore di Gesù – e con la voglia di camminare, camminiamo nella speranza, guardiamo alle nostre radici e andiamo avanti, senza paura. Non abbiate paura. Grazie! Ciao!


Santa Messa 

«Signore, è bello per noi essere qui!» (Mt 17,4). Queste parole, che disse l’apostolo Pietro a Gesù sul monte della Trasfigurazione, vogliamo farle anche nostre dopo questi giorni intensi. È bello quanto stiamo sperimentando con Gesù, ciò che abbiamo vissuto insieme, ed è bello come abbiamo pregato, con tanta gioia del cuore. Allora possiamo chiederci: cosa portiamo con noi ritornando alla vita quotidiana?

Vorrei rispondere a questo interrogativo con tre verbi, seguendo il Vangelo che abbiamo ascoltato. Che cosa portiamo? Brillare, ascoltare, non temere. Che cosa portiamo con noi? Rispondo con queste tre parole: brillare, ascoltare e non temere.

La prima: brillare. Gesù si trasfigura. Il Vangelo dice: «Il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2). Egli aveva da poco annunciato la sua passione e la morte di croce, frantumando così l’immagine di un Messia potente, mondano, e deludendo le attese dei discepoli. Ora, per aiutarli ad accogliere il progetto d’amore di Dio su ciascuno di noi, Gesù prende tre di loro, Pietro, Giacomo e Giovanni, li conduce sul monte e si trasfigura. E questo “bagno di luce” li prepara alla notte della passione.

Amici, cari giovani, anche oggi noi abbiamo bisogno di un po’ di luce, di un lampo di luce che sia speranza per affrontare tante oscurità che ci assalgono nella vita, tante sconfitte quotidiane, per affrontarle con la luce della risurrezione di Gesù. Perché Lui è la luce che non tramonta, è la luce che brilla anche nella notte. «Il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi», dice il sacerdote Esdra (Esd 9,8). Il nostro Dio illumina. Illumina il nostro sguardo, illumina il nostro cuore, illumina la nostra mente, illumina il nostro desiderio di fare qualcosa nella vita. Sempre con la luce del Signore.

Ma vorrei dirvi che non diventiamo luminosi quando ci mettiamo sotto i riflettori, no, questo abbaglia. Non diventiamo luminosi. Non diventiamo luminosi quando esibiamo un’immagine perfetta, ben ordinata, ben rifinita, no; e neanche se ci sentiamo forti e vincenti, forti e vincenti, ma non luminosi. Noi diventiamo luminosi, brilliamo quando, accogliendo Gesù, impariamo ad amare come Lui. Amare come Gesù: questo ci rende luminosi, questo ci porta a fare opere di amore. Non t’ingannare, amica, amico, diventerai luce il giorno in cui farai opere di amore. Ma quando, invece di fare opere di amore verso gli altri, guardi a te stesso, come un egoista, lì la luce si spegne.

Il secondo verbo è ascoltare. Sul monte, una nube luminosa copre i discepoli. E questa nube, dalla quale parla il Padre, che cosa dice? «Ascoltatelo», «questi è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo» (Mt 17,5). È tutto qui: tutto quello che c’è da fare nella vita sta in questa parola: ascoltatelo. Ascoltare Gesù. Tutto il segreto sta qui. Ascolta che cosa ti dice Gesù. “Io non so cosa mi dice”. Prendi il Vangelo e leggi quello che dice Gesù, quello che dice al tuo cuore. Perché Lui ha parole di vita eterna per noi, Lui rivela che Dio è Padre, è amore. Lui ci indica il cammino dell’amore. Ascolta Gesù. Perché noi, anche se con buona volontà, ci mettiamo su strade che sembrano di amore, ma in definitiva sono egoismi mascherati da amore. State attenti agli egoismi mascherati da amore! Ascoltalo, perché Lui ti dirà qual è il cammino dell’amore. Ascoltalo.

Brillare è la prima parola, siate luminosi; ascoltare, per non sbagliare strada; e infine la terza parola: non avere paura. Non abbiate paura. Una parola che nella Bibbia si ripete tanto, nei Vangeli: “non abbiate paura”. Queste furono le ultime parole che nel momento della Trasfigurazione Gesù disse ai discepoli: «Non temete» (Mt 17,7).

