Viaggio apostolico di papa Francesco in Mongolia

Dal 31 agosto al 4 settembre 2023 papa Francesco si recherà in Mongolia per un viaggio apostolico. In questo articolo potrai trovare le omelie e i discorsi che pronuncerà durante il suo viaggio.

Giovedì, 31 agosto 2023

 Incontro del Santo Padre con i giornalisti durante il volo diretto a Ulaanbaatar

Sabato 2 settembre

Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico

Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Missionari, i Consacrati, le Consacrate e gli Operatori Pastorali

Domenica 3 settembre

Incontro Ecumenico e Interreligioso

Santa Messa: Omelia

Lunedì 4 settembre

Incontro con gli operatori della carità e inaugurazione della Casa della Misericordia


Incontro del Santo Padre con i giornalisti durante il volo diretto a Ulaanbaatar

Matteo Bruni

Buongiorno a tutti, buongiorno Santità. Siamo circa 70 giornalisti in questa occasione, pronti a viaggiare con Lei. Abbiamo ascoltato anche le parole all’Angelus di domenica scorsa in cui esprimeva la Sua felicità per questo viaggio a venire, per l’incontro con la Mongolia, questo Paese, il suo popolo e i cristiani che vi vivono. Siamo pronti ad ascoltare le Sue parole negli incontri che ci saranno nei prossimi giorni e intanto di incominciare questo incontro con Lei sull’aereo.

Papa Francesco

Grazie. Buon pomeriggio, buona sera. Grazie di questo incontro, grazie che voi siete venuti per questo viaggio: sono contento. E grazie per tutto il lavoro che farete. Adesso vorrei salutarvi. Grazie.

Un commento che ha fatto uno di voi mi ha ispirato a dirvi queste cose: andare in Mongolia è andare presso un popolo piccolo in una terra grande. La Mongolia sembra non finire e gli abitanti sono pochi, un popolo piccolo di grande cultura. Credo che ci farà bene capire questo silenzio, così lungo, così grande. Ci aiuterà capire cosa significa, ma non intellettualmente: capirlo con i sensi. La Mongolia si capisce con i sensi. Mi permetto di dire che farà bene forse ascoltare un po’ la musica di Borodin, che è stata capace di esprimere cosa significa questa lunghezza e grandezza della Mongolia. Grazie.


Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico

Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente del Grande Hural di Stato,
Signor Primo Ministro,
distinti Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
illustri Autorità civili e religiose,
insigni Rappresentanti del mondo della cultura,
Signore e Signori!

Ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le parole che mi ha rivolto, e porgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Sono onorato di essere qui, felice di aver viaggiato verso questa terra affascinante e vasta, verso questo popolo che ben conosce il significato e il valore del cammino. Lo rivelano le sue dimore tradizionali, le ger, bellissime case itineranti. Immagino di entrare per la prima volta, con rispetto ed emozione, in una di queste tende circolari che punteggiano la maestosa terra mongola, per incontrarvi e conoscervi meglio. Eccomi dunque all’ingresso, pellegrino di amicizia, giunto a voi in punta di piedi e con il cuore lieto, desideroso di arricchirmi umanamente alla vostra presenza.

Quando si entra in casa di amici, è bello scambiarsi dei doni, accompagnandoli con parole che evocano le precedenti occasioni di incontro. E se le moderne relazioni diplomatiche tra la Mongolia e la Santa Sede sono recenti – quest’anno ricorre il 30° anniversario della firma di una lettera per rafforzare i rapporti bilaterali –, ben più indietro nel tempo, esattamente 777 anni fa, proprio tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1246, Fra Giovanni di Pian del Carpine, inviato papale, visitò Guyug, il terzo imperatore mongolo, e presentò al Gran Khan la lettera ufficiale di Papa Innocenzo IV. Poco dopo fu redatta e tradotta in varie lingue la lettera di risposta, timbrata con il sigillo del Gran Khan in caratteri mongoli tradizionali. Essa è conservata nella Biblioteca Vaticana e oggi ho l’onore di porgervene una copia autenticata, eseguita con le tecniche più avanzate per garantirne la migliore qualità possibile. Possa essere segno di un’amicizia antica che cresce e si rinnova.

Ho saputo che dalla porta della ger, di prima mattina, i bambini delle vostre campagne stendono lo sguardo sul lontano orizzonte per contare i capi di allevamento e riferirne il numero ai genitori. Fa bene anche a noi abbracciare con lo sguardo l’ampio orizzonte che ci circonda, superando la ristrettezza di vedute anguste e aprendoci a una mentalità dal respiro globale, come invitano a fare le ger che, nate dall’esperienza del nomadismo delle steppe, si sono diffuse su un territorio vasto, divenendo elemento identificativo di diverse culture vicine. Gli spazi immensi delle vostre regioni, dal deserto del Gobi alla steppa,dalle grandi praterie alle foreste di conifere fino alle catene montuose degli Altai e dei Khangai, con le innumerevoli anse dei corsi d’acqua, che visti dall’alto sembrano decorazioni raffinate su antiche stoffe pregiate: tutto questo è uno specchio della grandezza e della bellezza dell’intero pianeta, chiamato a essere un giardino ospitale. La vostra sapienza, la sapienza del vostro popolo, sedimentata in generazioni di allevatori e coltivatori prudenti, sempre attenti a non rompere i delicati equilibri dell’ecosistema, ha molto da insegnare a chi oggi non vuole chiudersi nella ricerca di un miope interesse particolare, ma desidera consegnare ai posteri una terra ancora accogliente, una terra ancora feconda. Quello che per noi cristiani è il creato, cioè il frutto di un benevolo disegno di Dio, voi ci aiutate a riconoscere e a promuovere con delicatezza e attenzione, contrastando gli effetti della devastazione umana con una cultura della cura e della previdenza, che si riflette in politiche di ecologia responsabile. Le ger sono spazi abitativi che oggi si potrebbero definire smart e green, in quanto versatili, multi-funzionali e a impatto-zero sull’ambiente. Inoltre, la visione olistica della tradizione sciamanica mongola e il rispetto per ogni essere vivente desunto dalla filosofia buddista rappresentano un valido contributo all’impegno urgente e non più rimandabile per la tutela del pianeta Terra.

Le ger, presenti nelle zone rurali così come nei centri urbanizzati, testimoniano inoltre il prezioso connubio tra tradizione e modernità; esse infatti accomunano la vita di anziani e giovani, raccontando la continuità del popolo mongolo, che dall’antichità al presente ha saputo custodire le proprie radici, aprendosi, specialmente negli ultimi decenni, alle grandi sfide globali dello sviluppo e della democrazia. La Mongolia di oggi, infatti, con la sua ampia rete di relazioni diplomatiche, la sua attiva adesione alle Nazioni Unite, il suo impegno per i diritti umani e per la pace, riveste un ruolo significativo nel cuore del grande continente asiatico e nello scenario internazionale. Vorrei menzionare anche la vostra determinazione a fermare la proliferazione nucleare e a presentarsi al mondo come Paese senza armi nucleari: la Mongolia non è solo una nazione democratica che attua una politica estera pacifica, ma si propone di svolgere un ruolo importante per la pace mondiale. Inoltre – altro provvido elemento da segnalare – la pena capitale non compare più nel vostro ordinamento giudiziale.

