Dal 27 novembre al 2 dicembre 2025 papa Leone si recherà in Turchia e Libano per un viaggio apostolico. In questo articolo, aggiornato quotidianamente, verranno raccolti i suoi discorsi e omelie.
Giovedì 27 novembre 2025 (Ankara)
- Incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico
Venerdì 28 novembre 2025 (Istanbul- İznik)
Sabato 29 novembre 2025 (Istanbul)
- Doxologia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio
- Santa Messa nella “Volkswagen Arena”
Domenica 30 novembre 2025 (Istanbul- Beirut)
- Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio
- Incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico di Beirut
Lunedì 1 dicembre 2025 (Annaya - Harissa - Beirut - Bkerké)
- Visita e preghiera sulla tomba di san Charbel Maklūf presso il Monastero di San Maroun ad Annaya
- Incontro ecumenico e interreligioso in Piazza dei Martiri a Beirut
- Incontro con i giovani nel piazzale antistante il Patriarcato di Antiochia dei Maroniti a Bkerké
Martedì 2 dicembre 2025 (Jal ed Dib - Beirut)
- Visita agli operatori e assistiti dell’Ospedale “De la Croix” a Jal ed Dib
- Santa Messa presso il "Beirut Waterfront"
- Cerimonia di congedo presso l'Aeroporto Internazionale di Beirut
Incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico
Signor Presidente,
distinte Autorità e membri del Corpo Diplomatico,
Signore e Signori!
Grazie di cuore per la cortese accoglienza! Sono lieto di iniziare dal vostro Paese i viaggi apostolici del mio pontificato, dal momento che questa terra è legata inscindibilmente alle origini del cristianesimo e oggi richiama i figli di Abramo e l’umanità intera a una fraternità che riconosca e apprezzi le differenze.
La bellezza naturale del vostro Paese ci sollecita a custodire la creazione di Dio. Più ancora, la ricchezza culturale, artistica e spirituale dei luoghi che abitate ci ricorda che nell’incontro fra generazioni, tradizioni e idee diverse prendono forma le grandi civiltà, nelle quali sviluppo e sapienza si compongono in unità. È vero, il nostro mondo ha alle spalle secoli di conflitti e attorno a noi esso è ancora destabilizzato da ambizioni e decisioni che calpestano la giustizia e la pace. Tuttavia, davanti alle sfide che ci interpellano, essere un popolo dal grande passato rappresenta un dono e una responsabilità.
L’immagine del ponte sullo Stretto dei Dardanelli, scelta come emblema di questo mio viaggio, esprime con efficacia il ruolo speciale del vostro Paese. Voi avete un posto importante nel presente e nel futuro del Mediterraneo e del mondo intero, anzitutto valorizzando le vostre interne diversità. Prima di collegare Asia ed Europa, Oriente e Occidente, infatti, quel ponte lega la Türkiye a sé stessa, ne compone le parti e così ne fa, per così dire, dall’interno un crocevia di sensibilità, che omologare rappresenterebbe un impoverimento. Una società, infatti, è viva se è plurale: sono i ponti fra le sue diverse anime a renderla una società civile. Oggi le comunità umane sono sempre più polarizzate e lacerate da posizioni estreme, che le frantumano.
Desidero assicurare che all’unità del vostro Paese intendono contribuire positivamente anche i cristiani, che sono e si sentono parte dell’identità turca, tanto apprezzata da San Giovanni XXIII, da voi ricordato come il “Papa turco” per la profonda amicizia che lo legò sempre al vostro popolo. Egli, che fu Amministratore del Vicariato Latino di Istanbul e Delegato Apostolico in Türkiye e Grecia dal 1935 al 1945, si adoperò intensamente affinché i cattolici non si estraniassero dalla costruzione della vostra nuova Repubblica. «Ecco – scriveva in quegli anni –, noi cattolici latini di Istanbul, e cattolici di altro rito: armeno, greco, caldeo, siriano, ecc. siamo qui una modesta minoranza che vive alla superficie di un vasto mondo con cui abbiamo solo contatti di carattere esteriore. Noi amiamo distinguerci da chi non professa la nostra fede: fratelli ortodossi, protestanti, israeliti, musulmani, credenti o non credenti di altre religioni […]. Pare logico che ciascuno si occupi di sé, della sua tradizione familiare o nazionale, tenendosi serrato entro il cerchio limitato della propria consorteria […]. Miei cari fratelli e figliuoli: io debbo dirvi che nella luce del Vangelo e del principio cattolico, questa è una logica falsa» [1]. Da allora, indubbiamente, grandi passi avanti sono stati fatti in seno alla Chiesa e nella vostra società, ma quelle parole sprigionano ancora molta luce e continuano a ispirare una logica evangelica e più vera, che Papa Francesco ha definito “cultura dell’incontro”.
Dal cuore del Mediterraneo, infatti, il mio venerato Predecessore oppose alla “globalizzazione dell’indifferenza” l’invito a sentire il dolore altrui, ad ascoltare il grido dei poveri e della terra, ispirando così un agire compassionevole, riflesso dell’unico Dio, che è clemente e misericordioso, «lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 103,8). L’immagine del grande ponte è di aiuto anche in questo senso. Dio, rivelandosi, ha stabilito un ponte fra cielo e terra: lo ha fatto perché il nostro cuore cambiasse, diventando simile al suo. È un ponte sospeso, grandioso, che quasi sfida le leggi della fisica: così è l’amore, che, oltre alla dimensione intima e privata, ha anche quella visibile e pubblica.
Giustizia e misericordia sfidano la legge della forza e osano chiedere che la compassione e la solidarietà siano considerate criteri di sviluppo. Per questo, in una società come quella turca, dove la religione ha un ruolo visibile, è fondamentale onorare la dignità e la libertà di tutti i figli di Dio: uomini e donne, connazionali e stranieri, poveri e ricchi. Tutti siamo figli di Dio e questo ha conseguenze personali, sociali e politiche. Chi ha un cuore docile al volere di Dio promuoverà sempre il bene comune e il rispetto per tutti. Oggi questa è una grande sfida, che deve rimodellare le politiche locali e le relazioni internazionali, specialmente davanti a un’evoluzione tecnologica che potrebbe altrimenti accentuare le ingiustizie, invece di contribuire a dissolverle. Persino le intelligenze artificiali, infatti, riproducono le nostre preferenze e accelerano i processi che, a ben vedere, non sono le macchine, ma è l’umanità ad avere intrapreso. Lavoriamo dunque insieme, per modificare la traiettoria dello sviluppo e per riparare i danni già inferti all’unità della famiglia umana.
Signore e Signori, ho parlato di “famiglia umana”. Si tratta di una metafora che ci invita a stabilire un collegamento – ancora una volta un ponte – fra i destini di tutti e l’esperienza di ciascuno. Per ognuno di noi, infatti, la famiglia è stata il primo nucleo della vita sociale, in cui sperimentare che senza l’altro non c’è “io”. Più che in altri Paesi, la famiglia conserva nella cultura turca una grande importanza e non mancano iniziative per sostenerne la centralità. Al suo interno, infatti, maturano atteggiamenti essenziali per la convivenza civile e una prima, fondamentale sensibilità verso il bene comune. Certo, ogni famiglia può anche chiudersi in sé stessa, coltivare inimicizie, o impedire a qualcuno dei suoi membri di esprimersi, fino a ostacolare lo sviluppo dei suoi talenti. Tuttavia, non è da una cultura individualistica, né dal disprezzo del matrimonio e della fecondità, che le persone possono ottenere maggiori opportunità di vita e di felicità.
A questo inganno delle economie consumistiche, in cui le solitudini diventano business, è bene rispondere con una cultura che apprezza gli affetti e i legami. Solo insieme diventiamo autenticamente noi stessi. Solo nell’amore diventa profonda la nostra interiorità e forte la nostra identità. Chi disprezza i legami fondamentali e non impara a sostenerne persino i limiti e le fragilità, più facilmente diventa intollerante e incapace di interagire con un mondo complesso. Nella vita familiare infatti emergono in modo del tutto specifico il valore dell’amore coniugale e l’apporto femminile. Le donne, in particolare, anche attraverso lo studio e la partecipazione attiva alla vita professionale, culturale e politica, sempre più si mettono a servizio del Paese e della sua positiva influenza nel panorama internazionale. Dunque, sono molto da apprezzare le importanti iniziative in tal senso, a sostegno della famiglia e del contributo femminile alla piena fioritura della vita sociale.
Signor Presidente, possa la Türkiye essere un fattore di stabilità e di avvicinamento fra i popoli, a servizio di una pace giusta e duratura. La visita in Türkiye di quattro Papi – Paolo VI nel 1967, Giovanni Paolo II nel 1979, Benedetto XVI nel 2006 e Francesco nel 2014 – attesta che la Santa Sede non solo mantiene buone relazioni con la Repubblica di Türkiye, ma desidera cooperare a costruire un mondo migliore con l’apporto di questo Paese, che costituisce un ponte tra Est e Ovest, tra Asia ed Europa, e un crocevia di culture e religioni. L’occasione stessa di questo viaggio, il 1700° anniversario del Concilio di Nicea, ci parla di incontro e di dialogo, come pure il fatto che i primi otto Concili ecumenici si tennero nelle terre dell’attuale Türkiye.
Oggi più che mai c’è bisogno di personalità che favoriscano il dialogo e lo pratichino con ferma volontà e paziente tenacia. Dopo la stagione della costruzione delle grandi organizzazioni internazionali, seguita alle tragedie delle due guerre mondiali, stiamo attraversando una fase fortemente conflittuale a livello globale, in cui prevalgono strategie di potere economico e militare, alimentando quella che Papa Francesco chiamava “terza guerra mondiale a pezzi”. Non bisogna cedere in alcun modo a questa deriva! Ne va del futuro dell’umanità. Perché le energie e le risorse assorbite da questa dinamica distruttiva sono sottratte alle vere sfide che la famiglia umana oggi dovrebbe affrontare invece unita, cioè la pace, la lotta contro la fame e la miseria, per la salute e l’educazione e per la salvaguardia del creato.
La Santa Sede, con la sua sola forza, che è quella spirituale e morale, desidera cooperare con tutte le Nazioni che hanno a cuore lo sviluppo integrale di ogni uomo e di tutti gli uomini e le donne. Camminiamo insieme, allora, nella verità e nell’amicizia, confidando umilmente nell’aiuto di Dio. Grazie.
[1] Angelo G. Roncalli (Giovanni XXIII), La predicazione a Istanbul. Omelie, discorsi e note pastorali (1935-1944), Olschki, Firenze 1993, 367-368.
Eccellenze Reverendissime,
Cari sacerdoti, religiose e religiosi,
operatori pastorali e fratelli e sorelle tutti!
È una grande gioia trovarmi qui in mezzo a voi. Ringrazio il Signore che mi concede, nel mio primo Viaggio Apostolico, di visitare questa “terra santa” che è la Türkiye, nella quale la storia del popolo di Israele si incontra col cristianesimo nascente, l’Antico e il Nuovo Testamento si abbracciano, si scrivono le pagine di numerosi Concili.
La fede che ci unisce ha radici lontane: obbediente alla chiamata di Dio, infatti, Abramo nostro padre si mise in cammino da Ur dei Caldei e poi, dalla regione di Carran, a sud dell’odierna Türkiye, egli partì per la Terra promessa (cfr Gen 12,1). Nella pienezza dei tempi, dopo la morte e risurrezione di Gesù, i suoi discepoli si diressero anche verso l’Anatolia, e ad Antiochia – dove poi fu vescovo Sant’Ignazio – vennero chiamati per la prima volta “cristiani” (cfr At 11,26). Da quella città San Paolo iniziò alcuni dei suoi viaggi apostolici, fondando molte comunità. Ed è ancora sulle coste della penisola anatolica, a Efeso, che secondo alcune fonti antiche, avrebbe soggiornato e sarebbe morto l’evangelista Giovanni, discepolo amato dal Signore (cfr S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 3, 4; Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica,V, 24, 3).