A voi giovani che avete vissuto questa gioia – stavo per dire questa gloria, e in effetti una specie di gloria lo è, questo nostro incontro –; a voi che coltivate sogni grandi ma spesso offuscati dal timore di non vederli realizzati; a voi che a volte pensate di non farcela – un po’ di pessimismo ci assale a volte –; a voi, giovani, tentati in questo tempo di scoraggiarvi, di giudicarvi forse inadeguati o di nascondere il dolore mascherandolo con un sorriso; a voi, giovani, che volete cambiare il mondo – ed è un bene che vogliate cambiare il mondo – e che volete lottare per la giustizia e la pace; a voi, giovani, che ci mettete impegno e fantasia nella vita, ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi dice: “Non temete!”, “Non abbiate paura!”.

In un piccolo silenzio, ognuno ripeta a sé stesso, nel proprio cuore, queste parole: “Non abbiate paura”.

Cari giovani, vorrei guardare negli occhi ciascuno di voi e dirvi: non temete, non abbiate paura. Di più, vi dico una cosa molto bella. Non sono più io, è Gesù stesso che vi guarda ora, vi guarda, Lui che vi conosce, conosce il cuore di ognuno di voi, conosce la vita di ognuno di voi, conosce le gioie, conosce le tristezze, i successi e i fallimenti, conosce il vostro cuore. E oggi Lui dice a voi, qui, a Lisbona, in questa Giornata Mondiale della Gioventù: “Non temete, non temete, coraggio, non abbiate paura!”. 


Angelus 

Cari Fratelli e sorelle,

una parola è risuonata tante volte in questi giorni: “grazie”, o meglio, “obrigado”. È molto bello quanto ci ha appena detto il Patriarca di Lisbona, ovvero che obrigado non esprime solo gratitudine per ciò che si è ricevuto, ma anche il desiderio di ricambiare il bene. In questo evento di grazia, tutti noi abbiamo ricevuto e ora il Signore ci fa sentire il bisogno, tornando a casa, di condividere con gli altri, testimoniando la gioia, la gratuità di Dio, e quello che Dio ci ha messo nel cuore.

Prima però di inviarvi desidero dire anch’io obrigado. Anzitutto al Cardinale Clemente, e con Lui alla Chiesa e all’intero popolo portoghese, obrigado. Obrigado al Signor Presidente, che ci ha accompagnato negli eventi di questi giorni. Obrigado alle Istituzioni nazionali e locali per il sostegno e l’assistenza forniti. Obrigado ai Vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati e ai laici. Y obrigado a te, Lisbona, che rimarrai nella memoria di questi giovani come “casa di fraternità” e “città di sogni”! Tanta gratitudine esprimo poi al Cardinal Farrell, che è ringiovanito in queste Giornate, e a coloro che hanno preparato queste Giornate, così come a quanti le hanno accompagnate con la preghiera. Obrigado ai volontari, ai quali va l’applauso di cuore per il grande servizio svolto! Un ringraziamento speciale a chi ha vegliato sulla GMG dall’alto, cioè ai Santi patroni dell’evento: uno su tutti, Giovanni Paolo II, che ha dato vita alle Giornate Mondiali della Gioventù.

E obrigado a tutti voi, cari giovani! Dio vede tutto il bene che siete, Lui solo conosce quello che ha seminato nei vostri cuori. Voi andate via da qui con quello che Dio ha seminato nel cuore: fatelo crescere, custoditelo con cura. Vorrei farvi una raccomandazione: fatene memoria, fissate nella mente e nel cuore i momenti più belli, perché così, quando arriverà qualche momento di fatica e scoraggiamento – che è inevitabile –, e magari la tentazione di fermarvi nel cammino o di chiudervi in voi stessi, con il ricordo ravvivate le esperienze e la grazia di questi giorni, perché – non dimenticatelo mai – questa è la realtà, questo siete voi: il santo Popolo fedele di Dio che cammina nella gioia del Vangelo! Mi piacerebbe anche inviare un saluto ai giovani che non hanno potuto essere qui, ma hanno partecipato a iniziative organizzate dai loro Paesi, dalle Conferenze episcopali, dalle Diocesi; penso, ad esempio, ai fratelli e alle sorelle subsahariani riuniti a Tangeri. A tutti grazie, grazie!