Le ger, grazie alla loro adattabilità agli estremi climatici, consentono di vivere in territori molto variegati, come accadde durante la ben nota epopea dell’impero mongolo, quello con continuità territoriale più vasto di sempre – tra l’altro, giungo in Mongolia in un anniversario per voi importante, l’860° della nascita di Gengis Khan –. Nei secoli, l’abbracciare terre lontane e tanto diverse mise in risalto la non comune capacità dei vostri antenati di riconoscere le eccellenze dei popoli che componevano l’immenso territorio imperiale e di porle al servizio dello sviluppo comune. Questo è un esempio da valorizzare e da riproporre ai nostri giorni. Voglia il Cielo che sulla terra, devastata da troppi conflitti, si ricreino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni di quella che un tempo fu la pax mongolica, cioè l’assenza di conflitti. Come dice un vostro proverbio, «le nuvole passano, il cielo resta»: passino le nuvole oscure della guerra, vengano spazzate via dalla volontà ferma di una fraternità universale in cui le tensioni siano risolte sulla base dell’incontro e del dialogo, e a tutti vengano garantiti i diritti fondamentali! Qui, nel vostro Paese ricco di storia e di cielo, imploriamo questo dono dall’Alto e diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace.

Entrati in una ger tradizionale, lo sguardo è portato a elevarsi verso il punto centrale più alto, dove c’è una finestra sul cielo. Vorrei sottolineare questo atteggiamento fondamentale che la vostra tradizione ci aiuta a riscoprire: saper tenere gli occhi rivolti in alto. Alzare gli occhi al cielo – l’eterno cielo blu da voi sempre venerato – significa restare in un atteggiamento di docile apertura agli insegnamenti religiosi. C’è infatti una profonda connotazione spirituale tra le fibre della vostra identità culturale ed è bello che la Mongolia sia un simbolo di libertà religiosa. Nella contemplazione degli orizzonti sterminati e poco popolati da esseri umani, si è affinata infatti nel vostro popolo una propensione al dato spirituale, a cui si accede dando valore al silenzio e all’interiorità. Davanti al solenne imporsi della terra che vi circonda con i suoi innumerevoli fenomeni naturali, nasce anche un senso di stupore, il quale suggerisce umiltà e frugalità, scelta dell’essenziale e capacità di distacco da tutto ciò che non lo è. Penso al pericolo rappresentato dallo spirito consumistico che oggi, oltre a creare tante ingiustizie, porta a un individualismo dimentico degli altri e delle buone tradizioni ricevute. Le religioni invece, quando si rifanno al loro originale patrimonio spirituale e non sono corrotte da devianze settarie, sono a tutti gli effetti sostegni affidabili nella costruzione di società sane e prospere, dove i credenti si spendono affinché la convivenza civile e la progettualità politica siano sempre più al servizio del bene comune, rappresentando anche un argine al pericoloso tarlo della corruzione. Questa costituisce a tutti gli effetti una seria minaccia allo sviluppo di qualsiasi gruppo umano, nutrendosi di una mentalità utilitaristica e spregiudicata che impoverisce Paesi interi. La corruzione impoverisce Paesi interi. È indice di uno sguardo che si allontana dal cielo e fugge i vasti orizzonti della fraternità, chiudendosi in sé stesso e anteponendo a tutto i propri interessi.

Di sguardo verso l’alto e di ampie vedute furono invece protagonisti molti dei vostri leader antichi, i quali dimostrarono una non comune capacità di integrare voci ed esperienze diverse, anche dal punto di vista religioso. Un atteggiamento rispettoso e conciliante era infatti riservato anche alle molteplici tradizioni sacre, come testimoniano i diversi luoghi di culto – tra cui uno cristiano – tutelati nell’antica capitale Kharakhorum. È stato dunque quasi naturale per voi arrivare alla libertà di pensiero e di religione, sancita dalla vostra attuale Costituzione; superata, senza spargimento di sangue, l’ideologia atea che credeva di dover estirpare il senso religioso, ritenendolo un freno allo sviluppo, vi riconoscete oggi in quel valore essenziale dell’armonia e della sinergia tra credenti di fedi diverse, che – ognuna dal proprio punto di vista – contribuiscono al progresso morale e spirituale.

In tal senso, la comunità cattolica mongola è lieta di continuare ad apportare il proprio contributo. Essa ha cominciato, poco più di trent’anni fa, a celebrare la sua fede proprio all’interno di una ger e pure la cattedrale attuale, che si trova in questa grande città, ne ricorda la forma. Sono segni del desiderio di condividere la propria opera, in spirito di servizio responsabile e fraterno, con il popolo mongolo, che è il suo popolo. Sono perciò contento che la comunità cattolica, per quanto piccola e discreta, partecipi con entusiasmo e con impegno al cammino di crescita del Paese, diffondendo la cultura della solidarietà, la cultura del rispetto per tutti e la cultura del dialogo interreligioso, e spendendosi per la giustizia, la pace e l’armonia sociale. Auspico che, grazie a una legislazione lungimirante e attenta alle esigenze concrete, i cattolici locali, aiutati da uomini e donne consacrati necessariamente provenienti per lo più da altri Paesi, possano sempre offrire senza difficoltà alla Mongolia il loro contributo umano e spirituale, a vantaggio di questo popolo. A tale riguardo, il negoziato in corso per la stipula di un accordo bilaterale tra la Mongolia e la Santa Sede rappresenta un canale importante per il raggiungimento di quelle condizioni essenziali per lo svolgimento delle ordinarie attività in cui la Chiesa cattolica è impegnata. Tra queste, oltre alla dimensione più propriamente religiosa del culto, spiccano le numerose iniziative di sviluppo umano integrale, declinate anche nei settori dell’educazione, della sanità, dell’assistenza e della ricerca e promozione culturale: esse ben testimoniano lo spirito umile, lo spirito fraterno e solidale del Vangelo di Gesù, unica strada che i cattolici sono chiamati a percorrere nel cammino che condividono con ogni popolo.

Il motto scelto per questo Viaggio, “Sperare insieme”, esprime proprio la potenzialità insita nel camminare con l’altro, nel rispetto reciproco e nella sinergia per il bene comune. La Chiesa cattolica, istituzione antica e diffusa in quasi tutti i Paesi, è testimone di una tradizione spirituale, di una tradizione nobile e feconda, che ha contribuito allo sviluppo di intere nazioni in molti campi del vivere umano, dalla scienza alla letteratura, dall’arte alla politica. Sono certo che anche i cattolici mongoli sono e saranno pronti a dare il proprio apporto alla costruzione di una società prospera e sicura, in dialogo e collaborazione con tutte le componenti che abitano questa grande terra baciata dal cielo.

