Le parole di papa Francesco durante la Settimana Santa 2023

"Nella mente dei discepoli rimaneva fissa un’immagine: la croce. Lì si concentrava la fine di tutto. Ma di lì a poco avrebbero scoperto proprio nella croce un nuovo inizio". In questo articolo sono raccolte le parole di papa Francesco durante questi giorni precedenti alla Santa Pasqua.

2 aprile

Domenica delle Palme: Passione del Signore – Commemorazione dell’ingresso del Signore in Gerusalemme e Santa Messa

5 aprile

Catechesi: Il Crocifisso, sorgente di speranza

6 aprile

Omelia: Santa Messa del Crisma

Omelia: Santa Messa in Coena Domini

8 aprile

Omelia: Veglia Pasquale nella Notte Santa

9 aprile

Benedizione Urbi et Orbi

10 aprile

Regina Coeli


2 aprile

Domenica delle Palme: Passione del Signore – Commemorazione dell’ingresso del Signore in Gerusalemme e Santa Messa

«Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). È l’invocazione che la Liturgia oggi ci ha fatto ripetere nel Salmo responsoriale (cfr Sal 22,2) ed è l’unica pronunciata sulla croce da Gesù nel Vangelo che abbiamo ascoltato. Sono dunque le parole che ci portano al cuore della passione di Cristo, al culmine delle sofferenze che ha patito per salvarci. “Perché mi hai abbandonato?”.

Le sofferenze di Gesù sono state tante, e ogni volta che ascoltiamo il racconto della passione ci entrano dentro. Sono state sofferenze del corpo: pensiamo agli schiaffi, alle percosse, alla flagellazione, alla corona di spine, alla tortura della croce. Sono state sofferenze dell’anima: il tradimento di Giuda, i rinnegamenti di Pietro, le condanne religiose e civili, lo scherno delle guardie, gli insulti sotto la croce, il rifiuto di tanti, il fallimento di tutto, l’abbandono dei discepoli. Eppure, in tutto questo dolore a Gesù restava una certezza: la vicinanza del Padre. Ma ora accade l’impensabile; prima di morire grida: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». L’abbandono di Gesù.

Ecco la sofferenza più lacerante, è la sofferenza dello spirito: nell’ora più tragica Gesù prova l’abbandono da parte di Dio. Mai, prima di allora, aveva chiamato il Padre con il nome generico di Dio. Per trasmetterci la forza di quel fatto, il Vangelo riporta la frase anche in aramaico: è l’unica, tra quelle dette da Gesù in croce, che ci giunge in lingua originale. L’evento reale è l’abbassamento estremo, cioè l’abbandono di suo Padre, l’abbandono di Dio. Il Signore arriva a soffrire per amore nostro quanto per noi è difficile persino comprendere. Vede il cielo chiuso, sperimenta la frontiera amara del vivere, il naufragio dell’esistenza, il crollo di ogni certezza: grida “il perché dei perché”. “Tu, Dio, perché?”.

Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Il verbo “abbandonare” nella Bibbia è forte; compare in momenti di dolore estremo: in amori falliti, respinti e traditi; in figli rifiutati e abortiti; in situazioni di ripudio, vedovanza e orfananza; in matrimoni esausti, in esclusioni che privano dei legami sociali, nell’oppressione dell’ingiustizia e nella solitudine della malattia: insomma, nelle più drastiche lacerazioni dei legami. Lì, si dice questa parola: “abbandono”. Cristo ha portato questo sulla croce, caricandosi il peccato del mondo. E al culmine Egli, il Figlio unigenito e prediletto, ha provato la situazione a Lui più estranea: l’abbandono, la lontananza di Dio.

E perché è arrivato a tanto? per noi, non c’è un’altra risposta. Per noi. Fratelli e sorelle, oggi questo non è uno spettacolo. Ognuno, ascoltando l’abbandono di Gesù, ognuno di noi si dica: per me. Questo abbandono è il prezzo che ha pagato per me. Si è fatto solidale con ognuno di noi fino al punto estremo, per essere con noi fino in fondo. Ha provato l’abbandono per non lasciarci ostaggi della desolazione e stare al nostro fianco per sempre. L’ha fatto per me, per te, perché quando io, tu o chiunque altro si vede con le spalle al muro, perso in un vicolo cieco, sprofondato nell’abisso dell’abbandono, risucchiato nel vortice dei tanti “perché” senza risposta, ci sia una speranza. Lui, per te, per me. Non è la fine, perché Gesù è stato lì e ora è con te: Lui, che ha sofferto la lontananza dell’abbandono per accogliere nel suo amore ogni nostra distanza. Perché ciascuno di noi possa dire: nelle mie cadute – ognuno di noi è caduto tante volte –, nella mia desolazione, quando mi sento tradito, o ho tradito gli altri, quando mi sento scartato o ho scartato gli altri, quando mi sento abbandonato o ho abbandonato gli altri, pensiamo che Lui è stato abbandonato, tradito, scartato. E lì troviamo Lui. Quando mi sento sbagliato e perso, quando non ce la faccio più, Lui è con me; nei miei tanti perché senza risposta, Lui è lì.

Il Signore ci salva così, dal di dentro dei nostri “perché”. Da lì dischiude la speranza che non delude. Sulla croce, infatti, mentre prova l’estremo abbandono, non si lascia andare alla disperazione – questo è il limite –, ma prega e si affida. Grida il suo “perché” con le parole di un salmo (22,2) e si consegna nelle mani del Padre, anche se lo sente lontano (cfr Lc 23,46) o non lo sente perché si trova abbandonato. Nell’abbandono si affida. Nell’abbandono continua ad amare i suoi che l’avevano lasciato solo. Nell’abbandono perdona i suoi crocifissori (v. 34). Ecco che l’abisso dei tanti nostri mali viene immerso in un amore più grande, così che ogni nostra separazione si trasforma in comunione.

Fratelli e sorelle, un amore così, tutto per noi, fino alla fine, l’amore di Gesù è capace di trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne. È un amore di pietà, di tenerezza, di compassione. Lo stile di Dio è questo: vicinanza, compassione e tenerezza. Dio è così. Cristo abbandonato ci smuove a cercarlo e ad amarlo negli abbandonati. Perché in loro non ci sono solo dei bisognosi, ma c’è Lui, Gesù abbandonato, Colui che ci ha salvati scendendo fino al fondo della nostra condizione umana. È con ognuno di loro, abbandonati fino alla morte… Penso a quell’uomo cosiddetto “di strada”, tedesco, che morì sotto il colonnato, solo, abbandonato. È Gesù per ognuno di noi. Tanti hanno bisogno della nostra vicinanza, tanti abbandonati. Anch’io ho bisogno che Gesù mi accarezzi e si avvicini a me, e per questo vado a trovarlo negli abbandonati, nei soli. Egli desidera che ci prendiamo cura dei fratelli e delle sorelle che più assomigliano a Lui, a Lui nell’atto estremo del dolore e della solitudine. Oggi, cari fratelli e sorelle, sono tanti “cristi abbandonati”. Ci sono popoli interi sfruttati e lasciati a sé stessi; ci sono poveri che vivono agli incroci delle nostre strade e di cui non abbiamo il coraggio di incrociare lo sguardo; ci sono migranti che non sono più volti ma numeri; ci sono detenuti rifiutati, persone catalogate come problema. Ma ci sono anche tanti cristi abbandonati invisibili, nascosti, che vengono scartati coi guanti bianchi: bambini non nati, anziani lasciati soli – può essere tuo papà, tua mamma forse, il nonno, la nonna, abbandonati negli istituti geriatrici –, ammalati non visitati, disabili ignorati, giovani che sentono un grande vuoto dentro senza che alcuno ascolti davvero il loro grido di dolore. E non trovano altra strada se non il suicidio. Gli abbandonati di oggi. I cristi di oggi.

