Abissale discesa di Dio

Molti pensano che l’umiltà significhi una menomazione della nostra umanità, rinuncia a progetti e traguardi professionali, soffocamento di ogni genialità; virtù di persone socialmente emarginate, e quindi tristi. Niente di più falso.

La vita di Gesù, figlio unigenito di Dio, narrata nei Vangeli, è una lezione di umiltà; chiunque voglia seguirlo deve impararla: «Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore» (Mt 11, 29). A san Paolo il compito di spiegare tale lezione: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo della condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 5-8).

Molti pensano che l’umiltà significhi una menomazione della nostra umanità, rinuncia a progetti e traguardi professionali, soffocamento di ogni genialità; virtù di persone socialmente emarginate, e quindi tristi. Niente di più falso. L’umiltà è una virtù squisitamente cristiana propria di chi è cosciente della sua connaturale debolezza umana e della sua condizione di peccatore, difficile da comprendere quando non si ha un corretto rapporto con Dio Creatore.

La consapevolezza di essere creatura implica il non poter sussistere se non nella relazione con il Creatore. Non a caso nei peccati contro la fede si nasconde tanta superbia. L’uomo ha assecondato la tentazione del serpente, ha voluto diventare come Dio; ha peccato di superbia. Per rialzarsi dalla sua caduta avrebbe bisogno di riconoscere e di amare la sua condizione di creatura, nonché le gravi conseguenze del peccato nella sua vita personale e nel mondo, uscito buono e bello dalle mani di Dio. Ed ecco che Dio si umilia, diventa simile agli uomini e guarisce la nostra superbia: mistero dell’Incarnazione redentrice. «Imparate da me», «Vi ho dato un esempio» (Gv 13, 15), ci dice Gesù dalla singolare cattedra di Betlemme e dal Cenacolo. «Da me», che mi son fatto creatura indigente, sottomesso a Giuseppe e Maria, che mi sono abbassato per lavare le vostre impudicizie e fatto carico di tutte le conseguenze dei vostri peccati consegnandomi liberamente all’umiliazione della passione e morte di croce.

Gesù ci parla con la sua vita. Più che parlare preferisce agire, consegnarsi totalmente a noi. San Pietro lo esprime bene quando dice di Gesù che passò in mezzo agli uomini facendo del bene (At 10, 38), dando la precedenza al fare sull’insegnare, leggiamo negli Atti (1, 1). Nessuna distanza si dà in Lui tra ciò che dice e ciò che è e fa. Il suo linguaggio semplice, diretto e per niente ricercato, è verace, suscettibile di essere compreso in tutte le lingue e culture. Gesù non formula teorie, non si perde in sofismi, viene a trasformare il mondo con il suo abbassamento, a redimerci e innalzarci.

La mangiatoia & il Cenacolo

La mangiatoia e le fasce di Betlemme, che l’eretico Marcione giudicava «vergognose» e indegne di un Dio da adorare, come i bacili e gli asciugatoi, ugualmente vergognosi, del Cenacolo, costituiscono per ogni cristiano un forte richiamo alla pratica dell’umiltà.

Nella stalla di Betlemme sono ammessi soltanto gli umili pastori che nelle vicinanze custodivano i loro greggi. Per riconoscere nel Bambino il Figlio di Dio, umiltà chiama umiltà. Non ci lasciamo ingannare da considerazioni bucoliche; essere pastori, per il loro tipo di vita errabonda, poco igienica e solitaria, non rende particolarmente attraenti; semmai suscitano diffidenza e disprezzo. Questo tipo di gente ha adorato per primo il Dio Bambino al posto di tutti noi. E non si sono limitati ad adorarlo, sono stati i primi testimoni del mistero dell’Incarnazione.