«Sii come il cielo». Con queste parole, un famoso poeta invitava a trascendere la caducità delle alterne vicende terrene, imitando la magnanimità ispirata proprio dall’immenso e terso cielo blu che si contempla in Mongolia. Anche noi, oggi, pellegrini e ospiti in questo Paese che tanto può offrire al mondo, desideriamo raccogliere tale invito, traducendolo in segni concreti di compassione, dialogo e progettualità comune. Possano le diverse componenti della società mongola, qui ben rappresentate, continuare a offrire al mondo la bellezza e la nobiltà di un popolo unico. Come la vostra scrittura, così possiate restare “in piedi” e sollevare tante sofferenze umane intorno a voi, ricordando a tutti la dignità di ogni essere umano, chiamato ad abitare la casa terrena abbracciando il cielo. Bayarlalaa! [grazie!].


Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Missionari, i Consacrati, le Consacrate e gli Operatori Pastorali

Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Grazie, Eccellenza, per le sue parole, grazie Suor Salvia, Don Peter Sanjaajav e Rufina per le vostre testimonianze, grazie a tutti voi per la vostra presenza e per la vostra fede! Sono felice di incontrarvi. La gioia del Vangelo è il motivo che ha spinto voi, uomini e donne consacrati nella vita religiosa e nel ministero ordinato, a essere qui e a dedicarvi, insieme alle sorelle e ai fratelli laici, al Signore e agli altri. Benedico Dio per questo. Lo faccio attraverso una bella preghiera di lode, il Salmo 34, a cui mi ispiro per condividere alcuni pensieri con voi. Esso dice: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (v. 9).

Gustare e vedere, perché la gioia e la bontà del Signore non sono qualcosa di passeggero, ma rimangono dentro, danno gusto alla vita e fanno vedere le cose in modo nuovo; come ci hai detto tu, Rufina, nella tua bella testimonianza. Vorrei dunque assaporare il gusto della fede in questa terra facendo anzitutto memoria di storie e di volti, di vite spese per il Vangelo. Spendere la vita per il Vangelo: è una bella definizione della vocazione missionaria del cristiano, e in particolare di come i cristiani la vivono qui. Spendere la propria vita per il Vangelo!

Ricordo allora il Vescovo Wenceslao Selga Padilla, primo Prefetto Apostolico, pioniere della fase contemporanea della Chiesa in Mongolia e costruttore di questa cattedrale. Qui, tuttavia, la fede non risale solo agli anni novanta del secolo scorso, ma ha radici molto antiche. Alle esperienze del primo millennio, segnate dal movimento evangelizzatore di tradizione siriaca diffusosi lungo la via della seta, è seguito un considerevole impegno missionario: come non ricordare le missioni diplomatiche del XIII secolo, ma anche la cura apostolica manifestata dalla nomina, intorno al 1310, di Giovanni da Montecorvino come primo Vescovo di Khān Bālīq, e dunque responsabile di tutta quest’ampia regione del mondo sotto la dinastia mongola Yuan? Fu proprio lui a fornire la prima traduzione in lingua mongola del libro dei Salmi e del Nuovo Testamento. Ebbene, questa grande storia di passione per il Vangelo è ripresa in modo straordinario nel 1992 con l’arrivo dei primi missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria, a cui si sono aggiunti rappresentanti di altri istituti, clero diocesano e volontari laici. Tra tutti vorrei ricordare l’attivo e zelante Padre Stephano Kim Seong-hyeon. E facciamo memoria di tanti fedeli servitori del Vangelo in Mongolia, che sono qui con noi ora e che, dopo aver speso la vita per Cristo, vedono e gustano le meraviglie che la sua bontà continua ad operare in voi e attraverso di voi. Grazie.

Ma perché spendere la vita per il Vangelo? È una domanda che vi faccio. Come diceva Rufina, la vita cristiana va avanti facendo delle domande, come i bambini che domandano sempre cose nuove, perché non capiscono tutto nell’età dei perché. E la vita cristiana si avvicina al Signore e sempre fa delle domande, per capire meglio il Signore, per capire meglio il suo messaggio. Spendere la vita per il Vangelo perché si è gustato (cfr Sal 34) quel Dio che si è reso visibile, toccabile, incontrabile in Gesù. Sì, è Lui la buona notizia destinata a tutti i popoli, l’annuncio che la Chiesa non può smettere di portare, incarnandolo nella vita e “sussurrandolo” al cuore dei singoli e delle culture. Il linguaggio di Dio, tante volte, è un sussurro lento, che prende il suo tempo; Egli parla così. Questa esperienza dell’amore di Dio in Cristo è pura luce che trasfigura il volto e lo rende a sua volta luminoso. Fratelli e sorelle, la vita cristiana nasce dalla contemplazione di questo volto, è questione di amore, di incontro quotidiano con il Signore nella Parola e nel Pane di vita, e nel volto dell’altro, nei bisognosi in cui Gesù è presente. Ce lo hai ricordato tu, Suor Salvia, con la tua testimonianza, grazie! È più di 20 anni che tu sei qui e hai imparato a interloquire con questo popolo: grazie.

In questi trentun anni di presenza in Mongolia, voi, carissimi sacerdoti, consacrati, consacrate e operatori pastorali, avete dato vita a una molteplice varietà di iniziative caritative, che assorbono la maggior parte delle vostre energie e riflettono il volto misericordioso di Cristo buon samaritano. È come il vostro biglietto da visita, che vi ha resi rispettati e stimati per i tanti benefici arrecati a molte persone in vari campi: dall’assistenza all’educazione, passando per la cura sanitaria e la promozione culturale. Vi incoraggio a proseguire su questa strada feconda e vantaggiosa per l’amato popolo mongolo. Gesti di amore e gesti di carità.

Al tempo stesso vi invito a gustare e vedere il Signore – gustare e vedere il Signore –, vi invito a tornare sempre e di nuovo a quello sguardo originario da cui tutto è nato. Senza di esso, infatti, le forze vengono meno e l’impegno pastorale rischia di diventare sterile erogazione di servizi, in un susseguirsi di azioni dovute, che finiscono per non trasmettere più nulla se non stanchezza e frustrazione. Invece, rimanendo a contatto con il volto di Cristo, scrutandolo nelle Scritture e contemplandolo in silenzio adorante – in silenzio adorante – davanti al tabernacolo, lo riconoscerete nel volto di quanti servite e vi sentirete trasportati da un’intima gioia, che anche nelle difficoltà lascia la pace nel cuore. Di questo c’è bisogno, oggi e sempre: non di persone indaffarate e distratte che portano avanti progetti, col rischio talvolta di apparire amareggiate per una vita certamente non facile, no: il cristiano è colui che è capace di adorare, adorare in silenzio. E poi, da questa adorazione scaturisce l’attività. Ma non dimenticate l’adorazione. Noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione in questo secolo pragmatico: non dimenticatevi di adorare e, dall’adorazione, fare le cose. Occorre tornare alla fonte, al volto di Gesù, alla sua presenza da gustare: è Lui il nostro tesoro (cfr Mt 13,44), la perla preziosa per la quale vale la pena spendere tutto (cfr Mt 13,45-46). I fratelli e le sorelle della Mongolia, che hanno uno spiccato senso del sacro e – come è tipico nel continente asiatico – un’ampia e articolata storia religiosa, attendono da voi questa testimonianza e ne sanno riconoscere la genuinità. È una testimonianza che voi dovete dare, perché il Vangelo non cresce per proselitismo, il Vangelo cresce per testimonianza.