Gesù abbandonato ci chiede di avere occhi e cuore per gli abbandonati. Per noi, discepoli dell’Abbandonato, nessuno può essere emarginato, nessuno può essere lasciato a sé stesso; perché, ricordiamolo, le persone rifiutate ed escluse sono icone viventi di Cristo, ci ricordano il suo amore folle, il suo abbandono che ci salva da ogni solitudine e desolazione. Fratelli e sorelle, chiediamo oggi questa grazia: di saper amare Gesù abbandonato e di saper amare Gesù in ogni abbandonato, in ogni abbandonata. Chiediamo la grazia di saper vedere, di saper riconoscere il Signore che ancora grida in loro. Non permettiamo che la sua voce si perda nel silenzio assordante dell’indifferenza. Non siamo stati lasciati soli da Dio; prendiamoci cura di chi viene lasciato solo. Allora, soltanto allora, faremo nostri i desideri e i sentimenti di Colui che per noi «svuotò se stesso» (Fil 2,7). Si svuotò totalmente per noi.


5 aprile

Catechesi: Il Crocifisso, sorgente di speranza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Domenica scorsa la Liturgia ci ha fatto ascoltare la Passione del Signore. Essa termina con queste parole: «Sigillarono la pietra» (Mt 27,66): tutto sembra finito. Per i discepoli di Gesù quel macigno segna il capolinea della speranza. Il Maestro è stato crocifisso, ucciso nel modo più crudele e umiliante, appeso a un patibolo infame fuori dalla città: un fallimento pubblico, il peggior finale possibile – a quell’epoca era il peggiore. Ora, quello sconforto che opprimeva i discepoli non è del tutto estraneo a noi oggi. Anche in noi si addensano pensieri cupi e sentimenti di frustrazione: perché tanta indifferenza verso Dio? È curioso, questo: perché tanta indifferenza verso Dio? Perché tanto male nel mondo? Ma guardate, che c’è male nel mondo! Perché le disuguaglianze continuano a crescere e la sospirata pace non arriva? Perché siamo attaccati così alla guerra, al farsi del male l’uno all’altro? E nei cuori di ognuno, quante attese svanite, quante delusioni! E ancora, quella sensazione che i tempi passati fossero migliori e che nel mondo, magari pure nella Chiesa, le cose non vadano come una volta… Insomma, anche oggi la speranza sembra a volte sigillata sotto la pietra della sfiducia. E invito ognuno di voi a pensare a questo: dov’è la tua speranza? Tu, hai una speranza viva o l’hai sigillata lì, o l’hai nel cassetto come un ricordo? Ma la tua speranza ti spinge a camminare o è un ricordo romantico come se fosse una cosa che non esiste? Dov’è la tua speranza, oggi?

Nella mente dei discepoli rimaneva fissa un’immagine: la croce. E lì è finito tutto. Lì si concentrava la fine di tutto. Ma di lì a poco avrebbero scoperto proprio nella croce un nuovo inizio. Cari fratelli e sorelle, la speranza di Dio germoglia così, nasce e rinasce nei buchi neri delle nostre attese deluse; ed essa, la speranza vera, invece, non delude mai. Pensiamo proprio alla croce: dal più terribile strumento di tortura Dio ha ricavato il segno più grande dell’amore. Quel legno di morte, diventato albero di vita, ci ricorda che gli inizi di Dio cominciano spesso dalle nostre fini. Così Egli ama operare meraviglie. Oggi, allora, guardiamo l’albero della croce perché germogli in noi la speranza: quella virtù quotidiana, quella virtù silenziosa, umile, ma quella virtù che ci mantiene in piedi, che ci aiuta ad andare avanti. Senza speranza non si può vivere. Pensiamo: dov’è la mia speranza? Oggi, guardiamo l’albero della croce perché germogli in noi la speranza: per essere guariti dalla tristezza – ma, quanta gente triste … A me, quando potevo andare per le strade, adesso non posso perché non mi lasciano, ma quando potevo andare per le strade nell’altra Diocesi, piaceva guardare lo sguardo della gente. Quanti sguardi tristi! Gente triste, gente che parlava con sé stessa, gente che camminava soltanto con il telefonino, ma senza pace, senza speranza. E dov’è la tua speranza, oggi? Ci vuole un po’ di speranza per essere guariti dalla tristezza di cui siamo malati, per essere guariti dall’amarezza con cui inquiniamo la Chiesa e il mondo. Fratelli e sorelle, guardiamo il Crocifisso. E che cosa vediamo? Vediamo Gesù nudo, Gesù spogliato, Gesù ferito, Gesù tormentato. È la fine di tutto? Lì c’è la nostra speranza.

Cogliamo allora come in questi due aspetti la speranza, che sembra morire, rinasce. Anzitutto, vediamo Gesù spogliato: infatti, «dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte» (v. 35). Dio spogliato: Lui che ha tutto si lascia privare di tutto. Ma quella umiliazione è la via della redenzione. Dio vince così sulle nostre apparenze. Noi, infatti, facciamo fatica a metterci a nudo, a fare la verità: sempre cerchiamo di coprire le verità perché non ci piace; ci rivestiamo di esteriorità che ricerchiamo e curiamo, di maschere per camuffarci e mostrarci migliori di come siamo. È un po’ l’abitudine del maquillage: maquillage interiore, sembrare migliore degli altri… Pensiamo che l’importante sia ostentare, apparire, così che gli altri dicano bene di noi. E ci addobbiamo di apparenze, ci addobbiamo di apparenze, di cose superflue; ma così non troviamo pace. Poi il maquillage se ne va e tu ti guardi allo specchio con la faccia brutta che hai, ma vera, quella che Dio ama, non quella “maquillata. E Gesù spogliato di tutto ci ricorda che la speranza rinasce col fare verità su di noi – dire la verità a se stesso –, col lasciar cadere le doppiezze, col liberarci dalla pacifica convivenza con le nostre falsità. Alle volte, noi siamo tanto abituati a dirci delle falsità che conviviamo con le falsità come se fossero verità e noi finiamo avvelenati dalle nostre falsità. Questo serve: tornare al cuore, all’essenziale, a una vita semplice, spoglia di tante cose inutili, che sono surrogati di speranza. Oggi, quando tutto è complesso e si rischia di perdere il filo, abbiamo bisogno di semplicità, di riscoprire il valore della sobrietà, il valore della rinuncia, di fare pulizia di ciò che inquina il cuore e rende tristi. Ciascuno di noi può pensare a una cosa inutile di cui può liberarsi per ritrovarsi. Pensa tu, quante cose inutili. Qui, quindici giorni fa, a Santa Marta, dove io abito – che è un albergo per tanta gente – si è sparsa la voce che per questa Settimana Santa sarebbe stato bello guardare il guardaroba e spogliare, mandare via le cose che abbiamo, che non usiamo… voi non immaginate la quantità di cose! È bello spogliarsi delle cose inutili. E questo è andato ai poveri, alla gente che ha bisogno. Anche noi, abbiamo tante cose inutili dentro il cuore – e fuori pure. Guardate il vostro guardaroba: guardatelo. Questo è utile, questo e inutile … e fate pulizia. Guardate il guardaroba dell’anima: quante cose inutili hai, quante illusioni stupide. Torniamo alla semplicità, alle cose vere, che non hanno bisogno di truccarsi. Ecco un bell’esercizio!

