Angeli tra noi

Il percorso di Maria Grazia, dal lavoro giornaliero in ospedale alla cattedra in infermieristica al Campus Biomedico di Roma. Sempre dalla parte di chi soffre.

Grazia De Marinis conosce da vicino cosa sia la sofferenza già quando frequenta il liceo classico e ha la mamma che sta male. E poi quando lavora come infermiera e assiste tutti i giorni in ospedale pazienti con ferite e piaghe che la lasciano spesso con lo stomaco sottosopra. Fino ad arrivare anche a condividere il dolore di chi soffre. E a scoprire nello stesso tempo che l’infermiere non può offrire al malato niente di più oltre la naturale solidarietà, in quanto non ne ha gli strumenti, non sa che fare.

Certo, chi ha una forte fede religiosa, è in un certo senso facilitato: vede nel malato un altro Cristo. Ma tutti gli altri? Per loro sorge un problema di cultura, di formazione, di professionalità. Un problema di educazione. A che cosa? A svolgere innanzitutto bene il lavoro. Ad essere poi disponibili verso gli altri. E a vedere infine nel paziente una persona che va trattata come tale. Tanto più che è molto vulnerabile proprio perché malato. A volte è sufficiente regalare un sorriso.

Ricerca e assistenza sanitaria

E per realizzare proprio questo progetto la signora De Marinis compie il gran salto: lascia le corsie degli ospedali per le aule delle università. Da infermiera diventa insegnante dei futuri infermieri. All’università Campus biomedico di Roma. Quella dell’Opus Dei. La migliore d’Italia per accoglienza e qualità d’insegnamento, secondo l’inchiesta del giugno 2005 de Il Sole 24 Ore.

Il Campus biomedico sorge in via Longoni, quartiere Prenestina. Zona ovest di Roma. Due le facoltà. Quella di medicina e chirurgia con tre corsi di laurea: uno di sei anni per diventare medici con la possibilità di accedere alla ricerca avanzata in alcuni settori della medicina, uno di tre anni per ottenere la laurea in infermieristica, un altro di tre anni per la laurea in dietistica. La seconda è la facoltà di ingegneria da cui gli studenti escono laureati in ingegneria biomedica, professionisti che gestiscono le innovazioni nel campo degli strumenti per la diagnosi, la terapia la riabilitazione. Il numero è limitato: 75 studenti per medicina e chirurgia, 70 per il corso da infermiere, 20 per quello di dietista, 70 per ingegneria biomedica. Sono annessi alle due facoltà il Policlinico universitario con un centinaio di posti letto, il Poliambulatorio con i laboratori che viene chiamato “il bunker” per la radioterapia, dotato di una attrezzatura in grado di centrare solo il punto malato senza colpire le parti sane. La biblioteca ha 5 mila volumi.

Già questo quadro è sufficiente per comprendere il progetto nella sua completezza: creare un polo di sviluppo nella ricerca, nella didattica e nell’assistenza sanitaria in cui al centro dell’attenzione sia non solo la malattia ma soprattutto la persona stessa del malato. “La scienza e la medicina per l’uomo”, sintetizza Gianluca Lucignano, l’assistente del presidente Paolo Arullani. E’ frutto dell’insegnamento di Josemaría Escrivá: accettare cristianamente il dolore ma fare anche di tutto per lenirlo con la competenza medica. Diceva il fondatore dell’Opus Dei il quale, nei primi anni della sua attività sacerdotale, ha trascorso molto tempo negli ospedali spagnoli assistendo spiritualmente gli ammalati: “Il paziente è prima di tutto un uomo che soffre, una persona da curare bene, che ha la sua storia personale, il suo carattere, i suoi affetti e e le sue particolarità”. Chi soffre ha quindi bisogno di un aiuto a vivere bene il suo dolore e la cura più efficace per questo è fare in modo che il malato non avverta di essere trattato come uno dei tanti pazienti ma si senta unico. Anzi, sia l’unico. E lo sia per tutte le persone che ruotano attorno a lui, dal medico all’infermiere sino alle donne delle pulizie.

Originaria di Avezzano, in provincia de l’Aquila, papà agronomo e mamma casalinga, Maria Grazia De Marinis è del 1959, ha una sorella, frequenta nella cittadina abruzzese il liceo classico Alessandro Torlonia. E’ una bella ragazza, alta, capelli neri, lineamenti molto dolci. E in questi anni, profondamente segnati dalla malattia della madre, comincia ad avvertire sempre più forte il bisogno di rendersi utile. “Una necessità mia”, spiegherà. E così dopo il liceo va a Roma, si iscrive a medicina ma nello stesso tempo frequenta il corso di infermiera della Croce Rossa. E quando c’è il terremoto in Irpinia, lei va in quelle zone per due settimane.

