Mondo 2021. Una crisi sanitaria, economica e sociale sta colpendo le nostre famiglie, mettendo a nudo la loro vulnerabilità. Viviamo in tempi di incertezza e i periodi di confinamento mettono alla prova la convivenza; in queste situazioni emerge la grandezza di persone comuni che, sia nelle loro relazioni familiari e personali che attraverso il loro lavoro professionale, sono capaci di costruire «una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo gli uni gli altri a guardare in avanti» (Fratelli tutti, 6). Si crea un percorso di andata e ritorno tra i contagiati e coloro che si occupano e curano la loro fragilità, in quanto tutti possiamo essere a seconda dei casi la persona contagiata e altre volte il buon samaritano: «Semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura» (FT, 70)
Vi sono atteggiamenti, gesti, comportamenti, che mostrano un contatto con la realtà e un amore che si esprime in opere: spirito di servizio e solidarietà, dare il proprio tempo, amabilità. Inoltre nella nostra famiglia e nell’ambiente in cui viviamo, possiamo notare lo sforzo che gli altri fanno per prendersi cura di noi; possiamo renderci conto che devono imparare a compiere alcune attività mai prima praticate e portarle avanti quanto meglio possono: utilizzare la lavatrice, fare acquisti, pulire, andare di qui o di là ad aiutare un vicino di casa, curare un malato, gestire le molte cose che, in sostanza, riguardano la famiglia: «Dio, infatti, continua a seminare nell’umanità semi di bene. La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose,… hanno capito che nessuno si salva da solo» (FT 54).
Madrid, 1943. Dora ha 29 anni e va a lavorare nella Moncloa, una residenza di studenti da poco inaugurata. È un lavoro temporaneo, perché ha in testa altri programmi. Appena arrivata, dà un’occhiata panoramica e si rende conto che in quel posto hanno difficoltà di ogni tipo: problemi di approvvigionamento, viveri scarsi, mancanza di esperienza e di organizzazione del lavoro; ma anche alcuni punti forti: generosità, resistenza, desiderio di imparare e di migliorare.
Dora sentì, come tutti, la tentazione di badare ai fatti propri e di non farsi coinvolgere; ma, grazie al suo buon cuore, dopo alcune settimane, decise di fermarsi. Quello che era cominciato come un lavoro temporaneo in un posto scomodo, divenne un lavoro stabile e gratificante. Dora aveva esperienza di lavoro e sviluppò la capacità di rendersi conto di ciò che occorreva, oltre a un cuore generoso per indicare agli altri come lavorare meglio, dando per prima l’esempio lei stessa. Ebbe anche la certezza che gli altri fossero capaci di imparare, e in pochi mesi tutto si trasformò. Fece ciò che ora chiamiamo un atto di sorellanza e di gruppo. Quando conobbe san Josemaría scoprì nel suo lavoro una dimensione spirituale che la indusse a interessarsi davvero delle persone e a dedicarsi a loro con pazienza. Dora non era speciale, né occupava un posto importante; era una di quelle persone comuni che emergono in tempi difficili.
Susana García Fernández