In particolare, accompagniamo con l’affetto e la preghiera coloro che non sono potuti venire a causa di conflitti e di guerre. Nel mondo sono tante le guerre, sono molti i conflitti. Pensando a questo continente, provo grande dolore per la cara Ucraina, che continua a soffrire molto. Amici, permettete anche a me, ormai vecchio, di condividere con voi giovani un sogno che porto dentro: è il sogno della pace, il sogno di giovani che pregano per la pace, vivono in pace e costruiscono un avvenire di pace. Attraverso l’Angelus mettiamo nelle mani di Maria, Regina della pace, il futuro dell’umanità. E c’è un ultimo obrigado che vorrei sottolineare alla fine: obrigado alle nostre radici, ai nostri nonni, che ci hanno trasmesso la fede, che ci hanno trasmesso l’orizzonte di una vita. Sono le nostre radici. E, tornando a casa, continuate a pregare per la pace. Voi siete un segno di pace per il mondo, una testimonianza di come le diverse nazionalità, le lingue, le storie possono unire anziché dividere. Siete speranza di un mondo diverso. Grazie di questo. Avanti!

E alla fine c’è un momento che tutti aspettano: l’annuncio della prossima tappa del cammino. Prima di dirvi la sede della quarantunesima GMG, vi rivolgo un invito. Do appuntamento ai giovani di tutto il mondo nel 2025 a Roma, per celebrare insieme il Giubileo dei giovani! Vi aspetto nel 2025 per celebrare insieme il Giubileo dei giovani. E la prossima Giornata Mondiale della Gioventù avrà luogo in Asia: sarà in Corea del Sud, a Seoul! Così, nel 2027, dal confine occidentale dell’Europa si sposterà in estremo Oriente: è questo un bel segno dell’universalità della Chiesa e del sogno di unità di cui voi siete testimoni!

Infine, un ultimo obrigado, lo rivolgiamo a due persone speciali, ai protagonisti principali di questo incontro. Sono stati qui con noi, ma sono sempre con noi, non perdono di vista le nostre vite, amano le nostre vite come nessun altro: obrigado a Te, Signore Gesù; obrigado a te, Madre nostra Maria. E ora preghiamo insieme.

Dopo l'Angelus

Desidero assicurare la mia preghiera, e lo facciamo anche insieme, per le vittime della tragica valanga che si è prodotta due giorni fa nella regione di Racha, in Georgia. E accompagno con la mia vicinanza i familiari, che la Vergine Santa li consoli e sostenga anche il lavoro delle squadre di soccorso. Accompagno e sono vicino al mio fratello, il Patriarca Elia II.


Incontro con i volontari 

Grazie al Patriarca di Lisbona per le sue parole, a Mons. Aguiar e a tutti voi per aver lavorato tanto e tanto bene: avete reso possibili queste giornate indimenticabili! Avete faticato per mesi, in modo nascosto, senza clamore e senza le luci della ribalta, perché tutti potessimo trovarci qui a cantare insieme: «Gesù vive e non ci lascia soli: non smetteremo più di amare». Non solo: siete stati d’esempio perché avete fatto squadra nel lavorare insieme! Ma il vostro, più che un lavoro, è stato un servizio, grazie!

Lo stesso servizio che ha reso la Vergine Maria, che «si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39) per andare a servire la cugina Elisabetta, sentendo l’urgenza di condividere la gioia nel servizio. Condividere la gioia e il servizio, la gioia nel servizio. Pensiamo a Zaccheo, che salì su un albero per vedere Gesù, e scese in fretta. Qualcosa lo aveva toccato, voleva incontrare Gesù e accoglierlo a casa sua (cfr Lc 19,6); pensiamo alle donne e ai discepoli, che a Pasqua corrono avanti e indietro dalla tomba al cenacolo per annunciare che Cristo è Risorto (cfr Gv 20,1-18). Chi ama non sta con le mani in mano, chi ama serve, chi ama corre a servire, corre a impegnarsi nel servizio agli altri. E voi avete corso, avete corso parecchio, in questi mesi! Io ho potuto vedere solo il momento finale, in questi giorni, osservarvi mentre rispondevate a mille bisogni, a volte con il volto segnato dalla stanchezza, altre volte un po’ sopraffatti dalle urgenze del momento, ma sempre ho notato una cosa: che avevate gli occhi luminosi, luminosi per la gioia del servizio, grazie!