Rivolgiamo un secondo sguardo al Crocifisso e vediamo Gesù ferito. La croce mostra i chiodi che gli forano le mani e i piedi, il costato aperto. Ma alle ferite del corpo si aggiungono quelle dell’anima: ma quanta angoscia! Gesù è solo: tradito, consegnato e rinnegato dai suoi, dai suoi amici, anche dai suoi discepoli, condannato dal potere religioso e civile, scomunicato, Gesù prova persino l’abbandono di Dio (cfr v. 46). Sulla croce compare inoltre il motivo della condanna, «Costui è Gesù: il re dei Giudei» (v. 37). È un dileggio: Lui, che era fuggito quando cercavano di farlo re (cfr Gv 6,15), viene condannato per essersi fatto re; pur non avendo commesso reati, è messo in mezzo a due malfattori e gli viene preferito il violento Barabba (cfr Mt 27,15-21). Gesù insomma è ferito nel corpo e nell’anima. Mi domando: in che modo ciò aiuta la nostra speranza? Così, Gesù nudo, privo di tutto, di tutto: questo, cosa dice alla mia speranza, come mi aiuta?

Anche noi siamo feriti: chi non lo è nella vita? E tante volte, con ferite nascoste che nascondiamo per la vergogna. Chi non porta le cicatrici di scelte passate, di incomprensioni, di dolori che restano dentro e si fatica a superare? Ma anche di torti subiti, di parole taglienti, di giudizi inclementi? Dio non nasconde ai nostri occhi le ferite che gli hanno trapassato il corpo e l’anima. Le mostra per farci vedere che a Pasqua si può aprire un passaggio nuovo: fare delle proprie ferite dei fori di luce. “Ma, Santità, non esageri”, qualcuno può dirmi. No, è vero: prova; prova. Prova a farlo. Pensa alle tue ferite, quelle che tu solo sai, che ognuno ha nascoste nel cuore. E guarda il Signore. E vedrai, vedrai come da quelle ferite escono fori di luce. Gesù in croce non recrimina, ama. Ama e perdona chi lo ferisce (cfr Lc 23,34). Così converte il male in bene, così converte e trasforma il dolore in amore.

Fratelli e sorelle, il punto non è essere feriti poco o tanto dalla vita, il punto è cosa fare delle mie ferite. Le piccoline, le grandi, quelle che lasceranno un segno nel mio corpo, nella mia anima sempre. Cosa faccio io, con le mie ferite? Cosa fai tu e tu con le tue ferite? “No, Padre, io non ne ho, ferite” – “Stai attento, pensa due volte prima di dire questo”. E ti domando: cosa fai con le tue ferite, quelle che soltanto tu sai? Tu puoi lasciarle infettare nel rancore, nella tristezza oppure posso unirle a quelle di Gesù, perché anche le mie piaghe diventino luminose. Pensate a quanti giovani non tollerano le proprie ferite e cercano nel suicidio una via di salvezza: oggi, nelle nostre città, tanti, tanti giovani che non vedono via di uscita, che non hanno speranza e preferiscono andare oltre con la droga, con la dimenticanza… poveretti. Pensate a questi. E tu, qual è la tua droga, per coprire le ferite? Le nostre ferite possono diventare fonti di speranza quando, anziché piangerci addosso o nasconderle, asciughiamo le lacrime altrui; quando, anziché covare risentimento per quanto ci è tolto, ci prendiamo cura di ciò che manca agli altri; quando, anziché rimuginare in noi stessi, ci chiniamo su chi soffre; quando, anziché essere assetati d’amore per noi, dissetiamo chi ha bisogno di noi. Perché soltanto se smettiamo di pensare a noi stessi, ci ritroviamo. Ma se continuiamo a pensare a noi stessi non ci ritroveremo più. Ed è facendo così che – dice la Scrittura – la nostra ferita si rimargina presto (cfr Is 58,8), e la speranza rifiorisce. Pensate: cosa posso fare per gli altri? Sono ferito, sono ferito di peccato, sono ferito di storia, ognuno ha la propria ferita. Cosa faccio: lecco le mie ferite così, tutta la vita? O guardo le ferite altrui e vado con l’esperienza ferita della mia vita, a guarire, ad aiutare gli altri? Questa è la sfida di oggi, per tutti voi, per ognuno di voi, per ognuno di noi. Che il Signore ci aiuti ad andare avanti.


6 aprile

Omelia: Santa Messa del Crisma

«Lo spirito del Signore è sopra di me» (Lc 4,18): da questo versetto è cominciata la predicazione di Gesù e dallo stesso versetto ha preso avvio la Parola che abbiamo ascoltato oggi (cfr Is 61,1). Al principio, dunque, sta lo Spirito del Signore.

Ed è su di Lui che vorrei riflettere oggi con voi, cari confratelli, sullo Spirito del Signore. Perché senza lo Spirito del Signore non c’è vita cristiana e, senza la sua unzione, non c’è santità. Egli è il protagonista ed è bello oggi, nel giorno nativo del sacerdozio, riconoscere che c’è Lui all’origine del nostro ministero, della vita e della vitalità di ogni Pastore. La santa Madre Chiesa ci insegna infatti a professare che lo Spirito Santo «dà la vita»[1], come ha affermato Gesù dicendo: «È lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63); insegnamento ripreso dall’apostolo Paolo, il quale scrisse che «la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Cor 3,6) e parlò della «legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Senza di Lui neppure la Chiesa sarebbe la Sposa vivente di Cristo, ma al più un’organizzazione religiosa - più o meno buona; non sarebbe il Corpo di Cristo, ma un tempio costruito da mani d’uomo. Come edificare allora la Chiesa, se non a partire dal fatto che siamo “templi dello Spirito Santo” che “abita in noi” (cfr 1 Cor 6,19; 3,16)? Non possiamo lasciarlo fuori casa o parcheggiarlo in qualche zona devozionale, no, al centro! Abbiamo bisogno ogni giorno di dire: “Vieni, perché senza la tua forza nulla è nell’uomo”[2].

Lo Spirito del Signore è sopra di me. Ciascuno di noi può dirlo; e non è presunzione, è realtà, in quanto ogni cristiano, in particolare ogni sacerdote, può fare proprie le parole che seguono: «perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (Is 61,1). Fratelli, senza merito, per pura grazia abbiamo ricevuto un’unzione che ci ha fatto padri e pastori nel Popolo santo di Dio. Soffermiamoci allora su questo aspetto dello Spirito: l’unzione.

Dopo la prima “unzione” che avvenne nel grembo di Maria, lo Spirito scese su Gesù al Giordano. In seguito a ciò, come spiega San Basilio, «ogni azione [di Cristo] si andava compiendo con la compresenza dello Spirito Santo»[3]. Con la potenza di quella unzione, infatti, predicava e operava segni, in virtù di essa «da lui usciva una forza che guariva tutti» (Lc 6,19). Gesù e lo Spirito operano sempre insieme, così da essere come le due mani del Padre[4] - Ireneo dice questo - che, protese verso di noi, ci abbracciano e ci risollevano. E da loro sono state segnate le nostre mani, unte dallo Spirito di Cristo. Sì, fratelli, il Signore non ci ha solo scelti e chiamati di qua, di là: ha riversato in noi l’unzione del suo Spirito, lo stesso che è disceso sugli Apostoli. Fratelli noi siamo degli “unti”.

