​Meditazioni: 1 maggio, San Giuseppe artigiano

Riflessione per meditare il sabato della quarta settimana di Pasqua. I temi proposti sono: La normalità della Sacra Famiglia; Lavorare bene e servire gli altri; Il lavoro si ordina all’amore.

La normalità della Sacra Famiglia Lavorare bene e servire gli altri Il lavoro si ordina all’amore


La normalità della Sacra Famiglia

Nel Vangelo della Messa di oggi, memoria di san Giuseppe artigiano, si racconta che Gesù ritornò a Nazaret dopo essere stato a predicare e a compiere miracoli in vari posti della Galilea. In un giorno di sabato entrò nella sinagoga e lo invitarono a commentare la Parola di Dio. Erano arrivati fino al popolo gli echi dei miracoli e delle guarigioni, oltre che della sua dottrina, ragione per la quale i suoi concittadini lo guardavano con una certa curiosità. Quando alla fine Gesù parla, reagiscono con diffidenza. Si domandano: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria?» (Mt 13, 54-55).

Per i concittadini di Nazaret, ancorati alla sicurezza umana di ciò che già sapevano su Gesù, fu difficile passare al piano soprannaturale della fede. Tuttavia questa reazione ci dice, fra le altre cose, quanto doveva essere normale la vita della Sacra Famiglia. Agli occhi della gente era una famiglia come un’altra, normale, dove si lavorava, senza particolari di rilievo. Nella loro esistenza non c’era nulla di sorprendente: come quasi tutti, «conducevano una vita fatta di anni di lavoro sempre uguale, di giorni che si susseguivano con apparente monotonia»[1].

Oggi rifletteremo sulla figura di san Giuseppe, e in particolare sotto l’aspetto di lavoratore. La prima caratteristica che salta agli occhi è quella di una esistenza semplice. «Che cosa può attendersi dalla vita l’abitante di un villaggio sperduto come Nazaret? Lavoro e null’altro che lavoro; tutti i giorni, sempre con lo stesso sforzo. Poi, terminata la giornata, una casa povera e piccola, per ristorare le forze e ricominciare a lavorare il giorno dopo. Ma, in ebraico, il nome Giuseppe significa “Dio aggiungerà”. Dio aggiunge alla vita santa di coloro che compiono la sua volontà una dimensione insospettata: quella veramente importante, quella che dà valore a tutte le cose, quella divina»[2]. Questo avvenne nella vita di Giuseppe e forse avviene anche nella nostra. Dio ci affida una missione molto grande nascosta nella normalità della nostra vita quotidiana, Dio aggiunge la sua grazia alla nostra umile collaborazione.

Nazaret era composta da un insieme di case, una dietro l’altra, lungo il pendio di una piccola montagna, molte delle quali parzialmente scavate nella roccia. Formavano poco più di un villaggio. Probabilmente vi abitavano, al massimo, qualche centinaio di persone che in prevalenza si dedicavano all’agricoltura o alla pastorizia. Non mancava mai qualche artigiano, come Giuseppe, che probabilmente lavorava il legno per una varietà di usi: travi, porte e altri elementi di una costruzione, fino a produrre strumenti per l’agricoltura o utensili domestici.


Lavorare bene e servire gli altri

Giuseppe aveva bisogno di lavorare per portare avanti la famiglia, ma non solo per questo. Allo stesso tempo, come ognuno di noi, anche lui aveva bisogno del lavoro per vivere con dignità, con la gioia di essersi guadagnato il pane con impegno e con la felicità di collaborare con Dio allo sviluppo del mondo nella regione di Nazaret. Lavorare era per lui una occasione di crescita personale e un vincolo di unione con gli altri[3]. Ogni lavoro apporta un valore alla società, producendo beni o dispensando servizi. Ogni lavoro ben fatto è sempre una modalità di collaborazione sociale, di aiuto agli altri, di miglioramento delle condizioni di vita; in definitiva, è l’espressione dell’attenzione di Dio verso ogni persona. «Il lavoro non è che la continuazione del lavoro di Dio: il lavoro umano è la vocazione dell’uomo ricevuta da Dio alla fine della creazione dell’universo»[4]. Naturalmente, affinché il lavoro acquisti questo valore, si richiede, da un lato, che sia fatto bene – anche per la dignità della persona che ne trarrà beneficio – e, dall’altro, che sia eseguito con spirito di donazione e di servizio.

«Anche questo servizio umano, questa idoneità che potremmo chiamare tecnica, questo saper fare il proprio mestiere, deve essere dotato di una caratteristica che fu fondamentale nel lavoro di Giuseppe e che tale dovrebbe essere anche per ogni cristiano: lo spirito di servizio, il desiderio di lavorare per contribuire al bene comune. Il lavoro di Giuseppe non tendeva all’affermazione di sé, anche se effettivamente la dedizione a una vita di lavoro gli aveva dato una personalità matura e spiccata. Il Patriarca lavorava con la consapevolezza di compiere la volontà di Dio, pensando al bene dei suoi, Gesù e Maria, e avendo presente il bene di tutti gli abitanti della piccola Nazaret [...]. La sua attività professionale era orientata al servizio degli altri, a rendere più gradevole la vita delle famiglie del villaggio; ed era certamente accompagnata da una parola opportuna, da uno di quei commenti fatti di sfuggita ma che servono a ridare la fede e la gioia a chi sta per perderle»[5].


Il lavoro si ordina all’amore

Anche se per Giuseppe era molto confortante vivere con Gesù e con Maria, questo non gli risparmiava le inevitabili asprezze della vita: il trascorrere del tempo che avrebbe diminuito le sue capacità, la convivenza non sempre facile con i vicini, i problemi economici che forse si presentarono in qualche momento, i dialoghi con alcuni clienti che pagavano quando potevano... È stata questa vita comune e normale, con le sue gioie e le sue difficoltà, quella che san Giuseppe è stato chiamato a santificare.

Non ci è rimasto nulla degli utensili fabbricati da Giuseppe con le sue mani; invece continua a essere pienamente attuale l’amore da lui messo nel proprio lavoro. «L’uomo non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore»[6]. Il suo amore a Gesù e a Maria lo spingeva a lavorare intensamente; il suo amore si manifestava, quasi inconsciamente, nell’impegno e nell’affetto che poneva nel fare bene le cose; e quello stesso immenso amore, nell’unità di vita, gli faceva tenere ben presente che il suo lavoro quotidiano era ordinato alla missione che Dio gli aveva affidato. È l’amore a Dio e agli altri quello che ci spinge a lavorare molto e bene, con ordine, rifinendo ogni cosa nei dettagli, con concentrazione e intensità? Convertiamo il nostro lavoro in orazione, presentandolo al Signore durante la Santa Messa? Siamo consapevoli di essere in compagnia di Dio mentre lo realizziamo? Questo spirito contemplativo trabocca in un rapporto pieno di rispetto, di servizio, di apertura e di amicizia nei confronti delle persone con le quali entriamo in relazione?

Ci raccomandiamo alla intercessione di nostra Madre e del Santo Patriarca affinché ci aiutino a migliorare il nostro lavoro in modo che diventi sempre più una occasione di servizio.


[1] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 44.

[2]Ibid., n. 40.

[3] Cfr. Papa Francesco, lett. ap. Patris corde, n. 6.

[4] Papa Francesco, Omelia, 1-V-2020.

[5] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 51.

[6] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48.