Ricordiamo inoltre con ammirazione il grande passato bizantino, l’impulso missionario della Chiesa di Costantinopoli e la diffusione del Cristianesimo in tutto il Levante. Ancora oggi, in Türkiye vivono le molte comunità dei cristiani di rito orientale, quali Armeni, Siri e Caldei, nonché quelle di rito latino. Il Patriarcato Ecumenico continua ad essere punto di riferimento sia per i propri fedeli greci che per quelli appartenenti ad altre denominazioni ortodosse.
Carissimi, dalla ricchezza di questa lunga storia, anche voi siete stati generati. Oggi siete voi la Comunità chiamata a coltivare il seme della fede trasmessoci da Abramo, dagli Apostoli e dai Padri. La storia che vi precede non è semplicemente qualcosa da ricordare e poi archiviare in un passato glorioso, mentre guardiamo rassegnati al fatto che la Chiesa cattolica è diventata numericamente più piccola. Al contrario, siamo invitati ad adottare lo sguardo evangelico, illuminato dallo Spirito Santo.
E quando guardiamo con gli occhi di Dio, scopriamo che Egli ha scelto la via della piccolezza, per discendere in mezzo a noi. Ecco lo stile del Signore, che siamo tutti chiamati a testimoniare: i profeti annunciano la promessa di Dio parlando di un piccolo germoglio che spunterà (cfr Is 11,1), e Gesù elogia i piccoli che confidano in Lui (cfr Mc 10,13-16), affermando che il Regno di Dio non si impone attirando l’attenzione (cfr Lc 17,20-21), ma si sviluppa come il più piccolo di tutti i semi piantanti nel terreno (cfr Mc 4,31).
Questa logica della piccolezza è la vera forza della Chiesa. Essa, infatti, non risiede nelle sue risorse e nelle sue strutture, né i frutti della sua missione derivano dal consenso numerico, dalla potenza economica o dalla rilevanza sociale. La Chiesa, al contrario, vive della luce dell’Agnello e, radunata attorno a Lui, è sospinta per le strade del mondo dalla potenza dello Spirito Santo. In questa missione, è sempre nuovamente chiamata ad affidarsi alla promessa del Signore: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il suo regno» (Lc 12,32). Ricordiamo, in proposito, queste parole di Papa Francesco: «In una comunità cristiana dove i fedeli, i sacerdoti, i vescovi, non prendono questa strada della piccolezza manca futuro, […] il Regno di Dio germoglia nel piccolo, sempre nel piccolo» (Omelia a Santa Marta, 3 dicembre 2019).
La Chiesa che vive in Türkiye è una piccola Comunità che, però, resta feconda come seme e lievito del Regno. Pertanto, vi incoraggio a coltivare un atteggiamento spirituale di fiduciosa speranza, fondata sulla fede e sull’unione con Dio. C’è bisogno, infatti, di testimoniare con gioia il Vangelo e di guardare con speranza al futuro. Alcuni segni di questa speranza sono già ben presenti: chiediamo dunque al Signore la grazia di saperli riconoscere e coltivare; altri, forse, saremo noi a doverli esprimere in maniera creativa, perseverando nella fede e nella testimonianza.
Tra i segni più belli e promettenti, penso ai tanti giovani che bussano alle porte della Chiesa cattolica, portandovi le loro domande e le loro inquietudini. In proposito, vi esorto a continuare nel rigoroso lavoro pastorale che portate avanti; così come vi incoraggio ad ascoltare e accompagnare i giovani e ad avere cura di quegli ambiti in cui la Chiesa in Türkiye è chiamata a lavorare in modo speciale: il dialogo ecumenico e interreligioso, la trasmissione della fede alla popolazione locale, il servizio pastorale ai rifugiati e ai migranti.
Quest’ultimo aspetto merita una riflessione. La presenza assai significativa di migranti e rifugiati in questo Paese, infatti, pone alla Chiesa la sfida dell’accoglienza e del servizio di costoro che sono tra i più vulnerabili. Allo stesso tempo, questa Chiesa è costituita da stranieri e anche molti di voi – sacerdoti, suore, operatori pastorali – provenite da altre terre; ciò richiede un vostro speciale impegno per l’inculturazione, perché la lingua, gli usi, i costumi della Türkiye diventino sempre più i vostri. La comunicazione del Vangelo passa, infatti, da questa inculturazione.
Non voglio dimenticare, poi, che in questa vostra terra sono stati celebrati i primi otto Concili Ecumenici. Quest’anno ricorre il 1700° anniversario del Primo Concilio di Nicea, «pietra miliare nel cammino della Chiesa e anche dell’intera umanità» (Francesco, Discorso alla Commissione Teologica Internazionale, 28 novembre 2024), un evento sempre attuale che ci pone alcune sfide che vorrei menzionare.
La prima è l’importanza di cogliere l’essenza della fede e dell’essere cristiani. Attorno al Simbolo della fede, la Chiesa a Nicea ritrovò l’unità (cfr Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, n. 17). Non si tratta dunque soltanto di una formula dottrinale, bensì dell’invito a cercare sempre, pur dentro le diverse sensibilità, spiritualità e culture, l’unità e l’essenzialità della fede cristiana attorno alla centralità di Cristo e alla Tradizione della Chiesa. Nicea ci invita ancora oggi a riflettere su questo: chi è Gesù per noi? Cosa significa, nel suo nucleo essenziale, essere cristiani? Il Simbolo della fede, professato in modo unanime e comune, diventa così criterio di discernimento, bussola di orientamento, perno attorno al quale devono ruotare il nostro credere e il nostro agire. E a proposito del nesso tra la fede e le opere, voglio ringraziare le organizzazioni internazionali, penso in particolare a Caritas Internationalis e a Kirche in Not, per il sostegno alle attività caritative della Chiesa e soprattutto per l’aiuto alle vittime del terremoto del 2023.
La seconda sfida riguarda l’urgenza di riscoprire in Cristo il volto di Dio Padre. Nicea afferma la divinità di Gesù e la sua uguaglianza con il Padre. In Gesù noi troviamo il vero volto di Dio e la sua parola definitiva sull’umanità e sulla storia. Questa verità mette costantemente in crisi le nostre rappresentazioni di Dio, quando non corrispondono a quanto Gesù ci ha rivelato, e ci invita a un continuo discernimento critico sulle forme della nostra fede, della nostra preghiera, della vita pastorale e in generale della nostra spiritualità. Ma c’è anche un’altra sfida, che definirei come un “arianesimo di ritorno”, presente nella cultura odierna e a volte tra gli stessi credenti: quando si guarda a Gesù con ammirazione umana, magari anche con spirito religioso, ma senza considerarlo davvero come il Dio vivo e vero presente in mezzo a noi. Il suo essere Dio, Signore della storia, viene in qualche modo oscurato e ci si limita a considerarlo un grande personaggio storico, un maestro sapiente, un profeta che ha lottato per la giustizia, ma niente di più. Nicea ce lo ricorda: Cristo Gesù non è un personaggio del passato, è il Figlio di Dio presente in mezzo a noi, che guida la storia verso il futuro che Dio ci ha promesso.
Infine, una terza sfida: la mediazione della fede e lo sviluppo della dottrina. In un contesto culturale complesso, il Simbolo di Nicea è riuscito a mediare l’essenza della fede attraverso le categorie culturali e filosofiche dell’epoca. Tuttavia, pochi decenni dopo, nel primo Concilio di Costantinopoli, vediamo che esso viene approfondito e ampliato e, proprio grazie all’approfondimento della dottrina, si giunge a una nuova formulazione: il Simbolo niceno-costantinopolitano, quello comunemente professato nelle nostre celebrazioni domenicali. Impariamo anche qui una grande lezione: è sempre necessario mediare la fede cristiana nei linguaggi e nelle categorie del contesto in cui viviamo, come fecero i Padri a Nicea e negli altri Concili. Allo stesso tempo, dobbiamo distinguere il nucleo della fede dalle formule e dalle forme storiche che lo esprimono, le quali restano sempre parziali e provvisorie e possono cambiare man mano che approfondiamo la dottrina. Ricordiamo che il neo-dottore della Chiesa, San John Henry Newman, insiste sullo sviluppo della dottrina cristiana, perché essa non è un’idea astratta e statica, ma riflette il mistero stesso di Cristo: si tratta perciò dello sviluppo interno di un organismo vivente, che porta alla luce ed esplicita meglio il nucleo fondamentale della fede.
Carissimi, prima di salutarvi, vorrei ricordare la figura a voi tanto cara di San Giovanni XXIII, che ha amato e servito questo popolo, affermando: «Mi piace ripetere ciò che sento nel cuore: io amo questo Paese e i suoi abitanti». E osservando dalla finestra della casa dei Gesuiti i pescatori del Bosforo, indaffarati attorno alle barche e alle reti, egli scrisse: «Lo spettacolo mi commuove. L’altra notte verso l’una pioveva a dirotto, ma i pescatori erano là, impavidi, nella loro rude fatica. […] Imitare i pescatori del Bosforo, lavorare giorno e notte con le fiaccole accese, ciascuno sulla sua piccola barca, all’ordine dei capi spirituali: ecco il nostro grave e sacro dovere».
Vi auguro di essere animati da questa passione, di conservare la gioia della fede, di lavorare come pescatori intrepidi nella barca del Signore. Maria Santissima, la Theotokos, interceda per voi e vi custodisca. Grazie!
Cari fratelli e sorelle!
In un tempo per molti aspetti drammatico, nel quale le persone sono sottoposte a innumerevoli minacce alla loro stessa dignità, il 1700° anniversario del Primo Concilio di Nicea è un’occasione preziosa per chiederci chi è Gesù Cristo nella vita delle donne e degli uomini di oggi, chi è per ciascuno di noi.
Questa domanda interpella in modo particolare i cristiani, che rischiano di ridurre Gesù Cristo a una sorta di leader carismatico o di superuomo, un travisamento che alla fine porta alla tristezza e alla confusione (cfr Omelia S. Messa Pro Ecclesia, 9 maggio 2025). Negando la divinità di Cristo, Ario lo ridusse a un semplice intermediario tra Dio e gli esseri umani, ignorando la realtà dell’Incarnazione, cosicché il divino e l’umano rimasero irrimediabilmente separati. Ma se Dio non si è fatto uomo, come possono i mortali partecipare alla sua vita immortale? Questo era in gioco a Nicea ed è in gioco oggi: la fede nel Dio che, in Gesù Cristo, si è fatto come noi per renderci «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4; cfr S. Ireneo, Adversus haereses, 3, 19; S. Atanasio, De Incarnatione, 54, 3).
