Meditazioni: Domenica della 14ª settimana del Tempo Ordinario (ciclo B)

Riflessioni per meditare nella domenica della quattordicesima settimana del Tempo Ordinario. I temi proposti sono: Un sguardo verticale; Toccare la propria debolezza; Una vita senza maschere.

- Un sguardo verticale

- Toccare la propria debolezza

- Una vita senza maschere


«A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli» (Sal 123, 1). Le parole del salmista ci ricordano una verità essenziale: abbiamo bisogno di alzare lo sguardo verso Dio. Sappiamo, per esperienza, che la visione orizzontale, meramente terrena, non basta a farci capire chi siamo, quali siano i nostre più profondi aneliti, qual è il senso della vita. Al contrario, la visione verticale, orientata a Dio, ci ricorda che il nostro principio e il nostro fine sono divini e non solamente terreni. Il nostro desiderio di trascendenza, la nostra nostalgia di Dio, risponde a una profonda realtà che nessuna creatura può soddisfare.

Eppure non sempre è facile riconoscere tale necessità di alzare lo sguardo al Signore. A volte può costare tenere lo sguardo verso l’alto, come pure le braccia per la lotta e per la preghiera, come quando Mosè chiedeva l’intercessione di Dio mentre gli israeliti cercavano di vincere sugli amaleciti (Cfr. Es 17, 11-13). Con frequenza percepiamo prossima la tentazione di lasciarci attrarre da realtà che non sono cattive in sé stesse, ma che possono arrivare a occupare il posto di Dio e ad annebbiare il nostro sguardo: il piacere, l’onore, la ricchezza, il potere... Quando volgiamo il nostro cuore esclusivamente verso tutto ciò e pretendiamo di saziare così la nostra sete di Dio, sappiamo che presto o tardi giunge la frustrazione, perchè in realtà siamo fatti per cose più preziose. Allora davanti ai nostri occhi si presentano due possibilità: o continuare a perseguire con maggior insistenza quei desideri terreni – che comunque ci lasceranno insoddisfatti, dato che, essendo, come sono, beni finiti, possono offrirci soltanto un limitato benessere – oppure mettere di nuovo al centro della nostra vita l’amore del Signore, come unico bene eterno e realmente necessario e dal quale tutto acquista il suo vero significato.

L’Antico Testamento ci racconta come il popolo di Israele, in tante occasioni, si dimenticò di Dio e adottò una visione orizzontale. Il Signore allora suscitò i profeti che ricordassero agli israeliti la loro vocazione originaria. Uno di loro è stato Ezechiele, al quale il Signore disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro» (Ez 2, 3-5). Noi cristiani, con la nostra testimonianza, possiamo ricordare che l’uomo è chiamato a molto più che divertirsi, mangiare, bere e spassarsela (cfr. Lc 12, 19). Guardiamo verso l’alto come risposta a una chiamata divina che ci farà felici in terra e in cielo.


«Desiderare significa tenere vivo il fuoco che arde dentro di noi e ci spinge a cercare oltre l’immediato, oltre il visibile. Desiderare è accogliere la vita come un mistero che ci supera, come una fessura sempre aperta che invita a guardare oltre, perché la vita non è “tutta qui”, è anche “altrove”»[1]. C’è in noi un fuoco che nasce da una solitudine originaria che ci spinge a cercare in Dio l’unico che può appagare questo fuoco, guarire le nostre ferite e saziare la nostra sete di compagnia. Come san Paolo, anche noi ci rendiamo conto delle nostre limitazioni, e chiediamo insistentemente che ci venga tolta la spina dalla nostra carne: quella che però, con la sua presenza, impedisce che ci riempiamo di superbia (cfr. 2Cor 12, 7-8).

Nel mentre preghiamo per comprendere le nostre ferite dall’interno delle piaghe aperte di Gesù in croce, ricordiamo la confortante risposta che il Signore diede a san Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9). In questo modo, riconosciamo che le debolezze personali non hanno l’ultima parola: sono lì per farci accogliere la grazia divina, per ricordarci che siamo forti nel Signore, di una fortezza che non è la nostra. Gli errori del passato cercano di incatenarci alla dimensione orizzontale, a credere che la nostra vita non potrà mai dispiegare le ali. La grazia, invece, ci proietta verso il futuro, ci porta verso l’alto, facendoci vedere che con l’aiuto della grazia divina siamo molto di più della nostra storia.

Accettare le proprie ferite e abbandonarle nelle mani di Dio, conduce alla gioia. «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze – scrive san Paolo –, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12, 9-10). Toccare la propria debolezza, invece di essere qualcosa di umiliante, può essere una fonte di gioia perchè aiuta a cogliere la grazia divina nella propria vita. E ci spingerà a lottare con speranza, sapendo che non contiamo soltanto sulle nostre forze. «Quando mi sento capace di tutti gli orrori e di tutti gli errori commessi dalle persone più abiette, capisco bene che posso non essere fedele… Ma questa incertezza è una delle premure dell’Amore di Dio, che mi porta a restare afferrato, come un bambino, alle braccia di mio Padre, lottando ogni giorno un po’ per non separarmi da Lui. Così sono sicuro che Dio non mi lascerà dalla sua mano»[2].


«Dio innalza nello stesso momento in cui umilia. Se l’anima è docile, se obbedisce, se accetta coraggiosamente la purificazione, se vive per fede, vedrà con una chiarezza inaspettata, che gli farà pensare di essere stato cieco dalla nascita»[3]. Se l’anima reagisce in questo modo, con fede e senso soprannaturale di fronte alle cose che all’inizio umiliano, troverà luce e vedrà. Non le succederà come agli abitanti di Nazaret, che di fronte alla predicazione di Gesù si sono scandalizzati e non lo hanno riconosciuto come Messia, nonostante l’avessero proprio davanti agli occhi. «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?» (Mc 6, 2-3).

A volte possiamo pensare che Dio e gli altri abbiano una buona opinione di noi soltanto perché conoscono la nostra versione migliore. Riteniamo che se scoprissero i nostri difetti e le nostre insicurezze, il loro giudizio cambierebbe totalmente. Per questo nascondiamo tutto ciò che potrebbe umiliarci, con le tensioni interne che questo determina, e confidiamo sulle sole nostre capacità personali per risolvere i nostri problemi. Questa impostazione, alla lunga, oltre a rivelarsi stancante, ci impedisce di accettare l’aiuto che il Signore e quelli che ci vogliono bene possano offrirci. E, al tempo stesso, può produrre in noi una certa difficoltà a comprendere le difficoltà degli altri. «Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità»[4].

Quando viviamo la nostra relazione con Dio e con gli altri senza maschere, possiamo far vedere che l’amore divino non pone condizioni. «Non devi aver paura che gli altri vedano i tuoi difetti personali, i tuoi e i miei – predicava san Josemaría –; io ci tengo a renderli pubblici, raccontando la mia lotta ascetica personale, il mio desiderio di rettificare in questo o quel punto della mia battaglia per essere leale verso il Signore. Lo sforzo per sradicare e vincere le nostre miserie sarà già un modo per indicare agli altri i sentieri divini»[5]. La Vergine Maria, madre buona, ci aiuti a considerare con tenerezza e comprensione gli errori nostri e altrui.


[1] Francesco, Omelia, 6 gennaio 2022.

[2] San Josemaría, Via Crucis, XIV stazione, n. 5.

[3] San Josemaría, Lettera 2, n. 17.

[4] Francesco, Patris Corde, n. 2.

[5] San Josemaría, Amici di Dio, n. 163.