Voi avete reso possibile questo incontro mondiale della gioventù, avete fatto cose grandi nei gesti più piccoli, come la bottiglietta d’acqua offerta a uno sconosciuto, e questo crea amicizia. Avete corso tanto, non però con la corsa frenetica e senza meta che a volte è quella del nostro mondo, no, voi avete corso in un altro modo: avete fatto una corsa che porta incontro agli altri per servirli in nome di Gesù. Voi siete venuti a Lisbona per servire e non per essere serviti, grazie, molte grazie!

E ora vorrei farvi io da amplificatore, perché risuoni quanto ci hanno detto le testimonianze, le testimonianze di Chiara, Francisco e Filipe: tutti e tre ci hanno parlato di un incontro speciale con Gesù. Ci hanno ricordato che l’incontro più bello, il motore di tutti gli altri, quello che fa camminare sul serio, che fa andare avanti la vita, è con Gesù. È l’incontro più importante della nostra vita. Rinnovare ogni giorno l’incontro personale con Gesù è il cuore della vita cristiana. E bisogna rinnovarlo ogni giorno per mantenerlo fresco, non solo nella testa ma anche nel cuore. Abbiamo sperimentato che un piccolo “sì” a Gesù può cambiare la vita. Ma anche i “sì” detti agli altri fanno bene, quando sono per il servizio. Voi, nel momento della stanchezza, vi siete fatti coraggio e siete andati avanti dicendo “sì” per servire gli altri. Grazie per questo.

E tu, Francisco, hai detto che qui hai trovato qualcosa di cui avevi bisogno e che però nemmeno cercavi. Camminando, lavorando e pregando con gli altri hai capito che non potevi lasciarti imprigionare dal disordine, dai “letti sfatti” del passato, né vivere con il cuore tormentato dai sensi di incompiutezza, ma che, con l’aiuto di Gesù e dei fratelli, ti veniva data l’occasione per riordinare “la stanza della vita”. È bello questo: questa Giornata serve, aiuta tanto a fare ordine nella vita. Ma perché? Grazie alla Giornata? No, grazie a Gesù, che è qui in mezzo a noi e si mostra a noi. Per mettere ordine nella nostra vita non servono le cose, non servono le distrazioni, non serve il denaro. È necessario dilatare il cuore. E se voi allargate il cuore metterete ordine nella vostra vita. Non abbiate paura: dilatate il vostro cuore!

E infine tu, Filipe, tra le tante cose belle che hai condiviso ne hai detta una che voglio sottolineare: hai detto che hai vissuto qui un doppio incontro, un incontro con Gesù e un incontro con gli altri. Incontrarti con Gesù e incontrarti con gli altri. Questo è molto importante: l’incontro con Gesù è un momento personale, unico, che si può descrivere e raccontare solo fino a un certo punto, però arriva sempre grazie a un cammino fatto con gli altri, fatto per mezzo dell’intercessione degli altri. Incontrare Gesù e incontrarlo nel servizio agli altri.

Amici, alla fine vorrei lasciarvi un’immagine. Come molti di voi sanno, a nord di Lisbona c’è una località, Nazaré, dove si possono ammirare delle onde che arrivano fino a trenta metri di altezza e sono un’attrazione mondiale, specialmente per i surfisti che le cavalcano. In questi giorni anche voi avete affrontato una vera e propria ondata: non di acqua, ma di giovani, giovani come voi, che si sono riversati in questa città. Però, con l’aiuto di Dio, con tanta generosità e sostenendovi a vicenda, avete cavalcato questa grande onda. Voi avete cavalcato questa grande onda: siete proprio coraggiosi! Grazie, obrigado! Voglio dirvi: continuate così, continuate a cavalcare le onde dell’amore, le onde della carità, siate surfisti dell’amore! E questo è il compito che vi affido in questo momento: che il servizio che avete fatto in questa Giornata Mondiale della Gioventù sia la prima di tante onde di bene; ogni volta sarete portati più in alto, più vicini a Dio, e ciò vi permetterà di vedere da una prospettiva migliore la vostra strada.

Ancora grazie, a tutti. Buon cammino! E, mi raccomando, continuate a pregare per me! Grazie!


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