Questa confessione di fede cristologica è di fondamentale importanza nel cammino che i cristiani stanno percorrendo verso la piena comunione: essa infatti è condivisa da tutte le Chiese e Comunità cristiane nel mondo, comprese quelle che, per vari motivi, non utilizzano il Credo Niceno-Costantinopolitano nelle loro liturgie. Infatti, la fede «in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli [...] della stessa sostanza del Padre» (Credo Niceno) è un legame profondo che unisce già tutti i cristiani. In questo senso, per citare Sant’Agostino, anche in ambito ecumenico possiamo dire che «sebbene noi cristiani siamo molti, nell’unico Cristo siamo uno» (Esposizione sul Salmo 127). Partendo dalla consapevolezza che siamo già legati da questo profondo vincolo, attraverso un cammino di adesione sempre più totale alla Parola di Dio rivelata in Gesù Cristo e sotto la guida dello Spirito Santo, nell’amore reciproco e nel dialogo, siamo tutti invitati a superare lo scandalo delle divisioni che purtroppo ancora esistono e ad alimentare il desiderio dell’unità per la quale il Signore Gesù ha pregato e ha dato la sua vita. Quanto più siamo riconciliati, tanto più noi cristiani possiamo rendere una testimonianza credibile al Vangelo di Gesù Cristo, che è annuncio di speranza per tutti, messaggio di pace e di fraternità universale che travalica i confini delle nostre comunità e nazioni (cfr Francesco, Discorso ai partecipanti alla Sessione Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, 6 maggio 2022).
La riconciliazione è oggi un appello che proviene dall’intera umanità afflitta da conflitti e violenze. Il desiderio di piena comunione tra tutti i credenti in Gesù Cristo è sempre accompagnato dalla ricerca di fraternità tra tutti gli esseri umani. Nel Credo Niceno professiamo la nostra fede «in un solo Dio Padre»; tuttavia, non sarebbe possibile invocare Dio come Padre se rifiutassimo di riconoscere come fratelli e sorelle gli altri uomini e donne, anch’essi creati a immagine di Dio (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Nostra aetate, 5). C’è una fratellanza e sorellanza universale, indipendentemente dall’etnia, dalla nazionalità, dalla religione o dall’opinione. Le religioni, per loro natura, sono depositarie di questa verità e dovrebbero incoraggiare le persone, i gruppi umani e i popoli a riconoscerla e a praticarla (cfr Discorso alla conclusione dell’Incontro di preghiera per la Pace, 28 ottobre 2025). L’uso della religione per giustificare la guerra e la violenza, come ogni forma di fondamentalismo e di fanatismo, va respinto con forza, mentre le vie da seguire sono quelle dell’incontro fraterno, del dialogo e della collaborazione.
Sono profondamente grato a Sua Santità Bartolomeo, il quale, con grande saggezza e lungimiranza, ha deciso di commemorare insieme il 1700° anniversario del Concilio di Nicea proprio nel luogo in cui fu celebrato; e ringrazio calorosamente i Capi delle Chiese e i Rappresentanti delle Comunioni Cristiane Mondiali che hanno accolto l’invito a partecipare a questo evento. Possa Dio Padre, onnipotente e misericordioso, ascoltare la fervida preghiera che gli rivolgiamo oggi e concedere che questo importante anniversario porti frutti abbondanti di riconciliazione, di unità e di pace.
Doxologia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio
Santità, amato fratello in Cristo,
mi permetta di iniziare esprimendo la mia più profonda gratitudine per la calorosa accoglienza e le gentili parole di saluto. Allo stesso modo ringrazio i Membri del Santo Sinodo, assieme al clero e ai fedeli, con i quali condividiamo codesta preghiera serale.
Entrando in questa Chiesa, ho provato una grande emozione, consapevole di seguire le orme di Papa Paolo VI, Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. Sono anche consapevole che Vostra Santità ha avuto l'opportunità di incontrare personalmente i miei venerati Predecessori e di sviluppare con loro un’amicizia sincera e fraterna, basata sulla fede condivisa e su una visione comune di molte delle principali sfide che la Chiesa e il mondo devono affrontare. Sono certo che questo incontro contribuirà anche a rafforzare i legami della nostra amicizia, che hanno già iniziato ad approfondirsi quando ci siamo visti, per la prima volta, all’inizio del mio Ministero come Vescovo di Roma, specialmente durante la solenne celebrazione della santa Eucaristia, alla quale Vostra Santità ha avuto la gentilezza di essere presente.
Ieri, e di nuovo questa mattina, abbiamo vissuto momenti straordinari di grazia commemorando, insieme ai nostri fratelli e sorelle nella fede, il 1700° anniversario del Primo Concilio Ecumenico di Nicea. Ricordando quell’evento così significativo e ispirati dalla preghiera di Gesù perché tutti i suoi discepoli siano una cosa sola (cfr Gv 17,21), siamo incoraggiati nel nostro impegno a ricercare il ripristino della piena comunione tra tutti i Cristiani, compito che intraprendiamo con l'aiuto di Dio. Spinti da questo desiderio di unità, ci prepariamo anche a celebrare la memoria dell’Apostolo Andrea, Patrono del Patriarcato Ecumenico. Nella preghiera di questa sera, il diacono ha rivolto a Dio la supplica “per la stabilità delle Sante Chiese e per l'unità di tutti”. Questa stessa invocazione risuonerà anche nella Divina Liturgia di domani. Che Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, abbia misericordia di noi ed esaudisca codesta orazione.
Ringraziando ancora una volta per la fraterna accoglienza, desidero porgere a Vostra Santità e a tutti i presenti i miei più fervidi auguri per la Festa del Vostro Santo Patrono.
Santa Messa nella “Volkswagen Arena”
Cari fratelli e sorelle,
celebriamo questa Santa Messa nella vigilia del giorno in cui la Chiesa ricorda Sant’Andrea, Apostolo e Patrono di questa terra. E nello stesso tempo iniziamo l’Avvento, per prepararci a rivivere, nel Natale, il mistero di Gesù, Figlio di Dio, «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre» (Credo niceno-costantinopolitano), come 1700 anni fa hanno solennemente dichiarato i Padri riuniti in Concilio a Nicea.
In questo contesto, la Liturgia ci propone, nella prima Lettura (cfr Is 2,1-5), una delle pagine più belle del libro del profeta Isaia, dove risuona l’invito rivolto a tutti i popoli a salire al monte del Signore (cfr v. 3), luogo di luce e di pace. Vorrei allora che meditassimo sul nostro essere Chiesa, soffermandoci su alcune immagini contenute in questo testo.
La prima è quella del “monte elevato sulla cima dei monti” (cfr Is 2,2). Essa ci ricorda che i frutti dell’agire di Dio nella nostra vita non sono un dono solo per noi, ma per tutti. La bellezza di Sion, città sul monte, simbolo di una comunità rinata nella fedeltà che diventa segno di luce per uomini e donne di ogni provenienza, ci rammenta che la gioia del bene è contagiosa. Ne troviamo conferma nella vita di molti Santi. San Pietro incontra Gesù grazie all’entusiasmo di suo fratello Andrea (cfr Gv 1,40-42), che a sua volta, assieme a Giovanni apostolo, è condotto al Signore dallo zelo di Giovanni il Battista. Sant’Agostino, secoli dopo, giunge a Cristo grazie alla predicazione calorosa di Sant’Ambrogio, e così molti altri.
In tutto questo c’è un invito, anche per noi, a rinnovare nella fede la forza della nostra testimonianza. San Giovanni Crisostomo, grande Pastore di questa Chiesa, parlava del fascino della santità come di un segno più eloquente di tanti miracoli. Diceva: «Il prodigio avviene e passa, ma la vita cristiana resta e continuamente edifica» (Commento al Vangelo di San Matteo, 43, 5), e concludeva: «Vigiliamo dunque su noi stessi, per avvantaggiare anche gli altri» (ibid.). Carissimi, se vogliamo davvero essere di aiuto alle persone che incontriamo, vigiliamo su noi stessi, come ci raccomanda il Vangelo (cfr Mt 24,42): coltiviamo la nostra fede con la preghiera, con i Sacramenti, viviamola coerentemente nella carità, gettiamo via – come ci ha detto San Paolo nella seconda Lettura – le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce (cfr Rm 13,12). Il Signore, che attendiamo glorioso alla fine dei tempi, viene ogni giorno a bussare alla nostra porta. Teniamoci pronti (cfr Mt 24,44) con l’impegno sincero di una vita buona, come ci insegnano i numerosi modelli di santità di cui è ricca la storia di questa terra.
La seconda immagine che ci viene dal profeta Isaia è quella di un mondo in cui regna la pace. Egli lo descrive così: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4). Quanto sentiamo urgente, oggi, questo richiamo! Quanto bisogno di pace, di unità e di riconciliazione c’è attorno a noi, e anche in noi e tra noi! Come possiamo contribuire a rispondere a tale domanda?
Ci facciamo aiutare, per capirlo, dal “logo” di questo viaggio, in cui uno dei simboli scelti è quello del ponte. Tale immagine può farci pensare anche al famoso grande viadotto che in questa città, attraversando lo stretto del Bosforo, unisce due continenti: Asia ed Europa. Ad esso, col tempo, si sono aggiunti altri due passaggi, cosicché attualmente i punti di congiunzione tra le due sponde sono tre. Tre grandi strutture di comunicazione, di scambio, di incontro: imponenti a vedersi, eppure tanto piccole e fragili, se paragonate agli immensi territori che collegano.
Il loro triplice stendersi attraverso lo Stretto ci fa pensare all’importanza dei nostri sforzi comuni per l’unità a tre livelli: dentro la comunità, nei rapporti ecumenici con i membri delle altre Confessioni cristiane e nell’incontro con i fratelli e le sorelle appartenenti ad altre religioni. Prenderci cura di questi tre ponti, rafforzandoli e ampliandoli in tutti i modi possibili, è parte della nostra vocazione ad essere città costruita sul monte (cfr Mt 5,14-16).
Prima di tutto, come dicevo, all’interno di questa Chiesa sono presenti ben quattro diverse tradizioni liturgiche – latina, armena, caldea e sira –, ciascuna apportatrice di una propria ricchezza a livello spirituale, storico e di vissuto ecclesiale. La condivisione di tali differenze può mostrare in modo eminente uno dei tratti più belli del volto della Sposa di Cristo: quello della cattolicità che congiunge. L’unità che si cementa attorno all’Altare è dono di Dio, e come tale è forte e invincibile, perché è opera della sua grazia. Al tempo stesso, però, la sua realizzazione nella storia è affidata a noi, ai nostri sforzi. Per questo, come i ponti sul Bosforo, ha bisogno di cura, di attenzione, di “manutenzione”, perché il tempo e le vicissitudini non ne indeboliscano le strutture e perché le fondamenta restino salde. Con gli occhi rivolti al monte della promessa, immagine della Gerusalemme del Cielo, che è nostra meta e madre (cfr Gal 4,26), mettiamo allora ogni impegno a favorire e rafforzare i legami che ci uniscono, per arricchirci reciprocamente ed essere davanti al mondo segno credibile dell’amore universale e infinito del Signore.
Un secondo vincolo di comunione che questa liturgia ci suggerisce è quello ecumenico. Lo attesta anche la partecipazione dei Rappresentanti di altre Confessioni, che saluto con viva riconoscenza. La stessa fede nel Salvatore, infatti, ci unisce non solo tra noi, ma con tutti i fratelli e le sorelle appartenenti ad altre Chiese e Comunità cristiane. Lo abbiamo sperimentato ieri, nella preghiera a İznik. Anche questa è una via lungo la quale da tempo camminiamo insieme, e di cui fu grande promotore e testimone San Giovanni XXIII, legato a questa terra da vincoli intensi di affetto reciproco. Perciò, mentre chiediamo, con le parole di Papa Giovanni, che «si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre Celeste nell’imminenza del suo sacrificio» (Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962, 8.2), rinnoviamo, oggi, il nostro “sì” all’unità, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21), “ut unum sint”.