Guardiamo dunque a loro, agli Apostoli. Gesù li scelse e sulla sua chiamata lasciarono le barche, le reti, la casa e così via... L’unzione della Parola cambiò la loro vita. Con entusiasmo seguirono il Maestro e cominciarono a predicare, convinti di compiere in seguito cose ancora più grandi; finché arrivò la Pasqua. Lì tutto sembrò fermarsi: giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro. Non dobbiamo avere paura. Siamo coraggiosi nel leggere la nostra propria vita e le nostre cadute. Giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro, Pietro, il primo. Fecero i conti con la loro inadeguatezza e compresero di non averlo capito: il «non conosco quest’uomo» (Mc 14,71), che Pietro scandì nel cortile del sommo sacerdote dopo l’ultima Cena, non è solo una difesa impulsiva, ma un’ammissione di ignoranza spirituale: lui e gli altri forse si aspettavano una vita di successi dietro a un Messia trascinatore di folle e operatore di prodigi, ma non riconoscevano lo scandalo della croce, che sbriciolò le loro certezze. Gesù sapeva che da soli non ce l’avrebbero fatta e per questo promise loro il Paraclito. E fu proprio quella “seconda unzione”, a Pentecoste, a trasformare i discepoli portandoli a pascere il gregge di Dio e non più sé stessi. E questa è la contraddizione da risolvere: sono pastore del popolo di Dio o di me stesso? E c’è lo Spirito ad insegnarmi la strada. Fu quell’unzione di fuoco a estinguere la loro religiosità centrata su sé stessi e sulle proprie capacità: accolto lo Spirito, evaporano le paure e i tentennamenti di Pietro; Giacomo e Giovanni, bruciati dal desiderio di dare la vita, smettono di inseguire posti d’onore (cfr Mc 10,35-45), il carrierismo nostro, fratelli; gli altri non stanno più chiusi e timorosi nel Cenacolo, ma escono e diventano apostoli nel mondo. È lo spirito a cambiare il nostro cuore, a metterlo in quel piano diverso, differente.

Fratelli, un simile itinerario abbraccia la nostra vita sacerdotale e apostolica. Anche per noi c’è stata una prima unzione, cominciata con una chiamata d’amore che ci ha rapito il cuore. Per essa abbiamo lasciato gli ormeggi e su quell’entusiasmo genuino è scesa la forza dello Spirito, che ci ha consacrato. Poi, secondo i tempi di Dio, giunge per ciascuno la tappa pasquale, che segna il momento della verità. Ed è un momento di crisi, che ha varie forme. A tutti, prima o poi, succede di sperimentare delusioni, fatiche, debolezze, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale, mentre subentra una certa abitudinarietà e alcune prove, prima difficili da immaginare, fanno apparire la fedeltà più scomoda rispetto a un tempo. Questa tappa - di questa tentazione, di questa prova che tutti noi abbiamo avuto, abbiamo e avremo – questa tappa rappresenta un crinale decisivo per chi ha ricevuto l’unzione. Si può uscirne male, planando verso una certa mediocrità, trascinandosi stanchi in una “normalità” dove si insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta di ciò che si può fare; quella dei surrogati, per cui si tenta di “ricaricarsi” con altro rispetto alla nostra unzione; quella dello scoraggiamento – che è la più comune -, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia. Ed ecco qui il grande rischio: mentre restano intatte le apparenze – “Io sono sacerdote, io sono prete” -, ci si ripiega su di sé e si tira a campare svogliati; la fragranza dell’unzione non profuma più la vita e il cuore; e il cuore non si dilata ma si restringe, avvolto nel disincanto. È un distillato, sai? Quando il sacerdozio lentamente va scivolando sul clericalismo e il sacerdote si dimentica di essere pastore del popolo, per diventare un chierico di Stato.

Ma questa crisi può diventare anche la svolta del sacerdozio, la «tappa decisiva della vita spirituale, in cui deve effettuarsi l’ultima scelta tra Gesù e il mondo, tra l’eroicità della carità e la mediocrità, tra la croce e un certo benessere, tra la santità e un’onesta fedeltà all’impegno religioso»[5]. Alla fine di questa celebrazione vi daranno come dono un classico, un libro che tratta su questo problema: “La seconda chiamata”, è un classico di padre Voillaume che tocca questo problema, leggetelo. Poi tutti noi abbiamo bisogno di riflettere su questo momento del nostro sacerdozio. È il momento benedetto in cui noi, come i discepoli a Pasqua, siamo chiamati a essere «abbastanza umili per confessarci vinti dal Cristo umiliato e crocifisso, e per accettare di iniziare un nuovo cammino, quello dello Spirito, della fede e di un amore forte e senza illusioni»[6]. È il chairos in cui scopre che «il tutto non si riduce ad abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma richiede di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione e il frutto, e di andare con l’aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità»[7]. Con l’aiuto dello Spirito Santo: è il tempo, per noi come per gli Apostoli, di una “seconda unzione”, tempo di una seconda chiamata che dobbiamo ascoltare, per la seconda unzione, dove accogliere lo Spirito non sull’entusiasmo dei nostri sogni, ma sulla fragilità della nostra realtà. È un’unzione che fa verità nel profondo, che permette allo Spirito di ungerci le debolezze, le fatiche, le povertà interiori. Allora l’unzione profuma nuovamente: di Lui, non di noi. In questo momento, interiormente, sto facendo memoria di alcuni di voi che sono in crisi – diciamo così – che sono disorientati e che non sanno come prendere la strada, come riprendere la strada in questa seconda unzione dello Spirito. A questi fratelli - io li ho presenti – semplicemente dico: coraggio, il Signore è più grande delle tue debolezze, dei tuoi peccati. Affidati al Signore e lasciati chiamare una seconda volta, questa volta con l’unzione dello Spirito Santo. La doppia vita non ti aiuterà; buttare tutto dalla finestra, nemmeno. Guarda avanti, lasciati carezzare per l’unzione dello Spirito Santo.

E la via per questo passo di maturazione è ammettere la verità della propria debolezza. A questo ci esorta «lo Spirito della verità» (Gv 16,13), che ci smuove a guardarci dentro fino in fondo, a chiederci: la mia realizzazione dipende dalla mia bravura, dal ruolo che ottengo, dai complimenti che ricevo, dalla carriera che faccio, dai superiori o collaboratori, o dai confort che mi posso garantire, oppure dall’unzione che profuma la mia vita? Fratelli, la maturità sacerdotale passa dallo Spirito Santo, si compie quando Lui diventa il protagonista della nostra vita. Allora tutto cambia prospettiva, anche le delusioni e le amarezze – anche i peccati - , perché non si tratta più di cercare di stare meglio aggiustando qualcosa, ma di consegnarci, senza trattenere nulla, a Chi ci ha impregnati nella sua unzione e vuole scendere in noi fino in fondo. Fratelli, riscopriamo allora che la vita spirituale diventa libera e gioiosa non quando si salvano le forme e si cuce una toppa, ma quando si lascia allo Spirito l’iniziativa e, abbandonati ai suoi disegni, ci disponiamo a servire dove e come ci viene chiesto: il nostro sacerdozio non cresce per rammendo, ma per traboccamento!

