Insegnaci a pregare. Spiegaci la parabola. Mostraci il Padre. Sono tre richieste che gli apostoli rivolgono a Gesù Cristo e che i Vangeli riportano. La familiarità con cui si esprimono contrasta con l’angoscia che manifesta il profeta Abacuc nella prima lettura di questa domenica. Il profeta si rivolge con una domanda in forma di lamento: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: "Violenza!" e non salvi?» (Ab 1,2). Il suo sconforto contrasta con l’audacia degli apostoli che chiedono in forma imperativa: insegnaci, spiegaci, mostraci.
Anche noi possiamo avvicinarci al Signore con quella fiducia e attendere con serenità la sua risposta, senza lasciarci prendere da angosce affrettate che, più che nascere dalla speranza sicura di chi sa che Dio ha ascoltato la sua preghiera, scaturiscono da una certa disperazione, come se Lui non ci ascoltasse. Non spetta a noi verificare quale sia la risposta di Dio, abitualmente diversa da ciò che uno potrebbe aspettarsi. « La preghiera ha il suo centro e affonda le sue radici nel più profondo della persona; perciò non è facilmente decifrabile e, per lo stesso motivo, può essere soggetta a fraintendimenti e a mistificazioni. Anche in questo senso possiamo intendere l’espressione: pregare è difficile. Infatti, la preghiera è il luogo per eccellenza della gratuità, della tensione verso l’Invisibile, l’Inatteso e l’Ineffabile. Perciò, l’esperienza della preghiera è per tutti una sfida, una “grazia” da invocare, un dono di Colui al quale ci rivolgiamo»[1].
Il Vangelo di oggi riporta un’altra richiesta dei discepoli al Maestro: «Accresci in noi la fede». E ascoltiamo la sorprendente risposta del Signore: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Ancora una volta, la sapienza divina non si piega a una risposta da manuale, ma si dispiega nella novità di una proposta trasformante. Ogni volta che preghiamo, ogni volta che chiediamo al Signore, egli ci ascolta e, se la richiesta è sincera, ci risponde. Ma non con larisposta che noi possiamo aspettarci, bensì con quellacon cui egli desidera trasformarci. «La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno»[2].
Un seme di senape è piccolo e fragile, ma racchiude dentro di sé una forza silenziosa che lo farà crescere e diventare un grande albero. Allo stesso modo, forse nella nostra vita conosciamo molte persone che sono come semi di senape: gente semplice, umile, che non attira l’attenzione, ma la cui fede salda e perseverante permette loro di attraversare prove difficili senza perdere la speranza né l’amore. Non si vantano tanto dei propri meriti o capacità, perché sanno che tutto lo hanno ricevuto da Dio. Anzi, si limitano a dire ciò che insegna Gesù nel Vangelo: «Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare». «E così è il Regno di Dio: una realtà umanamente piccola, composta da chi è povero nel cuore, da chi non confida nella propria forza, ma in quella dell’amore di Dio, da chi non è importante agli occhi del mondo; eppure proprio attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è apparentemente insignificante»[3].
Un uomo di fede non pretende di imporre a Dio i propri piani né di costringerlo ad agire secondo le sue aspettative umane. Sa che la sua visione è limitata, che i suoi desideri possono essere segnati dal peccato, e per questo non vi si aggrappa come se fossero assoluti. Il suo atteggiamento assomiglia a quello di un servo fedele: rimane attento alla voce del suo Signore, disposto a obbedire, ad attendere e ad agire quando sarà necessario. Riconosce che la sua grandezza, che tutto ciò che dà senso alla sua esistenza, risiede nel sapere di essere amato e sostenuto da Dio. «La fede paragonabile al granello di senape è una fede che non è superba e sicura di sé (…). È una fede che nella sua umiltà sente un grande bisogno di Dio e nella piccolezza si abbandona a Lui con piena fiducia. È la fede che ci dà la capacità di guardare con speranza le vicende alterne della vita, che ci aiuta ad accettare anche le sconfitte, le sofferenze, nella consapevolezza che il male non ha mai, non avrà mai, l’ultima parola»[4].
«La fede è innanzi tutto una adesione personale dell'uomo a Dio»[5]. Tuttavia, come esseri umani limitati, non viviamo sempre questa adesione con la costanza e la pienezza che desidereremmo. La nostra ricerca di Dio è talvolta interrotta da distrazioni, debolezze o stanchezza. San Josemaría lo esprimeva con sincerità in una delle sue lettere: «La sintesi di ogni mia fine giornata, quando faccio l’esame di coscienza, è pauper servus et humilis. Questo quando non sono costretto a dire: Josemaría, il Signore non è contento di Josemaría. Tuttavia, giacché l’umiltà è verità, penso spesso, come capita anche a voi: Signore, ma se ho pensato solo a Te e, per Te, mi sono dedicato solo a lavorare per gli altri! Allora la nostra anima contemplativa esclama con l’Apostolo: vivo autem iam non ego: vivit vero in me Christus; non vivo più io, ma Cristo vive in me»[6].
Spesso anche a noi capita qualcosa di simile: la giornata trascorre tra molteplici occupazioni – l’attenzione alla famiglia, il lavoro professionale, gli imprevisti della giornata – e, giunta la sera, ci assale l’impressione di non essere stati del tutto all’altezza. Forse pensiamo che avremmo potuto pregare meglio, amare di più, servire con maggiore generosità. E forse è vero. Ma può anche darsi, come diceva san Josemaría, che senza rendercene conto abbiamo vissuto protesi verso Dio e verso gli altri, cercando di identificarci con Cristo, che «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mt 20,28). Questa è, in fondo, la gioia del servo umile: aver trascorso la sua giornata – tra luci e ombre – donandosi al suo Signore, come ha fatto nostra Madre: «Guardate Maria. Mai creatura si è data con più umiltà alla volontà di Dio. L'umiltà dell'ancilla Domini (Lc 1, 38), della serva del Signore, è il motivo per cui l'invochiamo come causa nostrae laetitiae, causa della nostra gioia. Eva, dopo aver peccato, per volere nella sua follia farsi simile a Dio, si nascondeva davanti al Signore, piena di vergogna: era triste. Maria, proclamandosi serva del Signore, diviene Madre del Verbo divino, e si riempie di letizia. Che la sua gioia di Madre buona metta radici in noi tutti; cerchiamo, come figli, di assomigliarle, e così assomiglieremo di più a Cristo»[7].
[1] Benedetto XVI, Udienza, 11-V-2011.
[2] Francesco, Lumen Fidei, n. 13.
[3] Benedetto XVI, Angelus, 17-VI-2012.
[4] Francesco, Angelus, 6-X-2019.
[5] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 150.
[6] San Josemaría, Lettera 3, n. 90.
[7] San Josemaría, Amici di Dio, n. 109.