Un terzo legame a cui ci richiama la Parola di Dio è quello con gli appartenenti a comunità non cristiane. Viviamo in un mondo in cui troppo spesso la religione è usata per giustificare guerre e atrocità. Noi però sappiamo che, come afferma il Concilio Vaticano II, «l’atteggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono talmente connessi che la Scrittura dice: “Chi non ama, non conosce Dio” (1Gv 4,8)» (Dich. Nostra aetate, 5). Perciò vogliamo camminare insieme, valorizzando ciò che ci unisce, demolendo i muri del preconcetto e della sfiducia, favorendo la conoscenza e la stima reciproca, per dare a tutti un forte messaggio di speranza e un invito a farsi «operatori di pace» (Mt 5,9).
Carissimi, facciamo di questi valori i propositi per il tempo di Avvento e ancor più per la nostra vita, sia personale che comunitaria. I nostri passi si muovono come su un ponte che unisce la terra al Cielo e che il Signore ha steso per noi. Teniamo sempre gli occhi fissi sulle sue sponde, per amare con tutto il cuore Dio e i fratelli, per camminare insieme e per poterci ritrovare, un giorno, tutti, nella casa del Padre.
Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio
Santità, amato fratello in Cristo,
Beatitudini,
Cari Fratelli nell’Episcopato,
Membri del Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico,
Cari fratelli e sorelle!
Il nostro pellegrinaggio nei luoghi dove si tenne il primo Concilio ecumenico nella storia della Chiesa, si conclude con questa solenne Divina Liturgia, nella quale abbiamo commemorato l’Apostolo Andrea che, secondo l’antica tradizione, portò il Vangelo in questa città. La sua fede è la nostra: la stessa definita dai Concili ecumenici e professata oggi dalla Chiesa. Con i Capi delle Chiese e i Rappresentanti delle Comunità Cristiane Mondiali, durante la preghiera ecumenica lo abbiamo ricordato: la fede professata nel Credo Niceno-Costantinopolitano ci unisce in una comunione reale e ci permette di riconoscerci come fratelli e sorelle. Ci sono stati molti malintesi e persino conflitti tra cristiani di Chiese diverse in passato, e ci sono ancora ostacoli che ci impediscono di essere in piena comunione, ma non dobbiamo tornare indietro nell’impegno per l’unità e non possiamo smettere di considerarci fratelli e sorelle in Cristo e di amarci come tali.
Ispirati da questa consapevolezza, sessant’anni fa Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora dichiararono solennemente che le decisioni infelici e i tristi eventi che portarono alle reciproche scomuniche del 1054 dovevano essere cancellati dalla memoria della Chiesa. Questo gesto storico dei nostri venerati Predecessori aprì un cammino di riconciliazione, di pace e di crescente comunione tra cattolici e ortodossi, che è cresciuto anche grazie ai contatti frequenti, agli incontri fraterni e a un fecondo dialogo teologico.
Alla luce di questo cammino già intrapreso, molti sono stati i passi compiuti anche a livello ecclesiologico e canonico e, oggi, siamo interpellati a impegnarci maggiormente verso il ripristino della piena comunione.
A tal proposito, desidero esprimere la gratitudine dell’intera Chiesa cattolica e il profondo ringraziamento personale per il continuo sostegno di Sua Santità e del Patriarcato ecumenico al lavoro della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Vi chiedo di continuare a compiere ogni sforzo affinché tutte le Chiese ortodosse autocefale tornino a partecipare attivamente a tale impegno. Da parte mia, desidero confermare che, in continuità con quanto insegnato dal Concilio Vaticano II e dai miei predecessori, perseguire la piena comunione tra tutti coloro che sono battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nel rispetto delle legittime differenze, è una delle priorità della Chiesa cattolica e in modo particolare del mio Ministero di Vescovo di Roma, il cui ruolo specifico a livello di Chiesa universale consiste nell’essere al servizio di tutti per costruire e preservare la comunione e l’unità.
Per rimanere fedeli alla volontà del Signore di prenderci cura non solo dei nostri fratelli e sorelle nella fede, ma di tutta l’umanità e dell’intero creato, le nostre Chiese sono chiamate a rispondere insieme agli appelli che lo Spirito Santo rivolge loro oggi. Innanzitutto, in questo tempo di sanguinosi conflitti e violenze in luoghi vicini e lontani, i cattolici e gli ortodossi sono chiamati ad essere costruttori di pace. Si tratta certamente di agire e di porre delle scelte e dei segni che edificano la pace, ma senza dimenticare che essa non è solo il frutto di un impegno umano, bensì è dono di Dio. Perciò, la pace si chiede con la preghiera, con la penitenza, con la contemplazione, con quella relazione viva col Signore che ci aiuta a discernere parole, gesti e azioni da intraprendere, perché siano veramente a servizio della pace.
Un’altra sfida che le nostre Chiese devono affrontare è la minacciosa crisi ecologica che, come Sua Santità ha spesso ricordato, richiede un’autentica conversione spirituale per cambiare direzione e salvaguardare il creato. Cattolici e ortodossi siamo chiamati a collaborare per promuovere una nuova mentalità in cui tutti si sentano custodi del creato che Dio ci ha affidato.
Una terza sfida che vorrei menzionare è l’uso delle nuove tecnologie, specialmente nel campo della comunicazione. Consapevoli degli enormi vantaggi che esse possono offrire all’umanità, cattolici e ortodossi devono operare insieme per promuoverne un uso responsabile al servizio dello sviluppo integrale delle persone, e un’accessibilità universale, perché tali benefici non siano solo riservati a un piccolo numero di persone e a interessi di pochi privilegiati.
Nel rispondere a queste sfide, sono fiducioso che tutti i cristiani, i membri di altre tradizioni religiose e molte donne e uomini di buona volontà possano cooperare in armonia e lavorare al bene comune.
Santità, con questi pensieri nel cuore, porgo a Lei e ai fratelli e alle sorelle che oggi celebrano la festa del Santo Patrono i miei più fervidi auguri di ogni bene, di salute e serenità. Desidero ringraziarVi sinceramente per la calorosa e fraterna accoglienza che mi avete riservato in questi giorni. Per questo, invocando l’intercessione dell’Apostolo Andrea e di suo fratello, l’Apostolo Pietro, di San Giorgio Megalomartire a cui è dedicata questa Chiesa, dei Santi Padri del Primo Concilio di Nicea, dei numerosi Santi Pastori di questa antica e gloriosa Chiesa di Costantinopoli, chiedo a Dio Padre misericordioso di benedire abbondantemente tutti i presenti.
Hrònia Pollà, Ad multos annos!
Incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico di Beirut
Signor Presidente della Repubblica,
distinte Autorità civili e religiose,
membri del Corpo diplomatico,
Signore, Signori!
Beati gli operatori di pace!
È una grande gioia incontrarvi e visitare questa terra in cui “pace” è molto più di una parola: qui la pace è un desiderio e una vocazione, è un dono e un cantiere sempre aperto. Voi siete investiti di autorità in questo Paese, ciascuno nei propri ambiti e con ruoli specifici. È alla luce di questa autorità che desidero rivolgervi la parola di Gesù, scelta come ispirazione fondamentale di questo mio viaggio: «Beati gli operatori di pace!» (Mt 5,9). Certo, vi sono milioni di Libanesi, qui e nel mondo intero, che servono la pace silenziosamente, giorno dopo giorno. A voi, però, che avete compiti istituzionali importanti all’interno di questo popolo, è destinata una speciale beatitudine se a tutto potrete dire di avere anteposto l’obiettivo della pace. Desidero, in questo nostro incontro, riflettere un po’ con voi su che cosa significhi essere operatori di pace entro circostanze molto complesse, conflittuali e incerte.
Oltre alle bellezze naturali e alle ricchezze culturali del Libano, già elogiate da tutti i miei Predecessori che hanno visitato il vostro Paese, risplende una qualità che distingue i Libanesi: siete un popolo che non soccombe, ma che, di fronte alle prove, sa sempre rinascere con coraggio. La vostra resilienza è caratteristica imprescindibile degli autentici operatori di pace: l’opera della pace, infatti, è un continuo ricominciare. L’impegno e l’amore per la pace non conosce paura di fronte alle sconfitte apparenti, non si lascia piegare dalle delusioni, ma sa guardare lontano, accogliendo e abbracciando con speranza tutte le realtà. Ci vuole tenacia per costruire la pace; ci vuole perseveranza per custodire e far crescere la vita.
Interrogate la vostra storia. Chiedetevi da dove viene la formidabile energia che non ha mai lasciato il vostro popolo a terra, privo di fiducia nel domani. Siete un Paese variegato, una comunità di comunità, ma unita da una lingua comune. Non mi riferisco soltanto all’arabo levantino che parlate, attraverso il quale il vostro grande passato ha disseminato perle di inestimabile valore, mi riferisco soprattutto alla lingua della speranza, quella che vi ha sempre permesso di ricominciare.
Attorno a noi, quasi in tutto il mondo, sembra avere vinto una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza: le persone sembrano non riuscire più nemmeno a chiedersi che cosa possono fare per modificare il corso della storia. Le grandi decisioni sembrano essere prese da pochi e, spesso, a scapito del bene comune, è ciò appare a molti come un destino ineluttabile. Voi avete molto sofferto le conseguenze di un'economia che uccide (cfr. Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 53), che anche nel Levante ha ripercussioni devastanti, della radicalizzazione delle identità e dei conflitti, ma sempre avete voluto e saputo ricominciare.
Il Libano può vantare una società civile vivace, ben formata, ricca di giovani capaci di plasmare i sogni e le aspirazioni di un intero Paese. Vi incoraggio pertanto a non separarvi mai dalla vostra gente e a porvi al servizio del vostro popolo – così ricco nella sua varietà - con impegno e dedizione. Possiate tutti far risuonare una sola lingua: la lingua della speranza che fa convergere tutti nel coraggio di ricominciare sempre di nuovo. Il desiderio di vivere e di crescere insieme, come popolo, faccia di ogni gruppo la voce di una polifonia. Vi aiuti anche il profondo legame di affetto che lega al proprio Paese tanti Libanesi dispersi nel mondo. Essi amano la propria origine, pregano per il popolo di cui si sentono parte e lo sostengono con le molteplici esperienze e competenze che li rendono così apprezzati in ogni luogo.
Veniamo così a una seconda caratteristica degli operatori di pace: non soltanto essi sanno ricominciare, ma lo fanno innanzitutto attraverso l’ardua via della riconciliazione. Vi sono infatti ferite personali e collettive che chiedono lunghi anni, a volte intere generazioni per potersi rimarginare. Se non vengono curate, se non si lavora, ad esempio, a una guarigione della memoria, a un avvicinamento tra chi ha subito torti e ingiustizie, difficilmente si va verso la pace. Si resta fermi, prigionieri ognuno del suo dolore e delle sue ragioni. Tuttavia, verità e riconciliazione crescono sempre insieme: sia in una famiglia, sia tra le diverse comunità e le varie anime di un Paese, sia tra le Nazioni.
Allo stesso tempo, non c’è riconciliazione duratura senza un traguardo comune, senza un’apertura verso un futuro, nel quale il bene prevalga sul male subito o inflitto nel passato o nel presente. Una cultura della riconciliazione, perciò, non nasce solo dal basso, dalla disponibilità e dal coraggio di alcuni, ma ha bisogno di autorità e istituzioni che riconoscano il bene comune superiore a quello di parte. Il bene comune è più della somma di tanti interessi: avvicina il più possibile gli obiettivi di ciascuno e li muove in una direzione in cui tutti avranno di più che andando avanti da soli. La pace è infatti molto più di un equilibrio, sempre precario, tra chi vive separato sotto lo stesso tetto. La pace è saper abitare insieme, in comunione, da persone riconciliate. Una riconciliazione che oltre a farci convivere, ci insegnerà a lavorare insieme, fianco a fianco per un futuro condiviso. E allora, la pace diventa quell’abbondanza che ci sorprende quando il nostro orizzonte si allarga oltre ogni recinto e barriera. A volte si pensa che, prima di compiere qualsiasi passo, occorra chiarire tutto, risolvere tutto, invece è il confronto reciproco, anche nelle incomprensioni, la strada che porta verso la riconciliazione. La verità più grande di tutte è che ci troviamo insieme inseriti in un disegno che Dio ha predisposto perché tutti possiamo raggiungere una pienezza di vita nella relazione tra di noi e con Lui.