Al capezzale della piccola rom

Il tempo sufficiente per capire come già il compito dell’infermiera possa soddisfare quel suo bisogno di essere disponibile agli altri. Lascia allora medicina, tanto più che viene assunta al centro tumori del Regina Elena. E lì continua il suo cammino nel mondo della sofferenza. Una sera, durante il turno di notte, si trova da sola di fronte ad una bambina rom di dodici anni. Sta morendo e attorno al suo capezzale non ha nessuno, nemmeno un parente. I medici hanno fatto quel che potevano ma se ne sono andati via, anche il sacerdote si è allontanato dopo avere impartito l’estrema unzione. Lei è l’unica che può rimanere accanto a quella bambina. E le tiene a lungo la mano nella mano. Finché la bambina sospira e muore. Sono le due del mattino. In quelle ore Maria Grazia si rende conto che la sua preparazione professionale è carente, almeno dal punto di vista psicologico: ha affrontato il momento drammatico della morte di quella piccola facendo solo ricorso alla sensibilità personale. E’ poco, ci vuole altro.

Così Maria Grazia, che oltre ad essere bella e dolce deve essere anche caparbia, decide nel 1982 di andarsene negli Stati Uniti. Va come infermiera visitatrice in un centro oncologico molto attrezzato del Nord Carolina, il Duke Hospital di Durham. E lì si rende conto della formazione ad alto livello esistente per gli infermieri, sono previsti master persino dottorati di ricerca. Qualche mese più tardi è di nuovo a Roma. Riprende a lavorare al Regina Elena, poi va alla clinica Salvator Mundi, quindi al Bambin Gesù. Frequenta vari corsi per essere prima caposala, poi assistente sanitaria, quindi dirigente dell’assistenza infermieristica, ma contemporaneamente si laurea alla Sapienza in pedagogia. L’idea, dirà, “era di capire come aiutare un infermiere a formarsi meglio in modo da affrontare adeguatamente i pazienti afflitti da una grande sofferenza”. Trova il tempo anche per pensare a se stessa: nel 1988 si sposa con Franco Pollera, oncologo al Regina Elena. Dal matrimonio nasceranno due figlie che la mamma definirà “splendide”: Martina e Camilla. Ma è nel 1993 che la De Marinis inizia la sua nuova attività universitaria al Campus biomedico dopo avere partecipato ad un corso di aggiornamento di cui è responsabile una neuropsichiatra molto nota, Paola Binetti. Una donna di grande intelligenza e umanità. La De Marinis rimane in particolare colpita per l’interesse che Paola Binetti mostra per la formazione del personale in un ospedale. Dirà: “Era la prima nel mondo sanitario italiano a parlare, a capire, a mostrare, la ricchezza che poteva scaturire da ogni singola persona che ruota all’interno del Campus, dal medico all’infermiere, dallo studente ai parenti dei pazienti”. Tutti hanno l’ideale comune di rendere l’ospedale un luogo dove il disagio fisico non sia visto come una disgrazia ma occasione di servizio all’uomo. E non si tratta di teoria. Una volta Monica Vitti, l’attrice, racconterà: “Ho compreso l’insegnamento di Escrivá dalla dolcezza, l’affetto e la professionalità con cui ho visto curare prima mia nipote e poi tutti gli altri pazienti da parte dei medici e degli infermieri del Campus biomedico. Ho capito che le persone vengono sempre prima di ogni cosa”.

Maria Grazia riconosce nelle parole della Binetti molte sue aspirazioni. E quando la neuropsichiatra le chiede se intende partecipare al questo progetto quasi rivoluzionario, lei accetta. Diventerà presidente del corso di laurea in infermieristica e docente di Infermieristica generale e clinica. E dedicherà agli studenti la stessa disponibilità che prima mostrava per i pazienti. La De Marinis si considera una laica. Ma una laica, aggiunge, “con fede”. Anzi, la fede è alla base della sua disponibilità verso gli altri. Verso i pazienti, verso gli studenti, verso la sua famiglia.

In trasferta da Viterbo

Così, quando di recente la figlia più piccola, che si stava preparando alla prima comunione, le ha chiesto di fare la catechista, lei ha detto subito di sì. Anche se questo le ha complicato un pò la vita. Già, perché dal 2000 il marito di Maria Grazia è diventato primario all’ospedale di Viterbo. Quindi tutta la famiglia ha lasciato Roma e si è trasferita. Conseguenza: ogni giorno lei deve stare un’ora e mezza alla guida dell’auto per arrivare la mattina da Viterbo al Campus e poi per ritornare nel pomeriggio a casa. “Fortuna che non sono legata al cartellino”, commenta.

Dal 2007 il Campus biomedico si trasferirà nella sede definitiva che sta sorgendo a Trigoria, alla porte di Roma, in una zona di sessanta ettari. Parte del terreno è dono di Alberto Sordi, l’attore. La sede comprenderà il polo didattico, il Policlinico universitario con 350 posti letto, il Centro di ricerche, il Centro geriatrico, le residenze per gli studenti. E’ già operativo il Centro per la salute dell’anziano, comprensivo del Poliambulatorio, di un servizio di terapia fisica e riabilitativa e il Day hospital neurologico, orientati particolarmente alla cura dei malati di Alzheimer. Ed in collaborazione con la Fondazione Alberto Sordi è già operativo un Centro diurno per anziani con 25 posti di degenza. In una stanza sono raccolti i premi ricevuti da Sordi nella sua carriera, in un’altra è stato ricostruito il salotto di casa dell’attore: potrà dare assistenza diurna ad una sessantina di anziani. Per tutto l’anno. Diceva Escrivá: “Che la tua vita non sia una vita sterile. Sii utile. Lascia traccia. Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore. Incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore”.

Articolo pubblicato su QN di Alberto Mazzucca