Se lasciamo agire in noi lo Spirito della verità custodiremo l’unzione – custodire l’unzione -,perché le falsità – le ipocrisie clericali – le falsità con cui siamo tentati di convivere verranno alla luce subito. E lo Spirito, il quale “lava ciò che è sordido”, ci suggerirà, senza stancarsi, di “non macchiare l’unzione”, nemmeno un poco. Viene alla mente quella frase del Qoelet, che dice: «Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere» (10,1). È vero, ogni doppiezza – la doppiezza clericale, per favore – ogni doppiezza che si insinua è pericolosa: non va tollerata, ma portata alla luce dello Spirito. Perché se «niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce» (Ger 17,9), lo Spirito Santo, Lui solo, ci guarisce dalle infedeltà (cfr Os 14,5). È per noi una lotta irrinunciabile: è infatti indispensabile, come scrisse San Gregorio Magno, che «chi annuncia la parola di Dio, prima si dedichi al proprio modo di vivere, perché poi, attingendo dalla propria vita, impari cosa e come dirlo. [...] Nessuno presuma di dire fuori ciò che prima non ha ascoltato dentro»[8]. Ed è lo Spirito il maestro interiore da ascoltare, sapendo che non c’è nulla di noi che Egli non voglia ungere. Fratelli, custodiamo l’unzione: invocare lo Spirito sia non una pratica saltuaria, ma il respiro di ogni giorno. Vieni, vieni, custodisci l’unzione. Io, consacrato da Lui, sono chiamato a immergermi in Lui, a far entrare la sua luce nelle mie opacità –ne abbiamo tante - per ritrovare la verità di quello che sono. Lasciamoci spingere da Lui a combattere le falsità che si agitano in noi; e lasciamoci rigenerare da Lui nell’adorazione, perché quando adoriamo il Signore Egli riversa nei nostri cuori il suo Spirito.

«Lo spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato», prosegue la profezia, e mi ha mandato a portare un lieto annuncio, liberazione, guarigione e grazia (cfr Is 61,1-2; Lc 4,18-19): in una parola, a portare armonia dove non c’è. Perché come dice San Basilio: “Lo Spirito è l’armonia”, è Lui che fa l’armonia. Dopo avervi parlato dell’unzione, vorrei dirvi qualcosa su questa armonia che ne è la conseguenza. Lo Spirito Santo, infatti, è armonia. Anzitutto in Cielo: San Basilio spiega che «tutta quella sovraceleste e indicibile armonia nel servizio di Dio e nella sinfonia vicendevole delle potenze sovracosmiche, è impossibile che sia conservata se non per l’autorità dello Spirito»[9]. E poi in terra: nella Chiesa Egli è infatti quella «divina e musicale Armonia»[10] che tutto lega. Ma pensate a un presbiterio senza armonia, senza lo Spirito: non funziona. Suscita la diversità dei carismi e la ricompone in unità, crea una concordia che non si fonda sull’omologazione, ma sulla creatività della carità. Così fa l’armonia tra i molti. Così fa armonia in un presbitero. Durante gli anni del Concilio Vaticano II, che è stato un dono dello Spirito, un teologo pubblicò uno studio in cui parlò dello Spirito non in chiave individuale, ma plurale. Invitò a pensarlo come una Persona divina non tanto singolare, ma “plurale”, come il “noi di Dio”, il noi del Padre e del Figlio, perché è il loro nesso, è in sé stesso concordia, comunione, armonia[11]. Io ricordo che quando ho letto questo trattato teologico - era in teologia, studiando – mi sono scandalizzato: sembrava un’eresia, perché nella nostra formazione non si capiva bene come era lo Spirito Santo.

Creare armonia è quanto desidera, soprattutto attraverso coloro nei quali ha riversato la sua unzione. Fratelli, costruire l’armonia tra noi non è tanto un buon metodo affinché la compagine ecclesiale proceda meglio, non è ballare il minuet, non è questione di strategia o di cortesia: è un’esigenza interna alla vita dello Spirito. Si pecca contro lo Spirito che è comunione quando si diventa, anche per leggerezza, strumenti di divisione, per esempio – e torniamo sullo stesso tema - col chiacchiericcio. Quando diventiamo strumenti di divisione pecchiamo contro lo Spirito. E si fa il gioco del nemico, che non viene allo scoperto e ama le dicerie e le insinuazioni, fomenta partiti e cordate, alimenta la nostalgia del passato, la sfiducia, il pessimismo, la paura. Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Santa Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione. Ricordiamo che lo Spirito, “il noi di Dio”, predilige la forma comunitaria: cioè la disponibilità rispetto alle proprie esigenze, l’obbedienza rispetto ai propri gusti, l’umiltà rispetto alle proprie pretese.

L’armonia non è una virtù tra le altre, è di più. San Gregorio Magno scrive: «Quanto valga la virtù della concordia lo dimostra il fatto che, senza di essa, tutte le altre virtù non valgono assolutamente nulla»[12]. Aiutiamoci, fratelli, a custodire l’armonia, custodire l’armonia – questo sarebbe il compito - cominciando non dagli altri, ma ciascuno da sé stesso; chiedendoci: nelle mie parole, nei miei commenti, in quello che dico e scrivo c’è il timbro dello Spirito o quello del mondo? Penso anche alla gentilezza del sacerdote - ma tante volte i preti, noi…siamo dei maleducati - : pensiamo alla gentilezza del sacerdote, se la gente trova persino in noi persone insoddisfatte, persone scontente, zitellone, che criticano e puntano il dito, dove vedrà l’armonia? Quanti non si avvicinano o si allontanano perché nella Chiesa non si sentono accolti e amati, ma guardati con sospetto e giudicati! In nome di Dio, accogliamo e perdoniamo, sempre! E ricordiamo che l’essere spigolosi e lamentosi, oltre a non produrre nulla di buono, corrompe l’annuncio, perché contro-testimonia Dio, che è comunione e armonia. E Ciò dispiace tanto e anzitutto allo Spirito Santo, che l’apostolo Paolo ci esorta a non rattristare (cfr Ef 4,30).

Fratelli, vi lascio questi pensieri che sono usciti dal cuore e concludo rivolgendovi una parola semplice e importante: grazie. Grazie per la vostra testimonianza, grazie per il vostro servizio; grazie per tanto bene nascosto che fate, grazie per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio: perdonare sempre, per favore, mai negare il perdono; grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche, incomprensioni e pochi riconoscimenti. Fratelli, lo Spirito di Dio, che non lascia deluso chi ripone in Lui la propria fiducia, vi colmi di pace e porti a compimento ciò che in voi ha iniziato, perché siate profeti della sua unzione e apostoli di armonia.

[1] Simbolo niceno-costantinopolitano.

[2] Cfr Sequenza di Pentecoste.

[3] Spir. 16,39.

[4] Cfr Ireneo, Adv. haer. IV,20,1.

[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in S. Stevan ed., La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bologna 2018, 15.

[6] ibid., 24.

[7] ibid., 16.

[8] Omelie su Ezechiele, I,X,13-14.

[9] Spir. XVI, 38.

[10] In Ps. 29,1.

[11] Cfr H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.

[12] Omelie su Ezechiele, I,VIII,8.