Infine, vorrei tratteggiare una terza caratteristica degli operatori di pace. Essi osano rimanere, anche quando costa sacrificio. Vengono momenti in cui è più facile fuggire, o, semplicemente, risulta più conveniente andare altrove. Ci vuole davvero coraggio e lungimiranza restare o tornare nel proprio Paese, stimando degne d’amore e di dedizione anche condizioni piuttosto difficili. Sappiamo che l’incertezza, la violenza, la povertà e molte altre minacce producono qui, come in altri luoghi del mondo, un’emorragia di giovani e di famiglie che cercano futuro altrove, pur con grande dolore nel lasciare la propria patria. Occorre certamente riconoscere che molto di positivo arriva a tutti voi dai Libanesi sparsi nel mondo. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che restare preso i suoi e collaborare giorno per giorno allo sviluppo della civiltà dell’amore e della pace, rimane qualcosa di molto apprezzabile.
La Chiesa, infatti, non è soltanto preoccupata della dignità di coloro che si muovono verso Paesi diversi dal proprio, ma vuole che nessuno sia costretto a partire e che chiunque lo desideri possa in sicurezza ritornare. La mobilità umana, infatti, rappresenta un’immensa opportunità di incontro e di reciproco arricchimento, ma non cancella lo speciale legame che unisce ciascuno a determinati luoghi, a cui deve la propria identità in modo del tutto peculiare. E la pace cresce sempre in un contesto vitale concreto, fatto di legami geografici, storici e spirituali. Occorre incoraggiare coloro che li favoriscono e se ne nutrono, e non cedono a localismi e nazionalismi. Nell’Enciclica Fratelli tutti Papa Francesco indicava questa strada: «Bisogna guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna assumere cordialmente la dimensione locale, perché possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali» (n. 142).
Questa è una sfida non solo del Libano, ma di tutto il Levante: che cosa fare perché soprattutto i giovani non si sentano costretti ad abbandonare la propria terra e ad emigrare? Come motivarli a non cercare la pace altrove, ma a trovarne garanzie e a diventarne protagonisti nella propria terra nativa? Cristiani e musulmani, insieme a tutte le componenti religiose e civili della società libanese, sono chiamati a fare la loro parte in questo senso e ed impegnarsi a sensibilizzare in merito la comunità internazionale.
In questo contesto, mi preme sottolineare il ruolo imprescindibile delle donne nel faticoso e paziente impegno per custodire e costruire la pace. Non dimentichiamo che le donne hanno una specifica capacità di operare la pace, perché sanno custodire e sviluppare legami profondi con la vita e con le persone. La loro partecipazione alla vita sociale e politica, così come a quella delle proprie comunità religiose, similmente all’energia che viene dai giovani, rappresenta in tutto il mondo un fattore di vero rinnovamento. Beate, dunque, le operatrici di pace e beati i giovani che restano o che ritornano, perché il Libano sia ancora una terra piena di vita.
Concludo ispirandomi ad un’altra caratteristica preziosa della vostra tradizione millenaria. Siete un popolo che ha a cuore la musica, la quale, nei giorni di festa, si trasforma in danza, divenendo linguaggio di gioia e di comunione. Questo tratto della vostra cultura ci aiuta a comprendere che la pace non è soltanto il risultato di un impegno umano, per quanto necessario: la pace è un dono che viene da Dio e che, innanzitutto, abita il nostro cuore. È come un movimento interiore che si riversa verso l’esterno, abilitandoci a lasciarci guidare da una melodia più grande di noi stessi, quella dell’amore divino. Chi danza avanza leggero, senza calpestare la terra, armonizzando i propri passi con quelli degli altri. Così è la pace: un cammino mosso dallo Spirito, che mette il cuore in ascolto e lo rende più attento e rispettoso verso l’altro. Possa crescere fra voi questo desiderio di pace che nasce da Dio e può trasformare già oggi il modo di guardare gli altri e di abitare insieme questa Terra che Egli ama profondamente e continua a benedire.
Signor Presidente, Distinte Autorità, vi ringrazio nuovamente per l’accoglienza che mi state riservando. State certi della mia preghiera e quella di tutta la Chiesa per il vostro delicato servizio per il bene comune.
Visita e preghiera sulla tomba di san Charbel Maklūf presso il Monastero di San Maroun ad Annaya
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Superiore Generale per le sue parole e per l’accoglienza in questo bel Monastero di Annaya. Anche la natura che circonda questa casa di preghiera ci attrae con la sua bellezza austera.
Rendo grazie a Dio che mi ha concesso di venire pellegrino alla tomba di San Charbel. I miei Predecessori – penso specialmente a San Paolo VI, che lo ha beatificato e canonizzato – l’avrebbero tanto desiderato.
Carissimi, che cosa ci insegna oggi San Charbel? Qual è l’eredità di quest’uomo che non scrisse nulla, che visse nascosto e taciturno, ma la cui fama si è diffusa nel mondo intero?
Vorrei riassumerla così: lo Spirito Santo lo ha plasmato, perché a chi vive senza Dio insegnasse la preghiera, a chi vive nel rumore insegnasse il silenzio, a chi vive per apparire insegnasse la modestia, a chi cerca le ricchezze insegnasse la povertà. Sono tutti comportamenti contro-corrente, ma proprio per questo ne siamo attratti, come l’acqua fresca e pura per chi cammina in un deserto.
In particolare, a noi vescovi e ministri ordinati, San Charbel richiama le esigenze evangeliche della nostra vocazione. Ma la sua coerenza, tanto radicale quanto umile, è un messaggio per tutti i cristiani.
E poi c’è un altro aspetto che è decisivo: San Charbel non ha mai smesso di intercedere per noi presso il Padre Celeste, fonte di ogni bene e di ogni grazia. Già durante la sua vita terrena molti andavano da lui per ricevere dal Signore conforto, perdono, consiglio. Dopo la sua morte tutto questo si è moltiplicato ed è diventato come un fiume di misericordia. Anche per questo, ogni 22 del mese, ci sono migliaia di pellegrini che vengono qui da diversi Paesi per passare una giornata di preghiera e di ristoro dell’anima e del corpo.
Sorelle e fratelli, oggi vogliamo affidare all’intercessione di San Charbel le necessità della Chiesa, del Libano e del mondo. Per la Chiesa chiediamo comunione, unità: a partire dalle famiglie, piccole chiese domestiche, e poi nelle comunità parrocchiali e diocesane, fino alla Chiesa universale. Comunione, unità. E per il mondo chiediamo pace. Specialmente la imploriamo per il Libano e per tutto il Levante. Ma sappiamo bene – e i santi ce lo ricordano – che non c’è pace senza conversione dei cuori. Perciò San Charbel ci aiuti a rivolgerci a Dio e a chiedere il dono della conversione per tutti noi.
Carissimi, come simbolo della luce che qui Dio ha acceso mediante San Charbel, ho portato in dono una lampada. Offrendo questa lampada affido alla protezione di San Charbel il Libano e il suo popolo, perché cammini sempre nella luce di Cristo. Grazie a Dio per il dono di San Charbel! Grazie a voi, che ne custodite la memoria. Camminate nella luce del Signore!
Carissimi fratelli nell’Episcopato,
sacerdoti, religiosi e religiose,
fratelli e sorelle, buongiorno!
Con grande gioia vi incontro durante questo viaggio, che ha per motto “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9). La Chiesa in Libano, unita nei suoi molteplici volti, è un’icona di queste parole, come affermava San Giovanni Paolo II, tanto affezionato al vostro Popolo: «Nel Libano di oggi – diceva – voi siete responsabili della speranza» (Messaggio ai cittadini del Libano, 1° maggio 1984); e aggiungeva: «Create, là dove vivete e lavorate, un clima fraterno. Senza ingenuità, sappiate dare fiducia agli altri e siate creativi per far trionfare la forza rigeneratrice del perdono e della misericordia» (ibid.).
Le testimonianze che abbiamo ascoltato – grazie a ciascuno di voi! – ci dicono che queste parole non sono state vane, anzi, che hanno trovato ascolto e risposta, perché qui si continua a costruire comunione nella carità.
Nelle parole del Patriarca, che ringrazio di cuore, possiamo cogliere la radice di questa tenacia, simboleggiata dalla grotta silenziosa in cui San Charbel pregava davanti all’immagine della Madre di Dio, e dalla presenza di questo Santuario di Harissa, segno di unità per tutto il Popolo libanese. È nello stare con Maria presso la Croce di Gesù (cfr Gv 19,25) che la nostra preghiera, ponte invisibile che unisce i cuori, ci dà la forza per continuare a sperare e a lavorare, anche quando attorno tuona il rumore delle armi e le stesse esigenze della vita quotidiana diventano una sfida.
Uno dei simboli contenuti nel “logo” di questo viaggio è l’ancora. Papa Francesco la evocava spesso nei suoi discorsi come segno della fede, che permette di andare sempre oltre, anche nei momenti più oscuri, fino al cielo. Diceva: «La nostra fede è l’ancora in cielo. Noi abbiamo la nostra vita ancorata in cielo. Cosa dobbiamo fare? Aggrapparci alla corda […]. E andiamo avanti perché siamo sicuri che la nostra vita ha come un’ancora nel cielo, su quella riva dove arriveremo» (Udienza generale, 26 aprile 2017). Se vogliamo costruire pace ancoriamoci al Cielo e, lì saldamente diretti, amiamo senza timore di perdere ciò che passa e doniamo senza misura.
Da queste radici, forti e profonde come quelle dei cedri, l’amore cresce e, con l’aiuto di Dio, prendono vita opere concrete e durature di solidarietà.
Padre Youhanna ci ha parlato di Debbabiyé, il piccolo villaggio in cui svolge il suo ministero. Là, pur nel bisogno più estremo e sotto la minaccia dei bombardamenti, cristiani e musulmani, libanesi e profughi d’oltre confine, convivono pacificamente e si aiutano a vicenda. Fermiamoci sull’immagine, che lui stesso ha suggerito, della moneta siriana trovata nella borsa delle elemosine insieme a quelle libanesi. È un particolare importante: ci ricorda che nella carità ciascuno di noi ha qualcosa da dare e da ricevere, e che il nostro donarci a vicenda ci arricchisce tutti e ci avvicina a Dio. Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in questo Paese, parlando della potenza unificatrice dell’amore anche nei momenti di prova, diceva: «È proprio adesso che bisogna celebrare la vittoria dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta, del servizio sul dominio, dell’umiltà sull’orgoglio, dell’unità sulla divisione, […] saper convertire le nostre sofferenze in grido d’amore verso Dio e di misericordia verso il prossimo» (Discorso durante la Visita alla Basilica di St. Paul a Harissa, 14 settembre 2012).
Solo così non si rimane schiacciati dall’ingiustizia e dal sopruso, anche quando, come abbiamo sentito, si è traditi da persone e organizzazioni che speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative. Solo così si può tornare a sperare per il domani, pur nella durezza di un presente difficile da affrontare. In proposito, penso alla responsabilità che tutti abbiamo, in tal senso, nei confronti dei giovani. È importante favorire la loro presenza, anche nelle strutture ecclesiali, apprezzandone l’apporto di novità e dando loro spazio. Ed è necessario, pur tra le macerie di un mondo che ha i suoi dolorosi fallimenti, offrire loro prospettive concrete e praticabili di rinascita e di crescita per il futuro.