Il Signore Gesù, inviando i suoi nel mondo, non li mandò a diffondere un pensiero politico, ma a testimoniare con la vita la novità della relazione con il Padre suo, diventato “Padre nostro” (cfr Gv 20,17), innescando così una concreta fraternità con ogni popolo. La Chiesa che nasce da questo mandato è una Chiesa povera, che poggia solo su una fede genuina, sulla disarmata e disarmante potenza del Risorto, in grado di alleviare le sofferenze dell’umanità ferita. Ecco perché i governi e le istituzioni secolari non hanno nulla da temere dall’azione evangelizzatrice della Chiesa, perché essa non ha un’agenda politica da portare avanti, ma conosce solo la forza umile della grazia di Dio e di una Parola di misericordia e di verità, capace di promuovere il bene di tutti.

Per adempiere tale missione, Cristo ha dotato la sua Chiesa di una struttura che ricorda l’armonia che c’è tra le varie membra del corpo umano: Egli è il Capo, cioè la testa che continua a guidarla, infondendo nel Corpo, cioè in noi, il suo stesso Spirito, operante soprattutto in quei segni di vita nuova che sono i Sacramenti. Per garantirne l’autenticità e l’efficacia, ha istituito l’ordine sacerdotale, segnato da un’intima associazione a Lui, a Lui che è il buon Pastore che dà la vita per il gregge. Anche tu, Don Peter, sei stato chiamato per questa missione: grazie di aver condiviso la tua esperienza con noi. Così anche il santo Popolo di Dio che è in Mongolia ha la pienezza dei doni spirituali. E in questa prospettiva vi invito a vedere nel Vescovo non un manager, ma l’immagine viva di Cristo buon Pastore che raduna e guida il suo popolo; un discepolo colmato del carisma apostolico per edificare la vostra fraternità in Cristo e radicarla sempre più in questa nazione dalla nobile identità culturale. Il fatto, poi, che il vostro Vescovo sia Cardinale vuol essere un’ulteriore espressione di vicinanza: voi tutti, lontani solo fisicamente, siete vicinissimi al cuore di Pietro; e tutta la Chiesa è vicina a voi, alla vostra comunità, che è veramente cattolica, cioè universale, e che attira la simpatia di tutti i fratelli e le sorelle sparsi nel mondo verso la Mongolia, in una grande comunione ecclesiale.

E sottolineo questa parola: comunione. La Chiesa non si comprende in base ad un criterio puramente funzionale: no, la Chiesa non è una ditta funzionale, la Chiesa non cresce per proselitismo, come ho detto. La Chiesa è un’altra cosa. La parola “comunione” ci spiega bene cos’è la Chiesa. In questo corpo della Chiesa, il Vescovo non fa da moderatore delle diverse componenti magari basandosi sul principio della maggioranza, ma in forza di un principio spirituale, per cui Gesù stesso si fa presente nella persona del Vescovo per assicurare la comunione nel suo Corpo mistico. In altre parole, l’unità nella Chiesa non è questione di ordine e di rispetto, e nemmeno una buona strategia per “fare squadra”; è questione di fede e di amore al Signore, è fedeltà a Lui. Perciò è importante che tutte le componenti ecclesiali si compattino intorno al Vescovo, che rappresenta Cristo vivo in mezzo al suo Popolo, costruendo quella comunione sinodale che è già annuncio e che tanto aiuta a inculturare la fede.

Carissimi Missionari e Missionarie, gustate e vedete il dono che siete, gustate e vedete la bellezza di donarvi interamente a Cristo che vi ha chiamati a testimoniare il suo amore proprio qui in Mongolia. Continuate a farlo coltivando la comunione. Realizzatelo nella semplicità di una vita sobria, a imitazione del Signore, entrato a Gerusalemme a dorso di un mulo e spogliato persino delle vesti sulla croce. Siate sempre vicini alla gente, con quella vicinanza che è l’atteggiamento di Dio: Dio è vicino, compassionevole e tenero – vicinanza, compassione e tenerezza. Siate così con la gente, prendendovene cura personalmente, imparando la lingua, rispettando e amando la loro cultura, non lasciandovi tentare da sicurezze mondane, ma rimanendo saldi nel Vangelo attraverso un’esemplare rettitudine di vita spirituale e morale. Semplicità e vicinanza, dunque, senza stancarvi di portare a Gesù i volti e le storie che incontrate, i problemi e le preoccupazioni, spendendo tempo nella preghiera quotidiana, che vi permette di stare in piedi nelle fatiche del servizio e di attingere al «Dio di ogni consolazione» (2 Cor 1,3) la speranza da riversare nei cuori di quanti soffrono.

Fratelli e sorelle, vicini al Signore si rafforza infatti in noi una certezza, come ci rivela sempre il Salmo 34: «Nulla manca a coloro che lo temono. […] a chi cerca il Signore non manca alcun bene» (vv. 10-11). Certo, gli squilibri e le contraddizioni della vita riguardano anche i credenti, e gli evangelizzatori non vengono esonerati da quel carico d’inquietudine che appartiene alla condizione umana: il salmista non ha timore di parlare di malizia e di malfattori, ma ricorda che il Signore, davanti al grido degli umili, «li libera da tutte le loro angosce», perché «è vicino a chi ha il cuore spezzato» e «salva gli spiriti affranti» (vv. 18-19). Per questo, la Chiesa si presenta al mondo come voce solidale con tutti i poveri e i bisognosi, non tace di fronte alle ingiustizie e con mitezza s’impegna a promuovere la dignità di ogni essere umano.

Carissimi, in questo cammino di discepoli-missionari avete un sostegno sicuro: la nostra Madre celeste, che – mi è piaciuto tanto scoprirlo! – ha voluto darvi un segno tangibile della sua presenza discreta e premurosa lasciando che si trovasse una sua effigie in una discarica. Nel luogo dei rifiuti è comparsa questa bella statua dell’Immacolata: lei, senza macchia, immune dal peccato, ha voluto farsi così vicina da essere confusa con gli scarti della società, così che dallo sporco della spazzatura è emersa la purezza della Santa Madre di Dio, la Madre del Cielo. Ho saputo dell’interessante tradizione mongola della suun dalai ijii, la mamma dal cuore grande come un oceano di latte. Se, nella narrazione della Storia segreta dei Mongoli, una luce discesa attraverso l’apertura superiore della ger feconda la mitica regina Alungoo, voi potete contemplare nella maternità della Vergine Maria l’azione della luce divina che dall’alto accompagna ogni giorno i passi della vostra Chiesa.

Alzando lo sguardo a Maria, siate dunque rinfrancati, vedendo che la piccolezza non è un problema, ma una risorsa. Sì, Dio ama la piccolezza e ama compiere grandi cose attraverso la piccolezza, come Maria testimonia (cfr Lc 1,48-49). Fratelli, sorelle, non abbiate paura dei numeri esigui, dei successi che tardano, della rilevanza che non appare. Non è questa la strada di Dio. Guardiamo a Maria, che nella sua piccolezza è più vasta del cielo, perché ha ospitato in sé Colui che i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere (cfr 1 Re 8,27). Fratelli e sorelle, affidiamoci a lei, chiedendo uno zelo rinnovato, un amore ardente che non si stanca di testimoniare il Vangelo con gioia. E andate avanti, coraggiosi, non stancatevi di andare avanti. Grazie tante per la vostra testimonianza. Lui, il Signore, vi ha scelti e crede in voi; io sono con voi e con tutto il cuore vi dico: grazie; grazie per la vostra testimonianza, grazie per le vostre vite spese per il Vangelo. Continuate così, costanti nella preghiera, continuate creativi nella carità, continuate saldi nella comunione, gioiosi e miti in tutto e con tutti. Vi benedico di cuore e vi ricordo. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.