Omelia: Santa Messa in Coena Domini

Attira l’attenzione come Gesù, proprio il giorno prima di essere crocifisso, fa questo gesto. Lavare i piedi, era abitudine a quel tempo perché le strade erano polverose, la gente veniva da fuori e nell’entrare in una casa, prima del banchetto, della riunione, si lavava i piedi. Ma chi lavava i piedi? Gli schiavi, perché era un lavoro da schiavo. Immaginiamo noi come sono rimasti sbalorditi i discepoli quando hanno visto che Gesù incomincia a fare questo gesto di uno schiavo. Ma egli lo fa per far capire loro il messaggio del giorno dopo che sarebbe morto come uno schiavo, per pagare il debito di tutti noi. Se noi ascoltassimo queste cose di Gesù, la vita sarebbe così bella perché ci affretteremmo ad aiutarci l’un l’altro, invece di fregare uno all’altro, di approfittarsi l’uno dell’altro, come ci insegnano i furbi. È tanto bello aiutarsi l’un l’altro, dare la mano: sono gesti umani, universali, ma che nascono da un cuore nobile. E Gesù oggi con questa celebrazione vuole insegnarci questo: la nobiltà del cuore. Ognuno di noi può dire: “Ma se il Papa sapesse le cose che io ho dentro…”. Ma Gesù le sa e ci ama cosi come siamo, e lava i piedi a tutti noi. Gesù non si spaventa mai delle nostre debolezze, non si spaventa mai perché Lui ha già pagato, soltanto vuole accompagnarci, vuole prenderci per mano perché la vita non sia tanto dura per noi. Io farò lo stesso gesto di lavare i piedi, ma non è una cosa folcloristica, no. Pensiamo che è un gesto che annuncia come dobbiamo essere noi, uno con l’altro. Nella società vediamo quanta gente si approfitta degli altri, quanta gente che è all’angolo e non riesce a uscire. Quante ingiustizie, quanta gente senza lavoro, quanta gente che lavora e viene pagano la metà, quanta gente che non ha i soldi per comprare le medicine, quante famiglie distrutte, tante cose brutte… E nessuno di noi può dire: “Io grazie a Dio non sono così sai” – “Se io non sono così è per la grazia di Dio!”; ognuno di noi può scivolare, ognuno di noi. E questa coscienza, questa certezza che ognuno di noi può scivolare è quello che ci dà la dignità - ascoltate la parola: la “dignità” - di essere peccatori. E Gesù ci vuole così e per questo ha voluto lavare i piedi e dire: “Io sono venuto per salvare voi, per servire voi”. Adesso io farò lo stesso come ricordo di questo che Gesù ci ha insegnato: aiutarsi gli uni gli altri. E così la vita è più bella e si può andare avanti così. Durante la lavanda dei piedi – spero di cavarmela perché non posso camminare bene – ma durante la lavanda dei piedi voi pensate: “Gesù mi ha lavato i piedi, Gesù mi ha salvato, e ho questa difficoltà adesso”. Ma passerà, il Signore è sempre accanto a te, mai abbandona, mai. Pensate questo.


8 aprile

Omelia: Veglia Pasquale nella Notte Santa

La notte sta per finire e si accendono le prime luci dell’alba, quando le donne si mettono in cammino verso la tomba di Gesù. Avanzano incerte, smarrite, con il cuore lacerato dal dolore per quella morte che ha portato via l’Amato. Ma, giungendo presso quel luogo e vedendo la tomba vuota, invertono la rotta, cambiano strada; abbandonano il sepolcro e corrono ad annunciare ai discepoli un percorso nuovo: Gesù è risorto e li attende in Galilea. Nella vita di queste donne è avvenuta la Pasqua, che significa passaggio: esse, infatti, passano dal mesto cammino verso il sepolcro alla gioiosa corsa verso i discepoli, per dire loro non solo che il Signore è risorto, ma che c’è una meta da raggiungere subito, la Galilea. L’appuntamento col Risorto è lì. La rinascita dei discepoli, la risurrezione del loro cuore passa dalla Galilea. Entriamo anche noi in questo cammino dei discepoli che va dalla tomba alla Galilea.

Le donne, dice il Vangelo, «andarono a visitare la tomba» (Mt 28,1). Pensano che Gesù si trovi nel luogo della morte e che tutto sia finito per sempre. A volte succede anche a noi di pensare che la gioia dell’incontro con Gesù appartenga al passato, mentre nel presente conosciamo soprattutto delle tombe sigillate: quelle delle nostre delusioni, delle nostre amarezze, della nostra sfiducia, quelle del “non c’è più niente da fare”, “le cose non cambieranno mai”, “meglio vivere alla giornata” perché “del domani non c’è certezza”. Anche noi, se siamo stati attanagliati dal dolore, oppressi dalla tristezza, umiliati dal peccato, amareggiati per qualche fallimento o assillati da qualche preoccupazione, abbiamo sperimentato il gusto amaro della stanchezza e abbiamo visto spegnersi la gioia nel cuore.

A volte abbiamo semplicemente avvertito la fatica di portare avanti la quotidianità, stanchi di rischiare in prima persona davanti al muro di gomma di un mondo dove sembrano prevalere sempre le leggi del più furbo e del più forte. Altre volte, ci siamo sentiti impotenti e scoraggiati dinanzi al potere del male, ai conflitti che lacerano le relazioni, alle logiche del calcolo e dell’indifferenza che sembrano governare la società, al cancro della corruzione – ce n’è tanta –, al dilagare dell’ingiustizia, ai venti gelidi della guerra. E, ancora, ci siamo forse trovati faccia a faccia con la morte, perché ci ha tolto la dolce presenza dei nostri cari o perché ci ha sfiorato nella malattia o nelle calamità, e facilmente siamo rimasti preda della disillusione e si è disseccata la sorgente della speranza. Così, per queste o altre situazioni – ognuno di noi conosce le proprie –, i nostri cammini si arrestano davanti a delle tombe e noi restiamo immobili a piangere e a rimpiangere, soli e impotenti a ripeterci i nostri “perché”. Quella catena di “perché”…

Invece, le donne a Pasqua non restano paralizzate davanti a una tomba ma, dice il Vangelo, «abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (v. 8). Portano la notizia che cambierà per sempre la vita e la storia: Cristo è risorto! (cfr v. 6). E, al tempo stesso, custodiscono e trasmettono la raccomandazione del Signore, il suo invito ai discepoli: che vadano in Galilea, perché là lo vedranno (cfr v. 7). Ma, fratelli e sorelle, ci domandiamo oggi: che cosa significa andare in Galilea? Due cose: da una parte uscire dalla chiusura del cenacolo per andare nella regione abitata dalle genti (cfr Mt 4,15), uscire dal nascondimento per aprirsi alla missione, evadere dalla paura per camminare verso il futuro. E dall’altra parte – e questo è molto bello –, significa ritornare alle origini, perché proprio in Galilea tutto era iniziato. Lì il Signore aveva incontrato e chiamato per la prima volta i discepoli. Dunque andare in Galilea è tornare alla grazia originaria, è riacquistare la memoria che rigenera la speranza, la “memoria del futuro” con la quale siamo stati segnati dal Risorto.

Ecco allora che cosa fa la Pasqua del Signore: ci spinge ad andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia; ma, per fare questo, la Pasqua del Signore ci riporta al nostro passato di grazia, ci fa riandare in Galilea, là dov’è iniziata la nostra storia d’amore con Gesù, dove è stata la prima chiamata. Ci chiede, cioè, di rivivere quel momento, quella situazione, quell’esperienza in cui abbiamo incontrato il Signore, abbiamo sperimentato il suo amore e abbiamo ricevuto uno sguardo nuovo e luminoso su noi stessi, sulla realtà, sul mistero della vita. Fratelli e sorelle, per risorgere, per ricominciare, per riprendere il cammino, abbiamo sempre bisogno di ritornare in Galilea, cioè di riandare non a un Gesù astratto, ideale, ma alla memoria viva, alla memoria concreta e palpitante del primo incontro con Lui. Sì, per camminare dobbiamo ricordare; per avere speranza dobbiamo nutrire la memoria. E questo è l’invito: ricorda e cammina! Se recuperi il primo amore, lo stupore e la gioia dell’incontro con Dio, andrai avanti. Ricorda e cammina.