Loren ci ha parlato del suo impegno nell’aiuto ai migranti. Migrante lei stessa, da tempo è impegnata a sostenere chi, non per scelta ma per necessità, ha dovuto lasciare tutto per cercare lontano da casa un avvenire possibile. La storia di James e Lela, che lei ha raccontato, ci tocca profondamente, e mostra l’orrore di ciò che la guerra produce nella vita di tante persone innocenti. Papa Francesco ci ha ricordato più volte, nei suoi discorsi e nei suoi scritti, che di fronte a drammi simili non possiamo restare indifferenti, e che il loro dolore ci riguarda e ci interpella (cfr Omelia nella Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 29 settembre 2019). Da una parte, il loro coraggio ci parla della luce di Dio che, come ha detto Loren, risplende anche nei momenti più bui; dall’altra, però, ciò che hanno vissuto ci impone di impegnarci, affinché nessuno debba più fuggire dal suo Paese a causa di conflitti assurdi e spietati, e affinché chi bussa alla porta delle nostre comunità non si senta mai respinto, ma accolto con le parole che Loren stessa ha citato: “Benvenuto a casa!”.
Di questo ci parla anche la testimonianza di suor Dima, che ha scelto, di fronte all’esplodere della violenza, di non abbandonare il campo, ma di tenere aperta la scuola, facendone un luogo di accoglienza per i profughi e un polo educativo di straordinaria efficacia. In quelle stanze, infatti, oltre a dare assistenza e aiuto materiale, si impara e si insegna a condividere “pane, paura e speranza”, ad amare in mezzo all’odio, a servire anche nella stanchezza e a credere in un futuro diverso al di là di ogni aspettativa. La Chiesa in Libano ha sempre curato molto l’istruzione. Incoraggio tutti voi a continuare in quest’opera lodevole, venendo incontro soprattutto a chi è nel bisogno e non ha mezzi, a chi si trova in situazioni estreme, con scelte improntate alla carità più generosa, perché alla formazione della mente sia sempre unita l’educazione del cuore. Ricordiamoci che la nostra prima scuola è la Croce e che l’unico nostro Maestro è il Cristo (cfr Mt 23,10).
Padre Charbel, in proposito, parlando della sua esperienza di apostolato nelle carceri, ha detto che proprio lì, dove il mondo vede solo muri e crimini, negli occhi dei detenuti, a volte smarriti, a volte illuminati da una nuova speranza, noi vediamo la tenerezza del Padre che non si stanca mai di perdonare. Ed è proprio così: vediamo il volto di Gesù, riflesso in quello di chi soffre e di chi si prende cura delle ferite che la vita ha provocato. Tra poco faremo il gesto simbolico della consegna della Rosa d’oro a questo Santuario. È un gesto antico, che ha tra i suoi significati quello di esortarci ad essere, con la nostra vita, profumo di Cristo (cfr 2Cor 2,14). Davanti a questa immagine, mi viene da pensare al profumo che sale dalle tavole libanesi, tipiche per la varietà dei cibi che offrono e per la forte dimensione comunitaria del condividerli. È un profumo fatto di mille profumi, che colpiscono nella loro diversità e talvolta nel loro insieme. È così il profumo di Cristo. Non è un prodotto costoso riservato a pochi che se lo possono permettere, ma l’aroma che si sprigiona da una mensa generosa su cui trovano posto tante pietanze diverse e da cui tutti possono attingere insieme. Sia questo lo spirito del rito che ci apprestiamo a compiere, e soprattutto quello con cui ogni giorno ci sforziamo di vivere uniti nell’amore.
Incontro ecumenico e interreligioso in Piazza dei Martiri a Beirut
Cari fratelli e sorelle,
sono profondamente commosso e immensamente grato di poter essere tra voi oggi, in questa terra benedetta: una terra esaltata dai profeti dell’Antico Testamento, che contemplarono nei suoi cedri imponenti emblemi dell’anima giusta che fiorisce sotto lo sguardo vigile del cielo; una terra dove l’eco del Logos non è mai caduta nel silenzio, ma continua a richiamare, di secolo in secolo, coloro che desiderano aprire il loro cuore al Dio vivente.
Nella sua Esortazione Apostolica Post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente, firmata qui a Beirut nel 2012, Papa Benedetto XVI ha sottolineato che «la natura e la vocazione universale della Chiesa esigono che essa sia in dialogo con i membri delle altre religioni. Questo dialogo in Medio Oriente è basato sui legami spirituali e storici che uniscono i cristiani agli ebrei e ai musulmani. Questo dialogo, che non è principalmente dettato da considerazioni pragmatiche di ordine politico o sociale, poggia anzitutto su basi teologiche che interpellano la fede» (n. 19).
Cari amici, la vostra presenza qui oggi, in questo luogo straordinario dove minareti e campanili stanno fianco a fianco, eppure entrambi si slanciano verso il cielo, testimonia la fede duratura di questa terra e la persistente dedizione del suo popolo all’unico Dio. In questa amata terra possano suonare insieme ogni campana e ogni adhān: possa ogni richiamo alla preghiera fondersi in un unico inno, elevato non solo per glorificare il misericordioso Creatore del cielo e della terra, ma anche per implorare di vero cuore il dono divino della pace.
Per molti anni, e soprattutto negli ultimi tempi, gli occhi del mondo sono stati puntati sul Medio Oriente, la culla delle religioni abramitiche, osservando l’arduo cammino e la incessante ricerca del dono prezioso della pace. Talvolta l’umanità guarda al Medio Oriente con un senso di timore e scoraggiamento, di fronte a conflitti così complessi e di lunga data. Eppure, in mezzo a queste lotte, si può trovare speranza e incoraggiamento quando ci concentriamo su ciò che ci unisce: la nostra comune umanità e la nostra fede in un Dio di amore e misericordia. Lungo un’epoca in cui la convivenza può sembrare un sogno lontano, il popolo del Libano, pur abbracciando religioni diverse, rappresenta un potente esempio: paura, sfiducia e pregiudizio non hanno qui l’ultima parola, mentre l’unità, la riconciliazione e la pace sono sempre possibili. Ecco, dunque, la missione che rimane immutata nella storia di questa amata terra: testimoniare la verità duratura che cristiani, musulmani, drusi e innumerevoli altri possono vivere insieme, costruendo un paese unito dal rispetto e dal dialogo.
Sessant’anni fa, con la promulgazione della Dichiarazione Nostra Aetate, il Concilio Vaticano II aprì un nuovo orizzonte per l’incontro e il rispetto reciproco tra cattolici e persone di diverse religioni, sottolineando che il vero dialogo e la collaborazione hanno radici nell’amore, unica base per la pace, la giustizia e la riconciliazione. Questo dialogo, ispirato dall’amore divino, abbraccia tutte le persone di buona volontà, e respinge pregiudizi, discriminazioni, persecuzioni affermando l’uguale dignità di ogni essere umano.
Sebbene il ministero pubblico di Gesù si sia svolto principalmente in Galilea e in Giudea, i Vangeli riportano anche episodi in cui egli visitò la regione della Decapoli – nonché i dintorni di Tiro e Sidone –, dove incontrò la donna siro-fenicia, la cui incrollabile fede lo portò a guarire sua figlia (cfr Mc 7,24-30). Perciò, questa terra significa più di un semplice luogo d’incontro tra Gesù e una madre implorante: diventa un luogo in cui umiltà, fiducia e perseveranza superano ogni barriera e incontrano l’amore sconfinato di Dio, che abbraccia ogni cuore umano. In effetti, questo è «il nucleo stesso del dialogo interreligioso: la scoperta della presenza di Dio al di là di ogni confine e l’invito a cercarlo insieme con riverenza e umiltà» (Udienza Generale, Catechesi in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, 29 ottobre 2025). Se il Libano è rinomato per i suoi maestosi cedri, anche l’olivo rappresenta una pietra miliare del suo patrimonio. L’olivo non solo abbellisce lo spazio in cui ci riuniamo oggi, ma è anche lodato nei testi sacri del Cristianesimo, dell’Ebraismo e dell’Islam, servendo come simbolo senza tempo di riconciliazione e pace. La sua lunga vita e la straordinaria capacità di prosperare anche negli ambienti più difficili simboleggiano resistenza e speranza, nonché quel perdurante impegno, che è necessario per coltivare una convivenza pacifica.
Da questo albero è tratto un olio che guarisce – un balsamo per le ferite fisiche e spirituali – manifestando la compassione infinita di Dio per tutti coloro che soffrono. Inoltre, l’olio fornisce anche luce, richiamando l’appello ad illuminare i nostri cuori attraverso la fede, la carità e l’umiltà.
Come le radici dei cedri e degli ulivi penetrano in profondità e si estendono ampiamente sulla terra, così anche il popolo libanese è sparso in tutto il mondo, ma unito dalla forza duratura e dal patrimonio senza tempo della vostra terra natale. La vostra presenza qui e nel mondo arricchisce la terra con il vostro patrimonio millenario, ma rappresenta anche una vocazione. In una globalità sempre più interconnessa, siete chiamati a essere costruttori di pace: a contrastare l’intolleranza, superare la violenza e bandire l’esclusione, illuminando il cammino verso la giustizia e la concordia per tutti, attraverso la testimonianza della vostra fede.
Cari fratelli e sorelle, il 25 marzo di ogni anno, celebrato come festa nazionale nel vostro paese, vi riunite per onorare Maria, Nostra Signora del Libano, venerata nel suo santuario a Harissa, che è adornato da un’imponente statua della Vergine con le braccia aperte, per abbracciare tutto il popolo libanese. Possa questo amorevole e materno abbraccio della Vergine Maria, Madre di Gesù e Regina della Pace, guidare ciascuno di voi, affinché nella vostra patria, in tutto il Medio Oriente e in tutto il mondo, il dono della riconciliazione e della pacifica convivenza scorra «come i ruscelli che scorrono dal Libano» (cfr Ct 4,15). Che essi portino speranza e unità a tutti. Grazie!
Incontro con i giovani nel piazzale antistante il Patriarcato di Antiochia dei Maroniti a Bkerké
Assalamu lakum! (la pace sia con voi)
Cari giovani del Libano, assalamu lakum!
Questo è il saluto di Gesù risorto (cfr Gv 20,19) e sostiene la gioia del nostro incontro: l’entusiasmo che sentiamo nel cuore esprime l’amorevole vicinanza di Dio, che ci riunisce come fratelli e sorelle per condividere la fede in Lui e la comunione fra di noi.
Ringrazio tutti voi per il calore col quale mi avete accolto, così come Sua Beatitudine per le cordiali parole di benvenuto. In modo particolare saluto i giovani provenienti dalla Siria e dall’Iraq, e i libanesi venuti in patria da vari Paesi. Siamo tutti radunati qui per ascoltarci gli uni gli altri e per chiedere al Signore di ispirare le nostre scelte future. A questo proposito, le testimonianze che Anthony e Maria, Elie e Joelle hanno condiviso con noi ci aprono davvero il cuore e la mente.