Incontro Ecumenico e Interreligioso

Buongiorno a tutti voi, cari fratelli e sorelle!

Permettetemi di rivolgermi a voi così, come fratello nella fede con i credenti in Cristo e come fratello di tutti voi, in nome della comune ricerca religiosa e dell’appartenenza alla stessa umanità. L’umanità, nel suo anelito religioso, può essere paragonata a una comunità di viandanti che cammina in terra con lo sguardo rivolto al cielo. È significativo in proposito quanto un credente, venuto da lontano, affermò della Mongolia, scrivendo che vi viaggiò «non vedendo niente se non cielo e terra» (Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, XIII/3, Milano 2014, 63). Il cielo, così limpido, così azzurro, qui abbraccia infatti la terra vasta e imponente, evocando le due dimensioni fondamentali della vita umana: quella terrena, fatta di relazioni con gli altri, e quella celeste, fatta di ricerca dell’Altro, che ci trascende. La Mongolia ricorda insomma il bisogno, per tutti noi, pellegrini e viandanti, di volgere lo sguardo verso l’alto per trovare la rotta del cammino in terra.

Sono dunque felice di essere con voi in questo importante momento di incontro. Vivamente ringrazio ciascuno e ciascuna per la presenza e per ogni intervento che ha arricchito la riflessione comune. Il fatto di essere insieme nello stesso luogo è già un messaggio: le tradizioni religiose, nella loro originalità e diversità, rappresentano un formidabile potenziale di bene a servizio della società. Se chi ha la responsabilità delle nazioni scegliesse la strada dell’incontro e del dialogo con gli altri, contribuirebbe certamente in maniera determinante alla fine dei conflitti che continuano ad arrecare sofferenza a tanti popoli.

A fornirci l’occasione di stare insieme per conoscerci e arricchirci reciprocamente è l’amato popolo mongolo, che può vantare una storia di convivenza tra esponenti di varie tradizioni religiose. È bello ricordare la virtuosa esperienza dell’antica capitale imperiale Kharakhorum, al cui interno si trovavano luoghi di culto appartenenti a diversi “credo”, a testimonianza di una encomiabile armonia. Armonia: vorrei sottolineare questa parola dal sapore tipicamente asiatico. Essa è quel particolare rapporto che si viene a creare tra realtà diverse, senza sovrapporle e omologarle, ma nel rispetto delle differenze e a beneficio del vivere comune. Mi chiedo: chi, più dei credenti, è chiamato a lavorare per l’armonia di tutti?

Fratelli, sorelle, da quanto riusciamo ad armonizzarci con gli altri pellegrini sulla terra e da come riusciamo a diffondere armonia, lì dove viviamo, si misura la valenza sociale della nostra religiosità. Ogni vita umana, infatti, e a maggior ragione ogni religione, è tenuta a “misurarsi” in base all’altruismo: non un altruismo astratto, ma concreto, che si traduca nella ricerca dell’altro e nella collaborazione generosa con l’altro, perché «l’uomo saggio si rallegra nel donare, e solo per questo diventa felice» (The Dhammapada: The Buddha’s Path of Wisdom, Sri Lanka 1985, n. 177; cfr le parole di Gesù riferite in At 20,35). Una preghiera, ispirata a Francesco d’Assisi, recita: «Dove è odio, ch’io porti amore, dove è offesa, ch’io porti il perdono, dov’è discordia ch’io porti l’unione». L’altruismo costruisce armonia e dove c’è armonia c’è intesa, c’è prosperità, c’è bellezza. Anzi, armonia è forse il sinonimo più appropriato di bellezza. Al contrario, la chiusura, l’imposizione unilaterale, il fondamentalismo e la forzatura ideologica rovinano la fraternità, alimentano tensioni e compromettono la pace. La bellezza della vita è frutto dell’armonia: è comunitaria, cresce con la gentilezza, con l’ascolto e con l’umiltà. E a coglierla è il cuore puro, perché «la vera bellezza, dopo tutto, sta nella purezza del cuore» (M.K. Gandhi, Il mio credo, il mio pensiero, Roma 2019, 94).

Le religioni sono chiamate a offrire al mondo questa armonia, che il progresso tecnico da solo non può dare, perché, mirando alla dimensione terrena, orizzontale dell’uomo, rischia di dimenticare il cielo per il quale siamo fatti. Sorelle e fratelli, oggi siamo qui insieme come umili eredi di antiche scuole di sapienza. Incontrandoci, ci impegniamo a condividere il tanto bene che abbiamo ricevuto, per arricchire un’umanità che nel suo cammino è spesso disorientata da miopi ricerche di profitto e benessere. Essa è spesso incapace di trovare il filo: rivolta ai soli interessi terreni, finisce per rovinare la terra stessa, confondendo il progresso con il regresso, come mostrano tante ingiustizie, tanti conflitti, tante devastazioni ambientali, tante persecuzioni, tanto scarto della vita umana.

L’Asia ha moltissimo da offrire in tal senso e la Mongolia, che di questo continente si trova al cuore, custodisce un grande patrimonio di sapienza, che le religioni qui diffuse hanno contribuito a creare e che vorrei invitare tutti a scoprire e valorizzare. Mi limito a citare, senza approfondirli, dieci aspetti di questo patrimonio sapienziale. Dieci aspetti: il buon rapporto con la tradizione, nonostante le tentazioni del consumismo; il rispetto per gli anziani e gli antenati – quanto bisogno abbiamo oggi di un’alleanza generazionale tra loro e i più giovani, di dialogo tra nonni e nipoti! E poi, la cura per l’ambiente, nostra casa comune, altra necessità tremendamente attuale: siamo in pericolo. E ancora: il valore del silenzio e della vita interiore, antidoto spirituale a tanti malanni del mondo odierno. Quindi, un sano senso di frugalità; il valore dell’accoglienza; la capacità di resistere all’attaccamento alle cose; la solidarietà, che nasce dalla cultura dei legami tra le persone; l’apprezzamento per la semplicità. E, infine, un certo pragmatismo esistenziale, che tende a ricercare con tenacia il bene del singolo e della comunità. Questi dieci sono alcuni elementi del patrimonio di sapienza che questo Paese può offrire al mondo.

