A partire dalla religiosità popolare

Riportiamo l'articolo "A partire dalla religiosità popolare. Una riflessione su San Josemaría Escrivá de Balaguer", del giornalista uruguaiano Alberto Methol Ferré, pubblicato sul n. 31-32 della Revista Soleriana.

Alberto Methol Ferré

Riportiamo l'articolo "A partire dalla religiosità popolare. Una riflessione su San Josemaría Escrivá de Balaguer", del giornalista uruguaiano Alberto Methol Ferré, pubblicato sul n. 31-32 della Revista Soleriana.

Per percepire chi è Padre Josemaría Escrivá basta entrare in contatto con le persone coinvolte nel suo apostolato, impregnato della sua visione dell'attività cristiana nel mondo. Nella mia esperienza, questo contatto è relativamente recente, nuovo, in una vita che, senza essere ancora troppo estesa, è lungi dall'essere breve.

Una prima familiarità

Ho seguito con attenzione l'evoluzione di diversi cammini nella Chiesa Cattolica. Stranamente, avevo solo notizie vaghe dell'Opus Dei, diverse e contraddittorie. Solo poco tempo fa ho avuto un contatto personale diretto con questo mondo. O meglio, con uno degli ormai numerosi "mondi" che padre Escrivá ha generato.

Alcuni mesi fa fui invitato a presentare un libro di ricordi di padre Josemaría Escrivá. Per me fu una sorpresa, ma è bello far fronte alle sorprese, facendo il proprio meglio. Raggiunsi quindi una "prima familiarità" con Mons. Escrivá e ne trassi una riflessione ad alta voce nell'auditorio dell'Università di Montevideo, che riprendo ora per iscritto.

Questa prima familiarità ha due aspetti per me molto importanti che cercherò di descrivere brevemente. Prima di tutto, ho compreso che la figura di padre Josemaría Escrivá si radica nella religiosità plurisecolare e comune del popolo cattolico. Ed è a partire da essa e per mezzo di essa che il suo messaggio raggiunse piena universalità.

Sono un convertito, e in certo senso un tipico uruguaiano, figlio dell'Illuminismo, in linea di principio agli antipodi della religiosità popolare

A questa familiarità sono arrivato per contrasto. Sono un convertito, e in certo senso un tipico uruguaiano, figlio dell'Illuminismo, in linea di principio agli antipodi della religiosità popolare. Tuttavia la mia conversione alla Chiesa e l'esperienza decisiva, commovente e rinnovatrice del Concilio Vaticano II, hanno operato il cambiamento. In questo gigantesco salto storico, ho scoperto la religiosità popolare quando altri fratelli volevano sbarazzarsene. Non fu durante il Concilio (1962-1965), ma nell'immediato post-concilio, che la "religiosità popolare" cominciò ad essere messa violentemente in questione dall'irruzione inattesa di "teologie della secolarizzazione" che imperversavano e rendevano il mondo sempre più mondano, relegando la fede in un limbo spirituale, disincarnato. Un dualismo insostenibile. Questa ondata di secolarizzazione impedì che la fede avesse espressioni "di massa", "popolari", considerate alienanti: si ammettevano solo "piccole comunità" di élites personalizzate. Si produsse così una "iconoclastia" generalizzata: nell'intento di purificazione e per risolvere crisi personali si gettò via quello che il popolo cattolico venerava da secoli. L'arte barocca latino-americana fu abbandonata o venduta a un prezzo bassissimo in molti luoghi.

L'ecclesiologia della Lumen Gentium, la Costituzione Dogmatica sul popolo di Dio, è il cuore del Vaticano II. E dove sta il "popolo di Dio" nella sua immensa maggioranza, se non in coloro che condividono una religiosità cristiana popolare? Quelli che non erano figli della religiosità popolare erano minoranza nella Chiesa. Il popolo di Dio, quello vero, si identifica praticamente e simbolicamente con la religiosità popolare. Questo venne ignorato e, in nome di un astratto "Popolo di Dio" rinnovato, si volle porre fine alla religiosità popolare. Fu una manifestazione di élites senza popolo, angosciate, impazienti. In realtà, oggi questo può essere considerato come un movimento relativamente breve, date le dimensioni delle novità del Vaticano II, che scuotevano tutti e che continueranno a maturare in questo terzo millennio: il fenomeno durò approssimativamente dal '66 all'80, circa 15 anni. D'altra parte, tra gli anni 1970 e 1985 si assistette a una riflessione e a studi senza eguali sulla storia della Chiesa, sulle forme e il senso della religione popolare, e da questo venne un gran bene. Si comprende che padre Escrivá sentisse dolorosamente l'aggressione alla pietà popolare. Fu forse la sua ultima battaglia al servizio del popolo cristiano e del Vaticano II.

