Come Raskol'nikov a San Pietroburgo

Giuseppe Ghini, soprannumerario dell'Opus Dei, professore ordinario di Slavistica all'Università degli studi di Urbino, padre di tre figli, racconta come riuscì a dare un senso alla propria vita.

Al secondo anno d'università – era il 1977 – fui colto da una profonda crisi. La causa più evidente era dovuta alla scelta della facoltà, una scelta decisamente sbagliata, estranea ai miei talenti e alla mia vocazione. Ma con il passaggio da Chimica a Lingue, alla fine del secondo anno, la mia situazione psicologica migliorò solo parzialmente: la crisi non passava.

Si trattava, infatti, di una crisi più profonda, una crisi “esistenziale”. Studiavo, leggevo a più non posso, ma tutto mi sembrava minato profondamente dal tarlo dell'inutilità. “Tutto è inutile – mi dicevo. La gente si occupa di cose da fare, riempie il tempo con affari di poco conto e perde di vista la cosa più necessaria: il senso della propria vita”. Tutto mi sembrava inautentico, apparenza vuota per colmare una mancanza di senso e l'affaccendarsi delle persone simile al brulicare insensato delle formiche intorno al formicaio...

Il passaggio a studi umanistici rese anzi più radicale l'esigenza di un significato: invece di lasciare questa ricerca ai margini dello studio, dopo le ore di laboratorio, l'avevo messa proprio al centro della mia vita, scegliendo lo studio della letteratura più esigente, più radicale, la letteratura delle “questioni maledette”, la letteratura russa dell'Ottocento e, soprattutto, Dostoevskij. La crisi esistenziale, pertanto, era diventata come l'oggetto della mia vita universitaria: giravo sotto i portici di Bologna, con la tristezza che doveva essere stata di Raskol'nikov a San Pietroburgo, con la sua stessa richiesta di un senso pieno, autentico, definitivo. Un senso che a nessun costo ero disposto a mettere da parte per piegarmi a una vita fatta di cose, di cose false, tutta apparenza.

Cambiando facoltà, conobbi anche una ragazza, anzi la “riconobbi”. La conoscevo da sempre, ma non avevo mai pensato che potesse essere la ragazza per me. “Tante donne sono belle – scriveva H. Böll in quegli anni -, anche più belle. Ma una sola ti gira il cuore”. E così era: quella ragazza mi “girò il cuore”. Quella ragazza, mia moglie, la riconobbi subito come una persona inviata dal cielo, dal Signore in persona per aiutarmi; non era questa la conclusione di un ragionamento, quanto piuttosto la precisa sensazione che il Signore non si era dimenticato di me e che il mio rivolgermi a Lui, ogni sera, cercando di prendere sonno, era stato accolto, esaudito.

Restava il problema del significato della mia vita, che mi faceva vivere “con i nervi scoperti”, sensibilissimi a tutto ciò che lasciava filtrare l'interiorità delle persone, la profondità dei miei fratelli su questa terra. Dato che venivo da una formazione cattolica, anche se non avevo una vita di preghiera, decisi di provare in quella direzione: mi iscrissi alla Facoltà di Teologia dei Domenicani, al corso serale. La mattina studiavo la letteratura russa, la sera studiavo teologia. Ma restava la netta impressione che le cose che facevo e studiavo invece di avvicinarmi al senso della vita, mi allontanassero dalla mia ricerca, dall'unica cosa necessaria. La crisi esistenziale non trovava risposta nello studio.

Una settimana prima della laurea mi invitarono a un ritiro. Per una circostanza casuale, anzi provvidenziale, ero entrato in contatto con un avvocato dell'Opera, che mi aveva invitato subito a un ritiro. Sulla panca della chiesa semibuia, dopo aver recitato uno dei primi rosari della mia vita, ascoltai le parole di un sacerdote, parole semplici, ma che sembravano rivolte proprio a me. Dandomi del “tu”, il sacerdote ripeteva le parole del fondatore dell’Opera, Josemaría Escrivá: “Tu che lavori nel mondo non devi condurre una specie di doppia vita: da una parte la vita interiore, la vita di relazione con Dio; dall'altra, come una cosa diversa e separata, la vita familiare, professionale e sociale. Al contrario, c'è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che deve essere santa e piena di Dio. La tua vocazione umana è parte della tua vocazione divina. Sei chiamato a santificare precisamente il tuo lavoro e il tuo ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i tuoi giorni, che è il tuo modo di essere presente nel mondo”.

Nella chiesa semibuia di s. Caterina, piansi. Il Signore si era ricordato di me una seconda volta: la mia vita non sarebbe stata piena di cose senza significato, non dovevo abbandonare la ricerca dell'unica cosa necessaria per piegarmi a una vita apparente e inautentica. Ogni cosa della mia giornata, anche quella apparentemente più insignificante, acquistava un senso umano e divino, un senso infinito. La vita cominciava.

Le luci di quella sera non hanno più cessato di illuminare la mia vita e quella della mia famiglia, i miei studi e i rapporti con i miei amici; quelle luci, anzi, hanno preso la forma di una vocazione a cui san Josemaría, di tanto in tanto, aggiunge un inconfondibile "zuccherino".