Ricorda la tua Galilea e cammina verso la tua Galilea. È il “luogo” nel quale hai conosciuto Gesù di persona, dove per te Egli non è rimasto un personaggio storico come altri, ma è divenuto la persona della vita: non un Dio lontano, ma il Dio vicino, che ti conosce più di ogni altro e ti ama più di chiunque altro. Fratello, sorella, fai memoria della Galilea, della tua Galilea: della tua chiamata, di quella Parola di Dio che in un preciso momento ha parlato proprio a te; di quell’esperienza forte nello Spirito, della più grande gioia del perdono provata dopo quella Confessione, di quel momento intenso e indimenticabile di preghiera, di quella luce che si è accesa dentro e ha trasformato la tua vita, di quell’incontro, di quel pellegrinaggio… Ognuno sa dov’è la propria Galilea, ciascuno di noi conosce il proprio luogo di risurrezione interiore, quello iniziale, quello fondante, quello che ha cambiato le cose. Non possiamo lasciarlo al passato, il Risorto ci invita ad andare lì per fare la Pasqua. Ricorda la tua Galilea, fanne memoria, ravvivala oggi. Torna a quel primo incontro. Chiediti come è stato e quando è stato, ricostruiscine il contesto, il tempo e il luogo, riprovane l’emozione e le sensazioni, rivivine i colori e i sapori. Perché tu sai, è quando hai dimenticato quel primo amore, è quando hai scordato quel primo incontro che è cominciata a depositarsi della polvere sul tuo cuore. E hai sperimentato la tristezza e, come per i discepoli, tutto è sembrato senza prospettiva, con un macigno a sigillare la speranza. Ma oggi, fratello, sorella, la forza di Pasqua invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia; il Signore, esperto nel ribaltare le pietre tombali del peccato e della paura, vuole illuminare la tua memoria santa, il tuo ricordo più bello, rendere attuale quel primo incontro con Lui. Ricorda e cammina: ritorna a Lui, ritrova la grazia della risurrezione di Dio in te! Torna in Galilea, torna nella tua Galilea.

Fratelli, sorelle, seguiamo Gesù in Galilea, incontriamolo e adoriamolo lì dove Egli attende ognuno di noi. Ravviviamo la bellezza di quando, dopo averlo scoperto vivo, lo abbiamo proclamato Signore della nostra vita. Torniamo in Galilea, alla Galilea del primo amore: ognuno torni alla propria Galilea, quella del primo incontro, e risorgiamo a vita nuova!


9 aprile

Benedizione Urbi et Orbi

Cari fratelli e sorelle, Cristo è risorto!

Oggi proclamiamo che Lui, il Signore della nostra vita, è «la risurrezione e la vita» del mondo (cfr Gv 11,25). È Pasqua, che significa “passaggio”, perché in Gesù si è compiuto il passaggio decisivo dell’umanità: quello dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, dalla paura alla fiducia, dalla desolazione alla comunione. In Lui, Signore del tempo e della storia, vorrei dire a tutti, con la gioia nel cuore: buona Pasqua!

Sia per ciascuno di voi, cari fratelli e sorelle, in particolare per gli ammalati e per i poveri, per gli anziani e per chi sta attraversando momenti di prova e di fatica, un passaggio dalla tribolazione alla consolazione. Non siamo soli: Gesù, il Vivente, è con noi per sempre. Gioiscano la Chiesa e il mondo, perché oggi le nostre speranze non si infrangono più contro il muro della morte, ma il Signore ci ha aperto un ponte verso la vita. Sì, fratelli e sorelle, a Pasqua la sorte del mondo è cambiata e quest’oggi, che coincide pure con la data più probabile della risurrezione di Cristo, possiamo rallegrarci di celebrare, per pura grazia, il giorno più importante e bello della storia.

Cristo è risorto, è veramente risorto, come si proclama nelle Chiese di Oriente: Christòs anesti! Quel veramente ci dice che la speranza non è un’illusione, è verità! E che il cammino dell’umanità da Pasqua in poi, contrassegnato dalla speranza, procede più spedito. Ce lo mostrano con il loro esempio i primi testimoni della Risurrezione. I Vangeli raccontano la fretta buona con cui il giorno di Pasqua «le donne corsero a dare l’annuncio ai discepoli» (Mt 28,8). E, dopo che Maria di Magdala «corse e andò da Simon Pietro» (Gv 20,2), Giovanni e lo stesso Pietro “corsero insieme tutti e due” (cfr v. 4) per raggiungere il luogo dove Gesù era stato sepolto. E poi la sera di Pasqua, incontrato il Risorto sulla via di Emmaus, due discepoli «partirono senza indugio» (Lc 24,33) e si affrettarono a percorrere diversi chilometri in salita e al buio, mossi dalla gioia incontenibile della Pasqua che ardeva nei loro cuori (cfr v. 32). Quella stessa gioia per cui Pietro, sulle rive del lago di Galilea, alla vista di Gesù risorto non poté trattenersi sulla barca con gli altri, ma si buttò subito in acqua per nuotare velocemente incontro a Lui (cfr Gv 21,7). A Pasqua, insomma, il cammino accelera e diventa corsa, perché l’umanità vede la meta del suo percorso, il senso del suo destino, Gesù Cristo, ed è chiamata ad affrettarsi incontro a Lui, speranza del mondo.

Affrettiamoci anche noi a crescere in un cammino di fiducia reciproca: fiducia tra le persone, tra i popoli e le Nazioni. Lasciamoci sorprendere dal lieto annuncio della Pasqua, dalla luce che illumina le tenebre e le oscurità in cui troppe volte il mondo si trova avvolto.

Affrettiamoci a superare i conflitti e le divisioni e ad aprire i nostri cuori a chi ha più bisogno. Affrettiamoci a percorrere sentieri di pace e di fraternità. Gioiamo per i segni concreti di speranza che ci giungono da tanti Paesi, a partire da quelli che offrono assistenza e accoglienza a quanti fuggono dalla guerra e dalla povertà.

Lungo il cammino ci sono però ancora tante pietre di inciampo, che rendono arduo e affannoso il nostro affrettarci verso il Risorto. A Lui rivolgiamo la nostra supplica: aiutaci a correre incontro a Te! Aiutaci ad aprire i nostri cuori!

Aiuta l’amato popolo ucraino nel cammino verso la pace, ed effondi la luce pasquale sul popolo russo. Conforta i feriti e quanti hanno perso i propri cari a causa della guerra e fa’ che i prigionieri possano tornare sani e salvi alle loro famiglie. Apri i cuori dell’intera Comunità internazionale perché si adoperi a porre fine a questa guerra e a tutti i conflitti che insanguinano il mondo, a partire dalla Siria, che attende ancora la pace. Sostieni quanti sono stati colpiti dal violento terremoto in Turchia e nella stessa Siria. Preghiamo per quanti hanno perso familiari e amici e sono rimasti senza casa: possano ricevere conforto da Dio e aiuto dalla famiglia delle nazioni.

