Escobar? - No, Escrivá

Lo scrittore Emanuele Cazzolla racconta la sua visita alla Chiesa di Santa Maria della Pace, dove si trovano le spoglie di San Josemaría. Il racconto è raccolto nel libro Il vecchio devoto o altri 11 racconti brevi.

Era la prima volta che Kristina veniva da noi, a cavallo fra dicembre e gennaio, per le festività natalizie. Negli anni successivi sarebbe ritornata ancora per un mesetto a Natale e per due mesi e mezzo, per le vacanze estive, fra giugno e agosto. E ogni volta avrebbe rinnovato il dono di renderci genitori ricevendone in cambio quello di sentirsi figlia.

Per quel primo anno, a pochi giorni dal rientro dei bambini in Bielorussia, l’Associazione di Modugno che ne curava, e ne cura, i loro soggiorni in Italia – e tramite la quale ci fu fatto il dono di Kristina – organizzò una visita a Roma dal Papa. Era un mercoledì, il giorno delle udienze papali, e la mèta la Sala Nervi, quella che accoglie i pellegrini quando le condizioni atmosferiche non consentono di stare all’aperto, nel grande abbraccio di Piazza San Pietro.

Al termine dell’incontro col Papa – con i bambini piccoli e stranieri e naturalmente un po’ stanchi – ci furono concesse un paio di ore per un break, prima del ritrovo al parcheggio dei pullman che ci avrebbero riportati a casa. Era l’occasione che aspettavo.

Avevo letto da poco un paio di libri sull’Opus Dei e una biografia del Fondatore, San Josemaría Escrivá de Balaguer, Santo del Novecento. Mi si erano accese tante curiosità, una molto forte era quella di poter visitare, seppure fugacemente per una prima volta, la sede centrale dell’Opera, Villa Tevere, sulla via Bruno Buozzi.

Chiesi di potermi allontanare per un po’, affidai Kristina a mia moglie, rinunciai a mangiare qualcosa, e corsi a prendere un taxi, il mezzo più veloce, visto il poco tempo che avevo a disposizione.

“’Ndò va?” Mi fece il tassista con un’accentuata inflessione romanesca.

“Vado a Villa Tevere, in via Bruno Buozzi angolo via di Villa Sacchetti, grazie”.

“Lei va alla sede… come se chiama… dell’oppusddei?”.

“Sì, sì, vado proprio lì”.

“Me dica ‘n po’ – continuò il tassista sempre più loquace, mentre già guidava –a mme me capita spesso de accompagnà dei signori ‘ndò va lei, me pare che lì ce sta sepolto un santo… come se chiama… Escobàr, vero?”

“Escrivá, San Josemaría Escrivá, sì. È stato il fondatore dell’Opus Dei”. Corressi, evitando di aggiungere “de Balaguer” per non complicare troppo le cose.

“Ma pecché è così ‘mportante, cos’à fatto de speciale?”

“Tutti i santi sono importanti. Lui ha detto che ogni uomo, divenuto figlio di Dio con il Battesimo, può santificarsi, anche senza fare cose straordinarie, semmai facendo straordinariamente bene le cose normali. Ad esempio, lei che è tassista, può fare il suo lavoro in due modi: o in maniera consueta, anche un po’ superficiale, oppure lo può fare glorificando Dio attraverso di esso, e farlo così bene da riuscire a santificarsi. Insomma per diventare santi non è indispensabile divenire monaci o eremiti o morire da martiri, come si credeva un tempo”.

“Sa che mm’ero repromesso da tempo de approfittà pe famme accompagnà a fà ‘na visita veloce?”, incalzò il tassista, mentre cercava invano un posto per parcheggiare la macchina. “Semo arrivati, è qui, me sa che oggi è a vorta bbona, jè dispiace se vengo con lei?” E intanto aveva già parcheggiato l’auto con due ruote sul marciapiede nella più stretta via di Villa Sacchetti.

“No, no, venga pure, ci mancherebbe!”, gli risposi temendo in realtà che potesse essermi d’intralcio in quella mia prima visita e con il poco tempo a disposizione.