La religiosità popolare

In quell'epoca, con un gruppo di amici di Rio della Plata, al CELAM, partecipai alla rivendicazione della religiosità popolare in America latina. Eravamo solo una parte di una grande onda ecclesiale invisibile il cui primo sbocco fu il sinodo del 1974, che sarebbe culminato nella Evangelii Nuntiandi di Paolo VI nel 1975. Quest'enciclica, che fu la migliore sintesi del Concilio Vaticano II, aprì la strada al pontificato di Giovanni Paolo II, il cui inizio fu la base della più significativa Conferenza Episcopale Latino-americana, tenutasi a Puebla nel 1979. Tutta questa lotta si iscrisse, come si può vedere, nel prolungamento dell'ultimo contributo di Mons. Escrivá alla Chiesa.

Escrivá, da quel personaggio singolare che era, diceva che non poteva aspettare il possibile; doveva compiere la vocazione alla quale Dio lo aveva chiamato, iniziare un cammino che ancora non si era aperto.

È nel quadro di questa "religiosità popolare" che, da Barbastro a Madrid, padre Josemaría Escrivá trova la sua vocazione nel 1928, quando comprende che il lavoro onesto della vita quotidiana è un cammino di santificazione personale e altrui. È l'inizio di un fecondo apostolato. Questa ispirazione straordinaria di padre Escrivá non aveva ancora una base teologica che la sostenesse. Non mancava solamente un'attualizzazione del diritto canonico, ma non c'era neppure un ecclesiologia del popolo di Dio. Escrivá, da quel personaggio singolare che era, diceva che non poteva aspettare il possibile; doveva compiere la vocazione alla quale Dio lo aveva chiamato, iniziare un cammino che ancora non si era aperto.

Questo lo vediamo con più chiarezza adesso: una vasta e approfondita preparazione del Concilio Vaticano II iniziò più o meno a partire dagli anni '20. La si apprezza nelle progressive e crescenti "convergenze" ecclesiali, che neppure si conoscono tra di loro. Tuttavia, nel 1930, si era ancora lungi dal comprendere in profondità il messaggio di Josemaría Escrivá. Era il tempo dell'Azione Cattolica, una sopravvivenza militante che puntava al di là di se stessa, al suo proprio superamento. La Provvidenza muove la storia in profondità e nel silenzio.

Mi rendo conto adesso che la teologia adeguata per comprendere l'ispirazione di padre Escrivá è quella della Lumen Gentium. È essa infatti che stabilisce che l'evangelizzazione e la responsabilità dell'evangelizzazione sono compito del popolo di Dio nel suo insieme, di tutti e di ciascuno, nella loro libertà e nel loro lavoro, laici e sacerdoti. O meglio, a partire dal sacerdozio comune dei fedeli e dal sacerdozio ministeriale dei preti.

Josemaría Escrivá con Giovanni XXIII, il Papa que convocò il Concilio Vaticano II

C'è una trilogia di base: santificazione, popolo missionario, lavoro. La santificazione coniuga popolo e lavoro. Escrivá parla della santificazione del popolo di Dio attraverso il lavoro. Dal 1938 cominciarono a sorgere le "teologie del lavoro", che si sarebbero estese largamente, fino alla Laborem Exercens di Giovanni Paolo II del 1981. Padre Escrivá cominciò a percorrere penombre luminose, per questo molto fertili; e così fecero anche molti altri, senza poter neppure immaginare lo straordinario risultato, che questa insolita condensazione avrebbe portato al Concilio Vaticano II. Padre Escrivá diceva che lo straordinario che si attende da un cristiano comune è l'ordinario: l'ordinario, però, fatto con perfezione. Questa è la chiamata universale alla santità. Appoggiato sulla profondità del quotidiano che il popolo cristiano aveva sviluppato per secoli, egli poté introdurre la novità di esplicitare quello che era implicito nella Chiesa: la santificazione universale attraverso il lavoro comune. Questa "rivoluzione" poteva basarsi solo sul nocciolo sostanziale della religiosità popolare. Si trattava di riprendere dal Vangelo l'invito a rendere straordinario l'ordinario sulla strada della perfezione che Dio chiede a tutti. Ciò che padre Escrivá ci insegna si può compendiare nel sorridere sempre, passando sopra - anche con eleganza umana - alle cose che molestano, che danno fastidio: essere generosi senza misura. In una parola, fare della nostra vita comune un'orazione.