A proposito delle vostre usanze, ho già parlato di come, preparandomi a questo viaggio, mi abbiano affascinato le dimore tradizionali attraverso cui il popolo mongolo rivela una sapienza sedimentata in millenni di storia. La ger costituisce infatti uno spazio umano: al suo interno si svolge la vita della famiglia, è luogo di convivialità amicale, di incontro e di dialogo dove, anche quando si è in tanti, si sa fare spazio a qualcun altro. E poi è un punto di riferimento concreto, facilmente identificabile nelle immense distese del territorio mongolo; è motivo di speranza per chi ha smarrito la strada: se c’è una ger c’è vita. La si trova sempre aperta, pronta ad accogliere l’amico, ma anche il viandante e persino lo straniero, per offrirgli un tè fumante che fa riprendere le forze nel freddo dell’inverno o un fresco latte fermentato che dona ristoro nelle calde giornate estive. Questa è anche l’esperienza dei missionari cattolici, provenienti da altri Paesi, che qui sono accolti come pellegrini e ospiti, ed entrano in punta di piedi in questo mondo culturale, per offrire l’umile testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo.

Ma, insieme allo spazio umano, la ger evoca l’essenziale apertura al divino. La dimensione spirituale di questa dimora è rappresentata dalla sua apertura verso l’alto, con un solo punto dal quale entra la luce, nella forma di un lucernario a spicchi. Così, l’interno diventa una grande meridiana, in cui luce e ombra si rincorrono, segnando le ore del giorno e della notte. C’è un bell’insegnamento in questo: il senso del tempo che scorre giunge dall’alto, non dal mero fluire delle attività terrene. In certi momenti dell’anno, poi, il raggio che penetra dall’alto illumina l’altare domestico, richiamando il primato della vita spirituale. L’umana convivenza che si attua nello spazio circolare è così costantemente rimandata alla sua vocazione verticale, alla sua vocazione trascendente e spirituale.

L’umanità riconciliata e prospera, che come esponenti di diverse religioni contribuiamo a promuovere, è simbolicamente rappresentata da questo stare insieme armonioso e aperto al trascendente, in cui l’impegno per la giustizia e la pace trovano ispirazione e fondamento nel rapporto col divino. Qui, cari sorelle e fratelli, la nostra responsabilità è grande, specialmente in quest’ora della storia, perché il nostro comportamento è chiamato a confermare nei fatti gli insegnamenti che professiamo; non può contraddirli, diventando motivo di scandalo. Nessuna confusione dunque tra credo e violenza, tra sacralità e imposizione, tra percorso religioso e settarismo. La memoria delle sofferenze patite nel passato – penso soprattutto alle comunità buddiste – dia la forza di trasformare le ferite oscure in fonti di luce, l’insipienza della violenza in saggezza di vita, il male che rovina in bene che costruisce. Così sia per noi, discepoli entusiasti dei rispettivi maestri spirituali e servitori coscienziosi dei loro insegnamenti, disposti ad offrirne la bellezza a quanti accompagniamo, come amichevoli compagni di strada. Questo sia vero, perché in società pluralistiche e che credono nei valori democratici, come la Mongolia, ogni istituzione religiosa, regolarmente riconosciuta dall’autorità civile, ha il dovere e in primo luogo il diritto di offrire quello che è e quello che crede, nel rispetto della coscienza altrui e avendo come fine il maggior bene di tutti.

In tal senso io vorrei confermarvi che la Chiesa cattolica vuole camminare così, credendo fermamente nel dialogo ecumenico, nel dialogo interreligioso e nel dialogo culturale. La sua fede si fonda sull’eterno dialogo tra Dio e l’umanità, incarnatosi nella persona di Gesù Cristo. Con umiltà e nello spirito di servizio che ha animato la vita del Maestro, venuto nel mondo non «per farsi servire ma per servire» (Mc 10,45), la Chiesa oggi offre il tesoro che ha ricevuto ad ogni persona e cultura, rimanendo in atteggiamento di apertura e ascolto di quanto le altre tradizioni religiose hanno da offrire. Il dialogo, infatti, non è antitetico all’annuncio: non appiattisce le differenze, ma aiuta a comprenderle, le preserva nella loro originalità e le mette in grado di confrontarsi per un arricchimento franco e reciproco. Così si può ritrovare nell’umanità benedetta dal Cielo la chiave per camminare sulla terra. Fratelli e sorelle, abbiamo un’origine comune, che conferisce a tutti la stessa dignità, e abbiamo un cammino condiviso, che non possiamo percorrere se non insieme, dimorando sotto il medesimo cielo che ci avvolge e ci illumina.

Fratelli e sorelle, il nostro trovarci qui oggi è segno che sperare è possibile. Sperare è possibile. In un mondo lacerato da lotte e discordie, ciò potrebbe sembrare utopico; eppure, le imprese più grandi iniziano nel nascondimento, con dimensioni quasi impercettibili. Il grande albero nasce dal piccolo seme, nascosto nella terra. E se “la fragranza dei fiori si diffonde solo nella direzione del vento, il profumo di chi vive secondo virtù si diffonde in tutte le direzioni” (cfr The Dhammapada, n. 54). Facciamo fiorire questa certezza, che i nostri sforzi comuni per dialogare e costruire un mondo migliore non sono vani. Coltiviamo la speranza. Come ebbe a dire un filosofo: «Ognuno fu grande secondo quello che sperò. Uno fu grande sperando il possibile; un altro sperando l’eterno; ma chi sperò l’impossibile fu il più grande di tutti» (S.A. Kierkegaard, Timore e tremore, Milano 2021, 16). Le preghiere che eleviamo al cielo e la fraternità che viviamo in terra nutrano la speranza; siano la testimonianza semplice e credibile della nostra religiosità, del camminare insieme con lo sguardo rivolto verso l’alto, dell’abitare il mondo in armonia – non dimentichiamo la parola “armonia” – come pellegrini chiamati a custodire l’atmosfera di casa, per tutti. Grazie.


Santa Messa: Omelia

Con le parole del Salmo abbiamo pregato: «O Dio, […] ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63,2). Questa stupenda invocazione accompagna il viaggio della nostra vita, in mezzo ai deserti che siamo chiamati ad attraversare. E proprio in questa terra arida ci raggiunge una buona notizia: nel nostro cammino non siamo soli; le nostre aridità non hanno il potere di rendere sterile per sempre la nostra vita; il grido della nostra sete non rimane inascoltato. Dio Padre ha mandato il suo Figlio a donarci l’acqua viva dello Spirito Santo per dissetare la nostra anima (cfr Gv 4,10). E Gesù – lo abbiamo appena ascoltato nel Vangelo – ci mostra la via per essere dissetati: è la via dell’amore, che Lui ha percorso fino in fondo, fino alla croce, e sulla quale ci chiama a seguirlo “perdendo la vita per ritrovarla” nuova (cfr Mt 16,24-25).

Soffermiamoci insieme su questi due aspetti: la sete che ci abita e l’amore che ci disseta.