In questo giorno ti affidiamo, Signore, la città di Gerusalemme, prima testimone della tua Risurrezione. Manifesto viva preoccupazione per gli attacchi di questi ultimi giorni che minacciano l’auspicato clima di fiducia e di rispetto reciproco, necessario per riprendere il dialogo tra Israeliani e Palestinesi, così che la pace regni nella Città Santa e in tutta la Regione.

Aiuta, Signore, il Libano, ancora in cerca di stabilità e unità, perché superi le divisioni e tutti i cittadini lavorino insieme per il bene comune del Paese.

Non ti dimenticare del caro popolo della Tunisia, in particolare dei giovani e di coloro che soffrono a causa dei problemi sociali ed economici, affinché non perdano la speranza e collaborino a costruire un futuro di pace e di fraternità.

Volgi il tuo sguardo ad Haiti, che sta soffrendo da diversi anni una grave crisi socio-politica e umanitaria, e sostieni l’impegno degli attori politici e della Comunità internazionale nel ricercare una soluzione definitiva ai tanti problemi che affliggono quella popolazione tanto tribolata.

Consolida i processi di pace e riconciliazione intrapresi in Etiopia e in Sud Sudan, e fa’ che cessino le violenze nella Repubblica Democratica del Congo.

Sostieni, Signore, le comunità cristiane che oggi celebrano la Pasqua in circostanze particolari, come in Nicaragua e in Eritrea, e ricordati di tutti coloro a cui è impedito di professare liberamente e pubblicamente la propria fede. Dona conforto alle vittime del terrorismo internazionale, specialmente in Burkina Faso, Mali, Mozambico e Nigeria.

Aiuta il Myanmar a percorrere vie di pace e illumina i cuori dei responsabili perché i martoriati Rohingya trovino giustizia.

Conforta i rifugiati, i deportati, i prigionieri politici e i migranti, specialmente i più vulnerabili, nonché tutti coloro che soffrono la fame, la povertà e i nefasti effetti del narcotraffico, della tratta di persone e di ogni forma di schiavitù. Ispira, Signore, i responsabili delle nazioni, perché nessun uomo o donna sia discriminato e calpestato nella sua dignità; perché nel pieno rispetto dei diritti umani e della democrazia si risanino queste piaghe sociali, si cerchi sempre e solo il bene comune dei cittadini, si garantisca la sicurezza e le condizioni necessarie per il dialogo e la convivenza pacifica.

Fratelli, sorelle, ritroviamo anche noi il gusto del cammino, acceleriamo il battito della speranza, pregustiamo la bellezza del Cielo! Attingiamo oggi le energie per andare avanti nel bene incontro al Bene che non delude. E se, come scrisse un Padre antico, «il più grande peccato è non credere nelle energie della Risurrezione» (Sant’Isacco di Ninive, Sermones ascetici, I,5), oggi crediamo: «Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto» (Sequenza). Crediamo in Te, Signore Gesù, crediamo che con Te la speranza rinasce, il cammino prosegue. Tu, Signore della vita, incoraggia i nostri cammini e ripeti anche a noi, come ai discepoli la sera di Pasqua: «Pace a voi!» (Gv 20,19.21).


10 aprile

Regina Coeli

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo ci fa rivivere l’incontro delle donne con Gesù risorto al mattino di Pasqua. Ci ricorda così che furono loro, le donne discepole, le prime a vederlo e incontrarlo.

Potremmo chiederci: perché loro? Per un motivo molto semplice: perché sono le prime ad andare al sepolcro. Come tutti i discepoli, anche loro soffrivano per come sembrava essersi conclusa la vicenda di Gesù; ma, diversamente dagli altri, non restano a casa paralizzate dalla tristezza e dalla paura: di buon mattino, al levar del sole, vanno a onorare il corpo di Gesù portando gli unguenti aromatici. La tomba era stata sigillata e loro si chiedono chi avrebbe potuto togliere quella pietra, così pesante (cfr Mc 16,1-3). Però la loro volontà di compiere quel gesto d’amore prevale su tutto. Non si scoraggiano, escono dai loro timori e dalla loro angoscia. Ecco la via per trovare il Risorto: uscire dai nostri timori, uscire dalle nostre angosce.

Ripercorriamo la scena descritta dal Vangelo: le donne arrivano, vedono il sepolcro vuoto e, «con timore e gioia grande», corrono – dice il testo – «a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (Mt 28,8). Ora, proprio mentre vanno a dare questo annuncio, Gesù viene loro incontro. Notiamo bene questo: Gesù le incontra mentre vanno ad annunciarlo. È bello questo: Gesù le incontra mentre vanno ad annunciarlo. Quando noi annunciamo il Signore, il Signore viene a noi. A volte pensiamo che il modo per stare vicini a Dio sia quello di tenerlo ben stretto a noi; perché poi, se ci esponiamo e ci mettiamo a parlarne, arrivano giudizi, critiche, magari non sappiamo rispondere a certe domande o provocazioni, e allora è meglio non parlarne e chiudersi: no, questo non è buono! Invece il Signore viene mentre lo si annuncia. Tu sempre trovi il Signore nel cammino dell’annuncio. Annuncia il Signore e lo incontrerai. Cerca il Signore e lo incontrerai. Sempre in cammino, questo ci insegnano le donne: Gesù si incontra testimoniandolo. Mettiamo questo nel cuore: Gesù si incontra testimoniandolo.

Facciamo un esempio. Ci sarà capitato qualche volta di ricevere una notizia meravigliosa, come ad esempio la nascita di un bambino. Allora, una delle prime cose che facciamo è condividere questo lieto annuncio con gli amici: “Sai, ho avuto un figlio…è bello”. E, raccontandolo, lo ripetiamo anche a noi stessi e in qualche modo lo facciamo rivivere ancora di più in noi. Se questo succede per una bella notizia, di tutti i giorni o di alcuni giorni importanti, accade infinitamente di più per Gesù, che non è solo una bella notizia, e nemmeno la notizia più bella della vita, no, ma Lui è la vita stessa, Lui è «la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). Ogni volta che lo annunciamo, non facendo propaganda o proselitismo - quello no: annunciare è una cosa, fare propaganda e proselitismo è un’altra. Il cristiano annuncia, chi ha altri scopi fa proselitismo e questo non va – ogni volta che lo annunciamo, il Signore viene incontro a noi. Lui viene con rispetto e amore, come il dono più bello da condividere. Gesù dimora di più in noi ogni volta che noi lo annunciamo.

Pensiamo ancora alle donne del Vangelo: c’era la pietra sigillata e nonostante ciò vanno al sepolcro; c’era una città intera che aveva visto Gesù in croce e nonostante ciò vanno in città ad annunciarlo vivo. Cari fratelli e sorelle, quando si incontra Gesù, nessun ostacolo può trattenerci dall’annunciarlo. Se invece teniamo per noi la sua gioia, forse è perché non lo abbiamo ancora incontrato veramente.

Fratelli, sorelle, davanti all’esperienza delle donne ci chiediamo: dimmi, quand’è stata l’ultima volta che hai testimoniato Gesù? Quando è stata l’ultima volta che io ho testimoniato Gesù? Oggi, che cosa faccio perché le persone che incontro ricevano la gioia del suo annuncio? E ancora: qualcuno può dire: questa persona è serena, è felice, è buona perché ha incontrato Gesù? Di ognuno di noi, si può dire questo? Chiediamo alla Madonna che ci aiuti ad essere gioiosi annunciatori del Vangelo.


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