Alcune polemiche sull'Opus Dei

Verso la fine degli anni '60 arrivarono fino in Uruguay gli echi di alcune polemiche scatenate sull'Opus Dei, precisamente in Spagna. In queste circostanze, non conoscendo lo spirito che animava l'Opera fondata da padre Escrivá, pensai che poteva trattarsi di un adattamento della borghesia catalana alle nuove condizioni storiche, qualcosa come quello che fecero i puritani quattro secoli prima con il loro "culto del lavoro". Tuttavia allora non avevo capito. Ora sono in grado di farlo.

Quando cercavo di familiarizzarmi con quell'ideale che padre Josemaría Escrivá esprimeva così semplicemente - facendogli posto nella mia intimità -, mi venne in mente una costellazione di "affinità" elaborate in molti decenni di cammino. Ebbi un ricordo lontano e amato dell'impatto che ebbero su di me - anni prima - due opere di Ramiro de Maeztu: Don Chisciotte, Don Giovanni e la Celestina e Nordamerica dentro. Tutt'e due i testi sono del 1925; il secondo è un insieme di articoli di giornale ispirati dalla visita che Maeztu fece negli Stati Uniti nel 1925. La raccolta fu pubblicata nel 1957, quando io potei leggerla. In quest'opera, lo scrittore spagnolo affronta il tema dell'etica del lavoro tra i nordamericani. De Maeztu osservò il dinamismo straordinario degli statunitensi e lo mise in relazione con il culto puritano del lavoro, anche se percepì che il suo fondamento teologico calvinista sopravviveva appena in una dinamica secolarizzata. La cosa importante è che de Maeztu avvertì la necessità di riprendere in termini cattolici la trascendenza del lavoro umano. L'autore spagnolo proponeva di mettere fine a quella specie di eredità "anti-mondana" dell'ascetica cristiana tradizionale, pur rifiutando come inaccettabile il fondamento calvinista che aveva osservato nel dinamismo secolarizzato degli Stati Uniti. La sua idea era quella di dare un nuovo fondamento al lavoro in chiave cristiana, offrire una "visione sacramentale del lavoro".

Maeztu dice cose importanti nei due libri citati. Per questo non le ho mai dimenticate, anche se neppure mi proposi – allora - di seguire il filo del suo ragionamento. Non so se Maeztu e Escrivá si conobbero; non so se ci fu alcuna relazione tra loro; quello che voglio segnalare qui è che Maeztu pose questa questione in quanto cattolico e intellettuale, come fece anche José Enrique Rodó, incalzato dal nuovo schema del potere mondiale e della supremazia anglosassone. Tuttavia, Maeztu non ha aperto con quest'idea una nuova prassi nella vita della Chiesa. Non glielo possiamo chiedere. Maeztu continuò la sua strada spinto dalle questioni politiche in cui si dibatteva la Spagna in quel momento. Come dice il proverbio "dal dire al fare c'è di mezzo il mare".

Questo enorme divario lo coprì padre Escrivá, partendo da molte altre strade ed esperienze. Egli si pone la questione a partire dalla religiosità popolare, perché si era dedicato al servizio dei più poveri e all'apostolato con gli studenti, qualcosa di inimmaginabile per Maeztu. Certamente padre Escrivá fu uno studioso eccellente, laureato in Diritto, Canonista e dottore in Teologia, ma non si staccò dalla sua base, che era la fede del popolo cristiano. Di essa era impregnata la sua vita più intima, le cui necessità doveva soddisfare. È a partire da essa che imposta la sua risposta a quello che Dio gli fa vedere con l'Opus Dei. Questa è la prima prospettiva aperta dalla mia familiarità con lui.

La personalità di padre Josemaría Escrivá mi ha fatto pensare anche a padre José Kentenich, uno straordinario apostolo tedesco, a sua volta radicato nella religiosità popolare. Dal 1944, prigioniero nel campo di concentramento di Dachau, egli intravvide l'universalità della sua "Opera di Schoenstatt" come germe di una rete mondiale di santuari Mariani, luoghi di riunioni incessanti della Chiesa Cattolica in quanto "popolo" (famiglia).

Santuari Mariani

San Josemaría durante una tertulia

Negli ultimi anni della sua vita, per riaffermare la sua fede di fronte alla tempesta del secolarismo ostile alla religione popolare -che include l'immensa moltitudine dei più poveri-, padre Escrivá si sposta per i principali santuari Mariani, da Lourdes e Fatima alla villa di Guadalupe in Messico. I suoi viaggi in America Latina sono pieni di amore alla Madre del Cielo. Uno degli ultimi atti di padre Escrivá sarà l'inaugurazione del Santuario Mariano di Torreciudad nel 1975.