Anzitutto, siamo chiamati a riconoscere la sete che ci abita. Il salmista grida a Dio la propria arsura perché la sua vita assomiglia a un deserto. Le sue parole hanno una risonanza particolare in una terra come la Mongolia: un territorio immenso, ricco di storia, una terra piena di cultura, ma anche segnato dall’aridità della steppa e del deserto. Tanti di voi sono abituati alla bellezza e alla fatica del camminare, azione che richiama un aspetto essenziale della spiritualità biblica, rappresentato dalla figura di Abramo e, più in generale, proprio del popolo d’Israele e di ogni discepolo del Signore: tutti, tutti noi infatti, siamo “nomadi di Dio”, pellegrini alla ricerca della felicità, viandanti assetati d’amore. Il deserto evocato dal salmista si riferisce, dunque, alla nostra vita: siamo noi quella terra arida che ha sete di un’acqua limpida, di un’acqua che disseta in profondità; è il nostro cuore che desidera scoprire il segreto della vera gioia, quella che anche in mezzo alle aridità esistenziali, può accompagnarci e sostenerci. Sì, ci portiamo dentro una sete inestinguibile di felicità; siamo alla ricerca di un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività che portiamo avanti ogni giorno; e soprattutto siamo assetati di amore, perché è solo l’amore che ci appaga davvero, che ci fa stare bene – l’amore ci fa stare bene –, che ci apre alla fiducia facendoci gustare la bellezza della vita. Cari fratelli e sorelle, la fede cristiana risponde a questa sete; la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati: no! Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi.

E veniamo così al secondo aspetto: l’amore che ci disseta. Primo era la nostra sete, esistenziale, profonda, e adesso pensiamo all’amore che ci disseta. Questo è il contenuto della fede cristiana: Dio, che è amore, nel suo Figlio Gesù si è fatto vicino a te, a me, a tutti noi, desidera condividere la tua vita, le tue fatiche, i tuoi sogni, la tua sete di felicità. È vero, a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità. Quest’acqua ce la dona Gesù. Come afferma Sant’Agostino, «se ci riconosceremo nell’assetato, ci riconosceremo anche nel dissetato» (Sul Salmo 62, 3). Infatti, se tante volte nella nostra vita sperimentiamo il deserto, la solitudine, la fatica, la sterilità, non dobbiamo però dimenticare questo: «Affinché non veniamo meno in questo deserto – aggiunge Agostino – Dio ci irrora con la rugiada della sua Parola […]. Ci fa, sì, provare la sete ma poi viene ad appagarla. […] Dio ha avuto misericordia di noi e ha aperto per noi una via nel deserto: il Signore nostro Gesù Cristo», e questa è la via nel deserto della vita. «E ci ha procurato una consolazione nel deserto: i predicatori della sua Parola. Ci ha offerto dell’acqua nel deserto, ricolmando di Spirito Santo i suoi predicatori affinché si formasse in essi una fonte di acqua che sale fino alla vita eterna» (ibid., 3.8). Queste parole, carissimi, richiamano la vostra storia: nei deserti della vita e nella fatica di essere una comunità piccola, il Signore non vi fa mancare l’acqua della sua Parola, specialmente attraverso i predicatori e i missionari che, unti dallo Spirito Santo, ne seminano la bellezza. E la Parola sempre, sempre ci riporta all’essenziale, all’essenziale della fede: lasciarsi amare da Dio per fare della nostra vita un’offerta d’amore. Perché solo l’amore ci disseta veramente. Non dimentichiamo: solo l’amore disseta veramente.

È ciò che Gesù, nel Vangelo di oggi, dice con tono forte all’apostolo Pietro. Questi non accetta il fatto che Gesù dovrà soffrire, essere accusato dai capi del popolo, attraversare la passione e poi morire sulla croce. Pietro reagisce, Pietro protesta, vorrebbe convincere Gesù che si sbaglia, perché secondo lui – e così spesso pensiamo anche noi – il Messia non può finire sconfitto, assolutamente non può morire crocifisso, come un malfattore abbandonato da Dio. Ma il Signore rimprovera Pietro, perché questo suo modo di pensare è “secondo il mondo”, dice il Signore, e non secondo Dio (cfr Mt 16,21-23). Se pensiamo che a dissetare le arsure della nostra vita bastino il successo, il potere, le cose materiali, questa è una mentalità mondana, che non porta a nulla di buono e, anzi, ci lascia più aridi di prima. Gesù invece ci indica la via: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25).

Fratelli, sorelle, la via migliore di tutte è questa: abbracciare la croce di Cristo. Al cuore del cristianesimo c’è questa notizia sconvolgente, notizia straordinaria: quando perdi la tua vita, quando la offri con generosità in servizio, quando la rischi impegnandola nell’amore, quando ne fai un dono gratuito per gli altri, allora essa ti ritorna in abbondanza, riversa dentro di te una gioia che non passa, una pace del cuore, una forza interiore che ti sostiene. E abbiamo bisogno di pace interiore.

Questa è la verità che Gesù ci invita a scoprire, che Gesù vuole svelare a voi tutti, a questa terra di Mongolia: non serve essere grandi, ricchi o potenti per essere felici: no! Solo l’amore ci disseta il cuore, solo l’amore guarisce le nostre ferite, solo l’amore ci dà la vera gioia. E questa è la via che Gesù ci ha insegnato e ha aperto per noi.

Anche noi, fratelli e sorelle, allora ascoltiamo la parola che il Signore dice a Pietro: «Va’ dietro a me» (Mt 16,23), vale a dire: diventa mio discepolo, fai la stessa strada che faccio io e non pensare più secondo il mondo. Allora, con la grazia di Cristo e dello Spirito Santo, potremo camminare sulla via dell’amore. Anche quando amare significa rinnegare sé stessi, lottare contro gli egoismi personali e mondani, correre il rischio di vivere la fraternità. Perché se è vero che tutto ciò costa fatica e sacrificio e a volte significa dover salire sulla croce, è ancora più vero che quando perdiamo la vita per il Vangelo, il Signore ce la dona in abbondanza, piena di amore e di gioia, per l’eternità.


Incontro con gli operatori della carità e inaugurazione della Casa della Misericordia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi ringrazio di cuore per l’accoglienza, il canto e la danza, per le vostre parole di benvenuto e per le vostre testimonianze! Credo che si possano ben riassumere con alcune parole di Gesù: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere» (Mt 25,35). Così il Signore ci offre il criterio per riconoscerlo, per riconoscerlo presente nel mondo e la condizione per entrare nella gioia definitiva del suo Regno al momento dell’ultimo giudizio.

Fin dalle sue origini la Chiesa ha preso sul serio questa verità, dimostrando nei fatti che la dimensione caritativa fonda la sua identità. La dimensione caritativa fonda l’identità della Chiesa. Penso ai racconti degli Atti degli Apostoli, con le numerose iniziative prese dalla prima comunità cristiana per realizzare le parole di Gesù, dando vita a una Chiesa costruita su quattro colonne: comunione, liturgia, servizio e testimonianza. È meraviglioso vedere che, dopo tanti secoli, lo stesso spirito permea la Chiesa in Mongolia: nella sua piccolezza, essa vive di comunione fraterna, di preghiera, di servizio disinteressato all’umanità sofferente e di testimonianza della propria fede. Proprio come le quattro colonne delle grandi ger, che sostengono il tondo centrale superiore, permettendo alla struttura di reggersi e di offrire spazio accogliente al suo interno.