I loro racconti parlano di coraggio nella sofferenza. Parlano di speranza nella delusione, di pace interiore nella guerra. Sono come stelle lucenti in una notte buia, nella quale già scorgiamo il chiarore dell’aurora. In tutti questi contrasti, molti tra noi possono riconoscere le loro stesse esperienze, nel bene come nel male. La storia del Libano è intessuta di pagine gloriose, ma è segnata anche da ferite profonde, che stentano a rimarginarsi. Queste ferite hanno cause che travalicano i confini nazionali e si intrecciano con dinamiche sociali e politiche molto complesse. Carissimi giovani, forse vi rammaricate di aver ereditato un mondo lacerato da guerre e sfigurato dalle ingiustizie sociali. Eppure c’è speranza, e c’è speranza dentro di voi! Voi avete un dono che tante volte a noi adulti sembra ormai sfuggire. Voi avete speranza! E voi avete il tempo! Avete più tempo per sognare, organizzare e compiere il bene. Voi siete il presente e tra le vostre mani già si sta costruendo il futuro! E avete l’entusiasmo per cambiare il corso della storia! La vera resistenza al male non è il male, ma l’amore, capace di guarire le proprie ferite, mentre si curano quelle degli altri.
La dedizione di Anthony e Maria per chi era nel bisogno, la perseveranza di Elie e la generosità di Joelle sono profezie di un futuro nuovo, da annunciare con la riconciliazione e con l’aiuto reciproco. Si avvera così la parola di Gesù: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» e «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,5.9). Cari giovani, vivete alla luce del Vangelo, e sarete beati agli occhi del Signore!
La vostra patria, il Libano, rifiorirà bella e vigorosa come il cedro, simbolo dell’unità e della fecondità del popolo. Voi sapete bene che la forza del cedro è nelle radici, che normalmente hanno le stesse dimensioni dei rami. Il numero e la forza dei rami corrisponde al numero e alla forza delle radici. Allo stesso modo, il tanto bene che oggi vediamo nella società libanese è il risultato del lavoro umile, nascosto e onesto di tanti operatori di bene, di tante radici buone che non vogliono far crescere solo un ramo del cedro libanese, ma tutto l’albero, in tutta la sua bellezza. Attingete dalle radici buone dell’impegno di chi serve la società e non “se ne serve” per i propri interessi. Con un generoso impegno per la giustizia, progettate insieme un futuro di pace e di sviluppo. Siate la linfa di speranza che il Paese attende!
A questo proposito, le vostre domande permettono di tracciare un cammino certamente impegnativo, ma proprio perciò appassionante.
Mi avete chiesto dove trovare il punto fermo per perseverare nell’impegno per la pace. Carissimi, questo punto fermo non può essere un’idea, un contratto o un principio morale. Il vero principio di vita nuova è la speranza che viene dall’alto: è Cristo! Gesù è morto e risorto per la salvezza di tutti. Egli, il Vivente, è il fondamento della nostra fiducia; Egli è il testimone della misericordia che redime il mondo da ogni male. Come ricorda Sant’Agostino, riecheggiando l’apostolo Paolo, «in Lui è la nostra pace, e da Lui viene la nostra pace» (Commento al Vangelo di Giovanni, LXXVII, 3). La pace non è autentica se è solo frutto di interessi di parte, ma è davvero sincera quando io faccio all’altro quello che vorrei l’altro facesse a me (cfr Mt 7,12). Con animo ispirato, San Giovanni Paolo II diceva che «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono» (Messaggio per la XXXV Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2002). È proprio così: dal perdono viene la giustizia, che è fondamento della pace.
La vostra seconda domanda può allora trovare risposta proprio in questa dinamica. È vero, viviamo tempi nei quali le relazioni personali appaiono fragili e si consumano come se fossero oggetti. Anche tra i più giovani, a volte, alla fiducia nel prossimo si contrappone l’interesse individuale, alla dedizione verso l’altro si preferisce il proprio tornaconto. Questi atteggiamenti rendono superficiali anche parole bellissime come l’amicizia e l’amore, che spesso vengono confuse con un senso di soddisfazione egoistica. Se al centro di una relazione di amicizia o di amore c’è il nostro io, questa relazione non può essere feconda. Allo stesso modo, non si ama davvero se si ama a termine, finché dura un sentimento: un amore a scadenza è un amore scadente. Al contrario, l’amicizia è vera quando dice “tu” prima di “io”. Questo sguardo rispettoso e accogliente verso l’altro ci consente di costruire un “noi” più grande, aperto all’intera società, a tutta l’umanità. E l’amore è autentico e può durare per sempre solo quando riflette lo splendore eterno di Dio, Dio che è amore (cfr 1Gv 4,8). Relazioni solide e feconde si costruiscono insieme sulla reciproca fiducia, su questo “per sempre”, che palpita in ogni vocazione alla vita familiare e alla consacrazione religiosa.
Carissimi giovani, cos’è che più di qualsiasi cosa esprime la presenza di Dio nel mondo? L’amore, la carità! La carità parla un linguaggio universale, perché parla ad ogni cuore umano. Essa non è un ideale, ma una storia rivelata nella vita di Gesù e dei santi, che sono nostri compagni tra le prove della vita. Guardate in particolare a tanti giovani che, come voi, non si sono lasciati scoraggiare dalle ingiustizie e dalle contro-testimonianze ricevute, anche nella Chiesa, ma hanno provato a tracciare nuove strade, alla ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia. Con la forza che ricevete da Cristo, costruite un mondo migliore di quello che avete trovato! Voi giovani siete più diretti nel cucire relazioni con gli altri, anche diversi per background culturale e religioso. Il vero rinnovamento, che un cuore giovane desidera, comincia dai gesti quotidiani: dall’accoglienza del vicino e del lontano, dalla mano tesa all’amico e al profugo, dal difficile ma doveroso perdono del nemico.
Guardiamo a quanti esempi stupendi ci hanno lasciato i santi! Pensiamo a Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, due giovani che sono stati canonizzati in quest’anno santo del Giubileo. Guardiamo ai tanti santi libanesi. Quale bellezza singolare è manifesta nella vita di Santa Rafqua, che con forza e mitezza resistette per anni al dolore della malattia! Quanti gesti di compassione ha compiuto il Beato Yakub El-Haddad, aiutando le persone più abbandonate e dimenticate da tutti!
Quale luce potente proviene dalla penombra in cui decise di ritirarsi San Charbel, lui che è divenuto uno dei simboli del Libano nel mondo! I suoi occhi sono raffigurati sempre chiusi, come per trattenere un mistero infinitamente più grande. Attraverso gli occhi di San Charbel, chiusi per vedere meglio Dio, noi continuiamo a cogliere con più chiarore la luce di Dio. È bellissimo il canto a lui dedicato: “O tu che dormi e i tuoi occhi sono luce per i nostri, sulle tue palpebre è fiorito un grano d’incenso”. Cari giovani, anche sui vostri occhi brilli la luce divina e fiorisca l’incenso della preghiera. In un mondo di distrazioni e vanità, ogni giorno abbiate un tempo per chiudere gli occhi e per guardare solo Dio. Egli, se a volte sembra essere silenzioso o assente, si rivela a chi lo cerca nel silenzio. Mentre vi impegniate nel fare il bene, vi chiedo di essere contemplativi come San Charbel: pregando, leggendo la Sacra Scrittura, partecipando alla Santa Messa, sostando in adorazione. Papa Benedetto XVI diceva ai cristiani del Levante: «Vi invito a coltivare continuamente l’amicizia vera con Gesù attraverso la forza della preghiera» (Esort. ap. Ecclesia in Medio Orientee, 63).
Miei cari amici, tra tutti i santi e le sante risplende la Tutta Santa, Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Molti giovani portano la corona del Rosario sempre con sé in tasca, al polso o al collo. Com’è bello guardare a Gesù con gli occhi del cuore di Maria! Anche da qui, dove siamo in questo momento, com’è dolce sollevare lo sguardo alla Nostra Signora del Libano, con speranza e fiducia!
Cari giovani, permettetemi infine di consegnarvi la preghiera, semplice e bellissima, attribuita a San Francesco d’Assisi: «O Signore, fa’ di me uno strumento della tua Pace: dove è odio, fa che io porti l’Amore; dove è offesa, che io porti il perdono; dove è discordia, che io porti l’unione; dove è dubbio, che io porti la fede; dove è errore, che io porti la verità; dove è disperazione, che io porti la speranza; dove è tristezza, che io porti la gioia; dove sono le tenebre, che io porti la luce». Questa preghiera mantenga viva in voi la gioia del Vangelo, l’entusiasmo cristiano. “Entusiasmo” significa “avere Dio nell’animo”: quando il Signore abita in noi, la speranza che Lui ci dona diventa feconda per il mondo. Vedete, la speranza è una virtù povera, perché si presenta a mani vuote: sono mani libere per aprire le porte che sembrano chiuse dalla fatica, dal dolore e dalla delusione.
Il Signore sarà sempre con voi, e state certi del sostegno di tutta la Chiesa nelle sfide decisive della vostra vita e nella storia del vostro amato Paese. Vi affido alla protezione della Madre di Dio e Nostra Signora, che dalla sommità di questo monte guarda a questa nuova fioritura. Giovani libanesi, crescete vigorosi come i cedri e fate fiorire il mondo di speranza!
Grazie a tutti! Shukran!
Visita agli operatori e assistiti dell’Ospedale “De la Croix” a Jal ed Dib
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Buongiorno! (in arabo)
Grazie per la vostra calorosa accoglienza! Grazie! (in arabo)
Sono contento di incontrarvi, era un mio desiderio, perché qui abita Gesù: sia in voi ammalati, sia in voi che ne avete cura, le Suore, i medici e tutti gli operatori sanitari e il personale. Vorrei anzitutto salutarvi con affetto e assicurarvi che siete nel mio cuore e nelle mie preghiere. E vi ringrazio per il bell’inno che avete cantato! Grazie al coro e ai compositori: è un messaggio di speranza!
Questo ospedale è stato fondato dal Beato Padre Jacques, Padre Yaakub, instancabile apostolo della carità di cui ricordiamo la santità della vita, che si è manifestata in particolare nell’amore per i più poveri e sofferenti. Le Suore Francescane della Croce, da lui fondate, continuano la sua opera e svolgono un prezioso servizio: grazie, care Sorelle, per la missione che portate avanti con gioia e dedizione!
Vorrei anche salutare con tanta gratitudine il personale dell’Ospedale. La vostra presenza competente e premurosa e la cura degli ammalati sono un segno tangibile dell’amore compassionevole di Cristo. Siete come il buon samaritano, che si ferma presso chi è ferito e se ne prende cura per sollevarlo e guarirlo. A volte può sopraggiungere la stanchezza o lo scoraggiamento, soprattutto per le condizioni non sempre favorevoli in cui vi trovate a lavorare; vi incoraggio a non perdere la gioia di questa missione e, nonostante qualche difficoltà, vi invito ad avere sempre davanti a voi il bene che avete possibilità di realizzare. È una grande opera agli occhi di Dio!
Quanto si vive in questo luogo è un monito per tutti, per la vostra terra ma anche per l’intera umanità: non possiamo dimenticarci dei più fragili, non possiamo immaginare una società che corre a tutta velocità aggrappandosi ai falsi miti del benessere, ignorando tante situazioni di povertà e di fragilità. In particolare noi cristiani, che siamo la Chiesa del Signore Gesù, siamo chiamati a prenderci cura dei poveri: il Vangelo stesso ce lo chiede e – non dimentichiamolo – il grido dei poveri che attraversa anche la Scrittura ci interpella: «Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo» (Esort. ap. Dilexi te, 9).
A voi, cari fratelli e sorelle segnati dalla malattia, vorrei solo ricordare che siete nel cuore di Dio nostro Padre. Egli vi porta sul palmo delle sue mani, vi accompagna con amore, vi offre la sua tenerezza attraverso le mani e i sorrisi di chi si prende cura della vostra vita. A ciascuno di voi oggi il Signore ripete: ti amo, ti voglio bene, sei mio figlio! Non dimenticatelo mai!