La celebrazione cristiana del Natale ci faccia gioiosi banditori con la parola e con l’esempio della presenza di Dio in mezzo a noi. San Josemaría, nella sua meditazione natalizia dal titolo significativo Il trionfo di Cristo nell’umiltà, può servire di guida per comprendere ciò che significa per noi il modo di presentarsi di Dio al mondo: «Mi piace contemplare le immagini di Gesù Bambino che rappresentano il Signore nel suo annientamento, mi ricordano che Dio ci chiama, che l’Onnipotente ha voluto presentarsi a noi indifeso, come bisognoso degli uomini. Dalla culla di Betlemme Gesù dice a me e a te che ha bisogno di noi; ci sollecita a una vita cristiana senza compromessi, a una vita di donazione, di lavoro, di gioia; non imitiamo davvero Gesù Cristo se non lo seguiamo nell’umiltà. La forza redentrice della nostra vita sarà efficace, pertanto, se c’è umiltà, solo quando smetteremo di pensare a noi stessi e sentiremo la responsabilità di aiutare gli altri» (cfr È Gesù che passa, n. 18).

Se fossimo umili come i pastori, riconosceremmo nel bambino adagiato nella mangiatoia il nostro Salvatore, e arriveremmo a conoscerci meglio fino a scoprire tante forme di superbia che san Josemaría non manca di esemplificare: «Sentirsi al centro dell’attenzione degli altri, la preoccupazione di fare bella figura, il non rassegnarsi a fare il bene senza farlo vedere, l’ansia per la propria sicurezza».

Dio ci viene incontro nell’umiltà perché ci sia possibile avvicinarlo e seguirlo. Il racconto di san Luca che ascoltiamo nella Messa di Natale non si può scambiare per una bella favola, ma nemmeno rimpicciolire e fraintendere a forza di considerazioni sdolcinate che tolgono incisività e vigore al racconto evangelico. Il Dio umile nasce in una stalla, in una grotta, in luoghi luridi, che forse Giuseppe avrà avuto bisogno di ripulire per bene. E noi, invece, tanto schizzinosi e sofisticati!

Il Natale di Gesù ci dà la capacità di diventare bambini e di incominciare umilmente a realizzare tutte le possibilità di un figlio di Dio, la pienezza di umanità immaginata da Dio Creatore e Redentore per ognuno di noi. La vita di infanzia che Gesù ci propone non toglie nulla alla nostra umanità, ma anzi la innalza e la divinizza. È stato detto: se Dio si è fatto uomo, essere uomo è la cosa più grande che ci sia.

Adesso, come ai tempi di Gesù, abbondano potenza, dominio, violenza. Gli apostoli ne sono lambiti, proprio nel Cenacolo. Gesù non si limita a denunciare e a premunire dall’orgoglio tutti i suoi discepoli fino alla fine dei tempi: «Fonda», come dice Romano Guardini, «la possibilità di essere cristiani; mostra che cosa ciò significa, e ne dà la forza per praticarlo». Gesù ammonisce amichevolmente gli apostoli nell’intimità dell’ultima cena: «I re delle nazioni le governano e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra di voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 25-28).

Dal dire al fare. Gesù compie un lavoro da schiavi: lava i piedi dei commensali e dà la totale spiegazione del suo gesto: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 12-15).

La lavanda dei piedi degli apostoli è un’anticipazione di tutto ciò che sarà l’imminente umiliazione della passione e morte redentrice di Gesù. Gesù evidenzia con tale gesto, diceva Benedetto XVI in un’omelia del Giovedì Santo, ciò che descrive l’inno cristologico di san Paolo nella Lettera ai Filippesi già citata. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge con il panno dell’umanità e si fa schiavo. Ascoltiamo ancora Guardini: «L’umiltà non scaturisce nell’uomo. La sua via non decorre dal basso all’alto, ma dall’altezza discende. Umile si fa solo il grande che si china di fronte al piccolo. Agli occhi di tale persona, la “piccolezza” ha una misteriosa dignità. Il fatto che la veda, la innalzi e si pieghi di fronte a essa, è umiltà. Essa scaturisce in Dio e si dirige alla creatura. Mistero grande! L’Incarnazione è fondamentale umiltà».

Michelangelo Peláez

Studi Cattolici