Eccoci dunque dentro questa casa che avete costruito e che oggi ho la gioia di benedire e inaugurare. È un’espressione concreta di quel prendersi cura dell’altro in cui i cristiani si riconoscono; perché dove c’è accoglienza, ospitalità e apertura all’altro si respira il buon profumo di Cristo (cfr 2 Cor 2,15). Lo spendersi per il prossimo, per la sua salute, i suoi bisogni primari, la sua formazione e la sua cultura, appartiene fin dagli inizi a questa vivace porzione del Popolo di Dio. Da quando i primi missionari sono arrivati a Ulaanbaatar negli anni novanta, hanno sentito subito l’appello alla carità, che li ha portati a prendersi cura dell’infanzia derelitta, di fratelli e sorelle senza fissa dimora, dei malati, delle persone con disabilità, dei carcerati e di quanti nella loro condizione di sofferenza chiedevano di essere accolti.

Oggi vediamo come da quelle radici è cresciuto un tronco, sono spuntati dei rami e sono sbocciati tanti frutti: numerose e lodevoli iniziative benefiche, sviluppatesi in progetti a lungo termine, portati avanti per lo più dai diversi Istituti missionari qui presenti e apprezzati dalla popolazione e dalle autorità civili. D’altronde, era stato lo stesso Governo mongolo a chiedere l’aiuto dei missionari cattolici per fronteggiare le numerose emergenze sociali di un Paese che al tempo versava in una delicata fase di transizione politica, segnata da diffusa povertà. Questi progetti vedono impegnati tutt’oggi missionari e missionarie di tanti Paesi, che mettono al servizio della società mongola le loro conoscenze, la loro esperienza, le loro risorse e soprattutto il loro amore. A loro, e a quanti sostengono queste numerose opere di bene, vanno la mia ammirazione e il mio più sentito “grazie”.

La Casa della Misericordia si propone come punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita. È una sorta di porto dove attraccare, dove poter trovare ascolto e comprensione. Questa nuova iniziativa, però, mentre si aggiunge alle numerose altre sostenute dalle varie istituzioni cattoliche, ne rappresenta una versione inedita: qui, infatti, è la Chiesa particolare a portare avanti l’opera, nella sinergia di tutte le componenti missionarie ma con una chiara identità locale, come genuina espressione della Prefettura Apostolica nel suo insieme. E mi piace molto il nome che avete voluto darle: Casa della Misericordia. In queste due parole c’è la definizione della Chiesa, chiamata a essere dimora accogliente dove tutti possono sperimentare un amore superiore, che smuove e commuove il cuore: l’amore tenero e provvidente del Padre, che ci vuole fratelli, ci vuole sorelle nella sua casa. Auspico allora che possiate trovarvi tutti attorno a questa realizzazione, che le varie comunità missionarie vi partecipino attivamente, impegnando personale e risorse.

Perché ciò si realizzi è indispensabile il volontariato, il servizio, cioè, puramente gratuito e disinteressato, che le persone liberamente decidono di offrire a chi è nel bisogno: non sulla base di un compenso economico o di una qualsiasi forma di ritorno individuale, ma per puro amore al prossimo. Questo è lo stile di servizio che Gesù ci ha insegnato dicendo: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Servire così sembra una scommessa perdente, ma quando ci si mette in gioco si scopre che ciò che si dona senza aspettare contraccambio non è sprecato; anzi, diventa una grande ricchezza per chi offre tempo ed energie. La gratuità, infatti, alleggerisce l’animo, risana le ferite del cuore, avvicina a Dio, dischiude la fonte della gioia e mantiene giovani dentro. In questo Paese pieno di giovani dedicarsi al volontariato può essere una via di crescita personale e sociale decisiva.

È poi un fatto che, anche nelle società altamente tecnologizzate e con un alto standard di vita, il sistema della previdenza sociale da solo non basta a erogare tutti i servizi ai cittadini, se in aggiunta non ci sono schiere di volontari e volontarie che impegnano tempo, capacità e risorse per amore dell’altro. Il vero progresso delle nazioni, infatti, non si misura sulla ricchezza economica e tanto meno su quanto investono nell’illusoria potenza degli armamenti, ma sulla capacità di provvedere alla salute, all’educazione e alla crescita integrale della gente. Vorrei dunque incoraggiare tutti i cittadini mongoli, noti per la loro magnanimità e capacità di abnegazione, a impegnarsi nel volontariato, mettendosi a disposizione degli altri. Qui, presso la Casa della Misericordia, avete una “palestra” sempre aperta dove esercitare i vostri desideri di bene e allenare il cuore.

Vorrei, infine, sfatare alcuni “miti”. In primo luogo, quello per cui solo le persone benestanti possono impegnarsi nel volontariato. Questa è una “fantasia”. La realtà dice il contrario: non è necessario essere ricchi per fare del bene, anzi quasi sempre sono le persone comuni a dedicare tempo, conoscenze e cuore per occuparsi degli altri. Un secondo mito da sfatare: quello per cui la Chiesa cattolica, che nel mondo si distingue per il grande impegno in opere di promozione sociale, fa tutto questo per proselitismo, come se occuparsi dell’altro fosse una forma di convincimento per attirare “dalla propria parte”. No, la Chiesa non va avanti per proselitismo, va avanti per attrazione. I cristiani riconoscono chi è nel bisogno e fanno il possibile per alleviarne le sofferenze perché lì vedono Gesù, il Figlio di Dio, e in Lui la dignità di ogni persona, chiamata a essere figlio o figlia di Dio. Mi piace immaginare questa Casa della Misericordia come il luogo dove persone di “credo” diversi, e anche non credenti, uniscono i propri sforzi a quelli dei cattolici locali per soccorrere con compassione tanti fratelli e sorelle in umanità. È questa la parola, compassione: capacità di patire con l’altro. E questo lo Stato saprà custodire e promuovere adeguatamente. Perché si realizzi questo sogno è infatti indispensabile, qui e altrove, che chi detiene la responsabilità pubblica sostenga tali iniziative umanitarie, dando prova di una sinergia virtuosa per il bene comune. Infine, un terzo mito da sfatare: quello secondo cui a contare sarebbero solo i mezzi economici, come se l’unico modo per prendersi cura dell’altro fosse l’impiego di personale stipendiato e l’investimento in grandi strutture. Certo, la carità richiede professionalità, però le iniziative benefiche non devono diventare imprese, ma conservare la freschezza di opere di carità, dove chi è nel bisogno trova persone capaci di ascolto, capaci di compassione, al di là di qualsiasi compenso.

In altre parole, per fare davvero del bene, ciò che è indispensabile è un cuore buono, un cuore determinato nel cercare ciò che è meglio per l’altro. Impegnarsi solo dietro remunerazione non è vero amore; solo l’amore vince l’egoismo e fa andare avanti il mondo. A questo proposito, mi piace concludere ricordando un episodio legato a Santa Teresa di Calcutta. Pare che un giornalista, guardandola ricurva sulla ferita maleodorante di un malato, una volta le abbia detto: «Quello che fate è bellissimo, ma personalmente non lo farei neanche per un milione di dollari». Madre Teresa rispose: «Per un milione di dollari non lo faccio neanch’io. Lo faccio per amore di Dio!» Prego che questo stile di gratuità sia il valore aggiunto della Casa della Misericordia. Per tutto il bene che avete fatto e che farete, io vi ringrazio di cuore – grazie, grazie tante! – e vi benedico. E per favore, abbiate anche la carità di pregare per me. Grazie.


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