È significativo questo legame profondo con ciò che nella Chiesa è più popolare, in colui che sarebbe stata la prima vocazione pratica e moderna, anticipatrice della Costituzione Apostolica Lumen Gentium. Questo rappresenta per me padre Escrivá. Non è un caso se dovette andare a tentoni per tanti anni, dopo la chiamata divina nel 1928, prima della sintesi piena che fu raggiunta nel Concilio, e che fa di lui uno dei grandi precursori del Concilio Vaticano II. Padre Escrivá vede accettata la sua ecclesiologia quando la Chiesa la assume nella Lumen Gentium.

L'universalità della sua proposta: santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro, santificare gli altri con il lavoro, promana dall'universalità stessa della religiosità popolare. Non stupisce affatto che, fin dagli inizi, Escrivá sentisse che la sua missione era mondiale, che andava ben oltre la Spagna. La sua innovazione è divenuta totalmente universale, anche se in modo nascosto.

Quanto al secondo aspetto della familiarità di cui parlavo all'inizio, non arrivò per contrasto come nel caso precedente. Al contrario, ho sentito l'impatto di un'affinità radicale. Mi riferisco alla sua "gioia di vivere". Quando conobbi la sua vita mi dissi: è un personaggio di Chesterton. E devo spiegare, perché si comprenda questa affermazione, che quando cito lo scrittore inglese evoco qualcosa di molto importante nella mia vita: ho sempre detto che Chesterton e la sua opera furono fattori di mediazione nella mia conversione a Gesù Cristo e alla sua Chiesa.

Aristotele dice che l'età dei giovani è quella della poesia e della metafisica, della meraviglia di essere e di non essere, degli interrogativi ultimi sul senso delle cose. Il giovane, invece, non è ancora adatto per la politica, che richiede una vasta esperienza sociale. Il giovane, generalmente, è un rustico dal punto di vista politico, ma un grande metafisico e poeta. Chesterton fu per me, nella tappa della gioventù, un esempio al di là dell'illuminismo. Fu lui che mi incamminò verso la grande esperienza dell'atto di essere come gratitudine, prima di qualsiasi altra cosa. L'esistere è un dono, un regalo, una grazia; la fede pure è questo. La creazione e la salvezza costituiscono doni di Dio all'uomo, che per questo prova gratitudine. Io sono divenuto religioso per gratitudine.

Un'allegria sostanziale

La Chiesa che Chesterton mi ha rivelato è una Chiesa di allegria sostanziale

Questa immensa gratitudine produce un'allegria sostanziale, che solo lo splendore e la bellezza di esistere - di vivere -, così straordinarie, possono generare. Confesso, a più di settant'anni, che non mi sono mai abituato al fatto di vivere; non mi sono mai abituato. Questo provoca un particolare buonumore. La Chiesa che Chesterton mi ha rivelato è una Chiesa di allegria sostanziale. Ho spiegato qui il secondo aspetto della mia familiarità: padre Escrivá era un formidabile "Chestertoniano", se si può dire così; incarnò un nuovo stile di spiritualità nella Chiesa, perché non era un personaggio romanzesco, ma un essere reale, un uomo in carne e ossa, un figlio del suo tempo. Non ci sarà più un Kempis dell'autunno del medioevo, e tanto meno le forme molteplici di giansenismo che la Chiesa ha vissuto oltre al giansenismo in senso stretto; non c'è più posto per un'ascetica che nega il mondo. Al suo posto, padre Escrivá offre un'ascetica gioviale: il dolore è trasceso dall'allegria di essere, la croce si tramuta in speranza e l'amore è alla base di tutto.

Lo spirito dell'Opera che Dio propose al fondatore dell'Opus Dei si sintetizza nel titolo di una delle sue omelie più importanti: "Amare il mondo appassionatamente". Con queste poche parole si dà impulso a un nuovo modo di vedere le cose di sempre, un'ascetica sorridente che ci porta in cielo. Così, in un secolo aperto da Chesterton e Péguy, nel quale brilla Von Balthasar e appare Giovanni Paolo II, padre Josemaría Escrivá costituisce un pilastro del vasto e ammirabile edificio aperto verso l'avvenire, che è la Chiesa.

Un libro di Pilar Urbano su padre Escrivá inizia con un paragrafo che stupisce il lettore quando lo trova per la prima volta. Ma, man mano che egli va comprendendo un po' la vita e il messaggio del fondatore dell'Opus Dei, si comprende il senso della citazione. L'affermazione è questa: "Nietszche diceva che poteva credere solo in un Dio che sapesse ballare. Io conosco un uomo che ballava con Dio". Faccio di questo paragrafo la mia conclusione.

*Alberto René Methol Ferré (Montevideo, 31 marzo 1929 - 15 novembre 2009), intellettuale, scrittore, giornalista, docente di storia e filosofia, storico, filosofo e teologo uruguaiano.