Don Francesco Angelicchio, il parroco che ha saputo moltiplicare il bene

L’11 aprile 2024 ha avuto luogo presso la residenza universitaria Poggiolevante di Bari, la presentazione del volume “Il primo italiano dell’Opus Dei: monsignor Francesco Angelicchio”. All’evento hanno partecipato l’autore Fabio Angelicchio, Michele Crudele, che ha vissuto tanti anni con don Francesco, e mons. Francesco Cacucci, Arcivescovo emerito di Bari-Bitonto.

Francesco Angelicchio, primo italiano a chiedere l’ammissione all’Opus Dei, è stato responsabile del Centro Cattolico Cinematografico per quattro anni e parroco a San Giovanni Battista al Collatino per venticinque. Consapevole della vita straordinaria vissuta da suo zio, Fabio Angelicchio ha scritto il libro “Il primo italiano dell’Opus Dei: monsignor Francesco Angelicchio”, che è stato presentato l’11 aprile 2024, presso il Collegio per universitari Poggiolevante di Bari.

Nel corso dell’evento, moderato da Michele Crudele, che ha abitato con don Francesco per undici anni ed è direttore di Poggiolevante, l’autore, dialogando con mons. Francesco Cacucci, Arcivescovo emerito di Bari-Bitonto, ha raccontato vari episodi della vita di Francesco Angelicchio, tra i quali il primo incontro con il fondatore dell’Opus Dei, che quando lo vide per la prima volta lo definì “guapo”, ovvero “bello”. A quell’affermazione Francesco, che non si considerava di bell’aspetto, rispose: «A me bello non lo aveva mai detto nessuno, neppure mia madre».

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Le tasche come quelle di Eta Beta

Michele Crudele ha raccontato della relazione che don Francesco aveva con gli studenti dei collegi in cui abitava: «Entusiasmava chiunque lo conoscesse, faceva sempre un po’ di siparietto e poi tirava fuori dalla tasca un cioccolatino o qualcosa da regalare: le sue tasche erano come quelle di Eta Beta, il misterioso personaggio dei fumetti della Disney che estrae oggetti a non finire dalle tasche del suo gonnellino. C’era una parrocchiana che ogni mattina gli regalava un uovo di gallina, perché accanto alla parrocchia c’era anche un pollaio, e quindi lui spesso tirava fuori dalla tasca l’uovo».

Ma quali cavalli, ne hanno bisogno le persone anziane

Fabio Angelicchio, autore del libro “Il primo italiano dell’Opus Dei”, ha descritto la capacità di suo zio di raccogliere fondi, chiedendo soldi, senza vergognarsi, agli amici, soprattutto quelli più facoltosi, per le attività della parrocchia e per le opere di beneficenza. Tra le tante relazioni coltivate con persone del mondo dello spettacolo, un personaggio con cui Francesco Angelicchio aveva molta familiarità era Alberto Sordi: a lui chiese aiuto per la fondazione del Campus Biomedico di Roma, l’ospedale che tutela e promuove la persona umana nell’ambito dell’assistenza sanitaria, della formazione, della ricerca scientifica e dell’innovazione in ambito biomedico.

«Andammo da Giuseppe Sordi, fratello di Alberto - racconta Michele Crudele - per comprare il terreno a Trigoria, e siccome costava parecchio volevamo che intervenisse Alberto, che era co-proprietario, per farci uno sconto». Inizialmente Alberto Sordi non volle essere coinvolto, ma poi capì l’importanza del progetto del Campus Biomedico e decise di collaborare. «Sordi in realtà voleva donare quel terreno per farci un ricovero per i cavalli - aggiunge Fabio Angelicchio - e zio gli disse in romanesco: Ma quali cavalli, qui ci sono le persone anziane che ne hanno bisogno! E lo convinse».

«Lui aveva questa faccia tosta di utilizzare le sue amicizie importanti anche per cose apparentemente banali, ma che andavano a beneficio di tutti - aggiunge Michele Crudele -. Avevano deciso di togliere l’autobus che passava davanti al Centro Elis e lui tanto fece che riuscì a ottenere dall’ATAC (la società capitolina di trasporti pubblici) che mantenessero almeno le corse negli orari scolastici per permettere ai ragazzi di arrivare a scuola. Ricordo che, siccome questa operazione significava far fare all’autobus il giro di un isolato inutile, che faceva perdere tempo a chi doveva arrivare poi alla stazione Tiburtina, la gente si lamentava e diceva: Saranno stati quelli dell’Elis».

“Dalle stelle alle stalle”

Don Francesco è stato a capo del Centro Cattolico Cinematografico per quattro anni. In questo periodo don Francesco è stato scelto da papa Paolo VI per farsi consigliare film da vedere e ha collaborato con grandi registi, fino a quando nel 1968 ha sentito di dover lasciare l’incarico comunicandolo a san Josemaría con una lettera.

Nel 1972 a don Francesco venne affidato il compito di guidare la parrocchia di San Giovanni Battista al Collatino. Allora il quartiere Tiburtino, come tante altre zone periferiche delle grandi città, era soggetto a manifestazioni e scioperi, e i parrocchiani erano stati convinti dai vicini che facevano parte del partito comunista a non frequentare la chiesa. Preoccupato dal contesto don Francesco parlò con san Josemaría, che gli rispose: «Figlio mio, come dice il vecchio adagio: se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto». Accolto il consiglio, don Francesco andò a visitare le famiglie della parrocchia, creando un legame con loro.

«C’erano parrocchiani - racconta Fabio Angelicchio – che erano detenuti a Rebibbia e in altre carceri. Una volta don Francesco si recò nel carcere nuovo di Pescara e, mentre percorreva il corridoio, uno dei detenuti si rivolse a lui come se avesse visto san Francesco: A’nvedi, c’è don Francesco… Lo abbracciò e gli disse: Ti ricordi di me? Io so’ un parrocchiano! E don Francesco gli rispose: Ex parrocchiano… adesso frequenti un’altra parrocchia!».

Il suo lavoro cinematografico resta nella storia, ma nella parrocchia di San Giovanni Battista al Collatino, dove è stato parroco per venticinque anni, don Francesco Angelicchio ha aiutato migliaia e migliaia di persone, moltiplicando il bene.


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