Tutti i santi sono importanti. San Josemaría ha detto che ogni uomo, divenuto figlio di Dio con il Battesimo, può santificarsi, anche senza fare cose straordinarie.

In quel primissimo pomeriggio invernale, citofonai e fummo accolti con tanta gentilezza, nonostante a quell’ora la sede fosse chiusa. Eravamo appena entrati che subito si avvicinò un giovane sacerdote, alto, asciutto, elegante nel suo abito talare. Con accento spagnolo ci chiese se potevamo aver bisogno di lui. Gli dissi che eravamo lì per una breve visita alla tomba del Fondatore. Allora ci fece accompagnare da un giovane altrettanto distinto, in giacca e cravatta.

Scendemmo delle scale fra ambienti di un’eleganza sopraffina, passammo davanti a un busto di San Josemaría in marmo bianchissimo e poi arrivammo in una saletta giù sul cui pavimento dominava un lastrone di marmo nero con una scritta dorata “El Padre”. Più sotto il sigillo dell’Opus Dei, una croce inscritta in un cerchio, a ratificare Cristo nel mondo, ovvero la chiamata universale alla santità, e in basso le due date, di nascita e di morte: 9.I.1902 e 26.VI.1975.

Il nostro accompagnatore si raccolse in preghiera su un inginocchiatoio in un angolo. Io rimasi in piedi, un po’ impacciato, estasiato per la solennità del luogo, e cominciai a bisbigliare dei Padre, Ave Maria, Gloria, Eterno riposo a ripetizione, finivo e ricominciavo. E intanto vidi che colui che si era fatto la mia ombra, il tassista, si era inginocchiato per terra con lo sguardo fisso sulla lastra tombale.

Dopo un po’, a un cenno d’intesa con il nostro giovane accompagnatore, ci avviammo fuori. Qui ci fu spiegato che in realtà sotto quella lastra nera, solo inizialmente era stato sepolto il Fondatore, El Padre, per l’appunto. In anni successivi, il suo corpo era stato traslato nell’Oratorio al piano superiore, per l’esattezza sotto l’altare. Laggiù si trovava adesso il corpo del primo successore, il vescovo, Servo di Dio, Álvaro del Portillo, morto nel 1994.

E così ci fece strada nell’Oratorio, bellissimo dove tutto era già bello, dominato dall’immagine di Santa Maria della Pace. Ad un banco, raccolto in preghiera e inginocchiato c’era il sacerdote che ci aveva accolti all’ingresso. Levò per un momento lo sguardo e ci fece un cenno di sorriso. Fui certo che stesse pregando per noi.

Fummo accompagnati fin sotto l’altare. Davanti a noi c’era il sarcofago argenteo con le spoglie di San Josemaría. Notai due medaglioni con la sua effigie. Il nostro accompagnatore si inchinò e ne baciò uno.

Io mi feci il segno della croce. Con la coda dell’occhio intravidi il tassista – che da quando eravamo dentro non aveva detto una sola parola – con le mani giunte e percepii che pregava.

Pochi minuti di sosta e, mio malgrado, dissi all’accompagnatore che dovevo andare via. Brevemente gli raccontai del perché e del per come ero lì, e gli spiegai che dovevo raggiungere il mio gruppo con la bambina e mia moglie a San Pietro.

Ero riuscito a fare tutto in poco tempo, dunque avevo la possibilità di tornare in autobus. Mi feci indicare la fermata e uscendo ringraziai per la splendida accoglienza. Il giovane accompagnatore salutandoci disse che avrebbe pregato per noi.

Una volta fuori, il tassista ringraziò me e disse che non avrebbe dimenticato mai quella visita, anzi da lì in avanti avrebbe pregato ancora…

“Com’ha detto che se chiama er Santo, quello famoso?”.

“Josemaría Escrivá”.

“Ah, Eschivià, già. Arrivedecci” . E salì nel suo taxi parcheggiato con due ruote sul marciapiede.