Grazie a tutti! Shukrán! Allah ma’akum (Grazie! Dio sia con voi)
Santa Messa presso il "Beirut Waterfront"
Cari fratelli e sorelle,
Al termine di queste giornate intense, che abbiamo condiviso con gioia, celebriamo il nostro rendimento di grazie al Signore per tanti doni della sua bontà, per come si fa presente in mezzo a noi, per la Parola che ci offre in abbondanza e per quanto ci ha donato di vivere insieme.
Anche Gesù – come abbiamo appena ascoltato nel Vangelo – ha parole di gratitudine per il Padre e, rivolgendosi a Lui, prega dicendo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra» (Lc 10,21).
La dimensione della lode, però, non sempre trova spazio dentro di noi. A volte, appesantiti dalle fatiche della vita, preoccupati per i numerosi problemi che ci circondano, paralizzati dall’impotenza dinanzi al male e oppressi da tante situazioni difficili, siamo più portati alla rassegnazione e al lamento, che allo stupore del cuore e al ringraziamento.
L’invito a coltivare sempre atteggiamenti di lode e di gratitudine, lo rivolgo proprio a voi, caro popolo libanese. A voi che siete destinatari di una bellezza rara con la quale il Signore ha impreziosito la vostra terra e che, al contempo, siete spettatori e vittime di come il male, in molteplici forme, possa offuscare questa magnificenza.
Da questa spianata che si affaccia sul mare, anch’io posso contemplare la bellezza del Libano cantata dalla Scrittura. Il Signore vi ha piantato i suoi alti cedri, nutrendoli e saziandoli (cfr Sal 104,16), ha reso profumate le vesti della sposa del Cantico dei Cantici col profumo di questa terra (cfr Ct 4,11) e a Gerusalemme, città santa rivestita di luce per la venuta del Messia, Egli annuncia: «La gloria del Libano verrà a te, con cipressi, olmi e abeti, per abbellire il luogo del mio santuario, per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi» (Is 60,13).
Allo stesso tempo, però, tale bellezza è oscurata da povertà e sofferenze, da ferite che hanno segnato la vostra storia – sono appena stato a pregare nel luogo dell’esplosione, al porto –; è oscurata da tanti problemi che vi affliggono, da un contesto politico fragile e spesso instabile, dalla drammatica crisi economica che vi opprime, dalla violenza e dai conflitti che hanno risvegliato antiche paure.
In uno scenario di questo tipo, la gratitudine cede facilmente il posto al disincanto, il canto della lode non trova spazio nella desolazione del cuore, la sorgente della speranza viene disseccata dall’incertezza e dal disorientamento.
La Parola del Signore, però, ci invita a trovare le piccole luci splendenti nel cuore della notte, sia per aprirci alla gratitudine che per spronarci all’impegno comune a favore di questa terra.
Come abbiamo ascoltato, il motivo del ringraziamento di Gesù al Padre non è per opere straordinarie, ma perché rivela la sua grandezza proprio ai piccoli e agli umili, a coloro che non attirano l’attenzione, che sembrano contare poco o niente, che non hanno voce. Il Regno che Gesù viene a inaugurare, infatti, ha proprio questa caratteristica di cui ci ha parlato il profeta Isaia: è un germoglio, un piccolo virgulto che spunta su un tronco (cfr Is 11,1), una piccola speranza che promette la rinascita quando tutto sembra morire. Così viene annunciato il Messia e, venendo nella piccolezza di un germoglio, può essere riconosciuto solo dai piccoli, da coloro che senza grandi pretese sanno riconoscere i dettagli nascosti, le tracce di Dio in una storia apparentemente perduta.
È un’indicazione anche per noi, perché possiamo avere occhi per riconoscere la piccolezza del germoglio che spunta e cresce pur dentro avvenimenti dolorosi. Piccole luci che risplendono nella notte, piccoli virgulti che spuntano, piccoli semi piantati nell’arido giardino di questo tempo storico possiamo vederli anche noi, anche qui, anche oggi. Penso alla vostra fede semplice e genuina, radicata nelle vostre famiglie e alimentata dalle scuole cristiane; penso al lavoro costante delle parrocchie, delle congregazioni e dei movimenti per andare incontro alle domande e alle necessità della gente; penso ai tanti sacerdoti e religiosi che si spendono nella loro missione in mezzo a molteplici difficoltà; penso ai laici come voi impegnati nel campo della carità e nella promozione del Vangelo nella società. Per queste luci che faticosamente cercano di illuminare il buio della notte, per questi germogli piccoli e invisibili che aprono però la speranza nel futuro, oggi dobbiamo dire come Gesù: “ti rendiamo lode, o Padre!”. Ti ringraziamo perché sei con noi e non ci lasci vacillare.
Allo stesso tempo, questa gratitudine non deve rimanere una consolazione intimistica e illusoria. Deve portarci alla trasformazione del cuore, alla conversione della vita, a considerare che è proprio nella luce della fede, nella promessa della speranza e nella gioia della carità che Dio ha pensato la nostra vita. E, perciò, tutti noi siamo chiamati a coltivare questi virgulti, a non scoraggiarci, a non cedere alla logica della violenza e all’idolatria del denaro, a non rassegnarci dinanzi al male che dilaga.
Ciascuno deve fare la sua parte e tutti dobbiamo unire gli sforzi perché questa terra possa ritornare al suo splendore. E abbiamo un solo modo per farlo: disarmiamo i nostri cuori, facciamo cadere le corazze delle nostre chiusure etniche e politiche, apriamo le nostre confessioni religiose all’incontro reciproco, risvegliamo nel nostro intimo il sogno di un Libano unito, dove trionfino la pace e la giustizia, dove tutti possano riconoscersi fratelli e sorelle e dove, finalmente, possa realizzarsi quanto ci descrive il profeta Isaia: «Il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme» (Is 11,6).
Questo è il sogno a voi affidato, è ciò che il Dio della pace mette nelle vostre mani. Libano, rialzati! Sii casa di giustizia e di fraternità! Sii profezia di pace per tutto il Levante!
Fratelli e sorelle, vorrei dire anch’io ripetendo le parole di Gesù: “Ti rendo lode o Padre”. Elevo la mia gratitudine al Signore per aver condiviso con voi questi giorni, mentre porto nel cuore le vostre sofferenze e le vostre speranze. Prego per voi, perché questa terra del Levante sia sempre illuminata dalla fede in Gesù Cristo, sole di giustizia, e grazie a Lui custodisca la speranza che non tramonta.
Appello al termine della Santa Messa
Cari fratelli e sorelle,
in questi giorni, con il mio primo Viaggio Apostolico, compiuto durante l’Anno giubilare, ho desiderato farmi pellegrino di speranza nel Medio Oriente, implorando da Dio il dono della pace per questa amata terra, segnata da instabilità, guerre e dolore.
Cari cristiani del Levante, quando i risultati dei vostri sforzi di pace tardano ad arrivare, vi invito ad alzare lo sguardo al Signore che viene! Guardiamo a Lui con speranza e coraggio, invitando tutti a incamminarsi sulla via della convivenza, della fraternità e della pace. Siate costruttori di pace, annunciatori di pace, testimoni di pace!
Il Medio Oriente ha bisogno di atteggiamenti nuovi, per rifiutare la logica della vendetta e della violenza, per superare le divisioni politiche, sociali e religiose, per aprire capitoli nuovi all’insegna della riconciliazione e della pace. La via dell’ostilità reciproca e della distruzione nell’orrore della guerra è stata percorsa troppo a lungo, con i risultati deplorevoli che sono sotto gli occhi di tutti. Occorre cambiare strada, occorre educare il cuore alla pace.
Da questa piazza, prego per il Medio Oriente e per tutti i popoli che soffrono a causa della guerra. Offro anche preghiere auspicando una pacifica soluzione delle attuali controversie politiche in Guinea Bissau. E non dimentico le vittime dell’incendio a Hong Kong e le loro famiglie.
Prego in modo speciale per l’amato Libano! Chiedo nuovamente alla comunità internazionale di non risparmiare alcuno sforzo nel promuovere processi di dialogo e riconciliazione. Rivolgo un accorato appello a quanti sono investiti di autorità politica e sociale, qui e in tutti i Paesi segnati da guerre e violenze: ascoltate il grido dei vostri popoli che invocano pace! Mettiamoci tutti al servizio della vita, del bene comune, dello sviluppo integrale delle persone.
E a voi, cristiani del Levante, cittadini a pieno titolo di queste terre, ripeto: coraggio! Tutta la Chiesa guarda a voi con affetto e ammirazione. La Vergine Maria, Nostra Signora di Harissa, vi protegga sempre!
Cerimonia di congedo presso l'Aeroporto Internazionale di Beirut
Signor Presidente,
Signori Presidenti del Parlamento e del Consiglio dei Ministri,
Beatitudini e Fratelli nell’episcopato,
Autorità civili e religiose,
sorelle e fratelli tutti!
Partire è più difficile che arrivare. Siamo stati insieme, e in Libano stare insieme è contagioso: ho trovato qui un popolo che non ama l’isolamento, ma l’incontro. Così, se arrivare significava entrare con delicatezza nella vostra cultura, lasciare questa terra è portarvi nel cuore. Noi non ci lasciamo, dunque, ma essendoci incontrati andremo avanti insieme. E speriamo di coinvolgere in questo spirito di fraternità e di impegno per la pace tutto il Medio Oriente, anche chi oggi si considera nemico.
Sono grato, dunque, dei giorni trascorsi con voi e mi rallegro aver potuto realizzare il desiderio del mio amato Predecessore, Papa Francesco, che tanto avrebbe voluto essere qui. Lui, in realtà, è con noi, cammina con noi insieme ad altri testimoni del Vangelo che ci attendono nell’abbraccio eterno di Dio: siamo eredi di ciò che hanno creduto, della fede, della speranza e dell’amore che li hanno animati.
Ho visto di quanta venerazione il vostro popolo circonda la Beata Vergine Maria, tanto cara sia ai cristiani sia ai mussulmani. Ho pregato alla tomba di San Charbel, percependo le profonde radici spirituali di questo Paese: quanta linfa dalla vostra storia può sostenere il difficile cammino verso il futuro! Mi ha toccato il cuore la breve visita al porto di Beirut, dove l’esplosione ha devastato non soltanto un luogo, ma tante vite. Ho pregato per tutte le vittime e porto con me il dolore e la sete di verità e di giustizia di tante famiglie, di un intero Paese.
Ho incontrato, in questi pochi giorni, molti volti e stretto tante mani, ricevendo da questo contatto fisico e interiore un’energia di speranza. Siete forti come i cedri, gli alberi delle vostre belle montagne, e pieni di frutti come gli ulivi che crescono in pianura, nel sud e vicino al mare. Saluto, a questo proposito, tutte le regioni del Libano che non è stato possibile visitare: Tripoli e il nord, la Beqa’ e il sud del Paese, Tiro, Sidone – luoghi biblici –, tutte quelle aree, specialmente nel sud, che sperimentano una continua situazione di conflitto e di incertezza. A tutti il mio abbraccio e il mio augurio di pace. E anche un accorato appello: cessino gli attacchi e le ostilità. Nessuno creda più che la lotta armata porti qualche beneficio. Le armi uccidono, la trattativa, la mediazione e il dialogo edificano. Scegliamo tutti la pace come via, non soltanto come meta!
Ricordiamo quanto vi disse San Giovanni Paolo II: il Libano, più che un Paese, è un messaggio! Impariamo a lavorare insieme e a sperare insieme, perché sia realmente così.
Dio benedica i Libanesi, tutti voi, il Medio Oriente e l’intera umanità! Grazie e arrivederci! (in arabo)

