La funzione dell’impresa nella società

“L’impresa è una comunità di persone al servizio di altre persone all’interno di una società di persone”. Lo ha ricordato, mons. Fernando Ocáriz, Gran Cancelliere dell’Università di Navarra, durante una visita al campus dello IESE Business School di Barcellona per partecipare al congresso accademico “L’impresa e le sue responsabilità sociali”.

Partecipare a questo Congresso, che chiude i festeggiamenti del sessantesimo anniversario dello IESE. è anzitutto per me motivo di gioia e occasione per manifestare, ancora una volta, la mia gratitudine a san Josemaría Escrivá, che è stato strumento di Dio nel promuovere questa iniziativa. La mia gratitudine va anche a tutte le persone che hanno contribuito nel passato, e a voi che contribuite ora a fare di questa iniziativa una scuola di prestigio e di risonanza, a riprova del servizio che essa presta alla società.

Oggi, nel fare gli auguri allo IESE, estendo i miei auguri anche a tutte le scuole che ne seguono l’esempio, portando i suoi messaggi in tutto il mondo, ognuna con le peculiarità suggerite dalla loro posizione geografica e sociale, e con la configurazione che, liberamente e responsabilmente, le diedero i loro fondatori e oggi continuano a dare i rispettivi dirigenti, i professori e gli impiegati, una rappresentanza dei quali è qui con noi. Mi unisco in modo particolare ad alcune parole trasmesse allo IESE dal precedente prelato dell’Opus Dei, monsignor Javier Echevarría, riferendosi al lavoro che si compie nello IESE e nei centri che s’ispirano al modo di fare dello IESE: “È ampiamente dimostrato che questo è un lavoro assolutamente indispensabile nell’attuale contesto storico e lo sarà sempre. Infatti, anche in questo settore dell’attività professionale, i cristiani debbono essere e comportarsi come sale della terra e luce del mondo (cfr. Mt 5, 13-14)”[1].

Le origini dello IESE

Sessanta anni sono già un’età considerevole, anche per una istituzione accademica destinata a durare nel tempo, senza che ciò significhi ripetere in modo monotono le stesse cose nel corso del tempo. Da quel primo programma di formazione di dirigenti che ebbe inizio nel novembre del 1958, lo IESE è stato sottoposto a notevoli cambiamenti. Alcuni si possono apprezzare negli edifici e nelle risorse materiali, nella struttura, nelle persone, nelle strategie e nelle politiche, e si sono tradotti in risultati di crescita professionale, umana e sociale per le donne e gli uomini che a migliaia sono passati dalle sue aule e hanno tratto beneficio dalla profonda e feconda impronta che lo IESE ha lasciato nella società.

Ciò che mosse il fondatore dell’Opus Dei a promuovere la creazione dello IESE fu, esattamente, il desiderio di lasciare questa impronta nella società. Il professor Francisco Ponz, che fu rettore dell’Università di Navarra e che visse a Barcellona negli anni quaranta, raccontava che nei suoi viaggi a Barcellona in quegli anni san Josemaría “qualche volta parlava dell’interesse apostolico di migliorare la formazione e la vita cristiana di tante persone che in Catalogna erano occupate a dirigere imprese di ogni tipo [...]. Sottolineava l’importanza spirituale e sociale del fatto che quanti avevano la responsabilità della promozione, direzione e sviluppo delle imprese, fossero cristiani esemplari e operassero in base alla loro fede, con un buon criterio professionale e cristiano, secondo gli insegnamenti e i principi morali della Chiesa, con spirito di servizio verso i propri impiegati e operai e verso la società in generale, senza lasciarsi trascinare da ambizioni semplicemente umane e dall’anelito di un arricchimento materiale”[2].

Ho voluto riprendere questa lunga citazione perché serve molto bene a introdurre il tema che mi è stato proposto di svolgere qui: Lo IESE e la funzione dell’impresa nella società. Naturalmente non tratterò gli aspetti tecnici di questo tema, che non sono di mia competenza e dei quali siete voi gli esperti. Voglio fare, invece, come Gran Cancelliere dell’Università di Navarra, alcune riflessioni sul piano della dottrina sociale della Chiesa, in sintonia con la dichiarata missione dello IESE: formare “leader che si sforzino di avere un’influenza profonda, positiva e durevole sulle persone, le imprese e la società attraverso l’eccellenza professionale, l’integrità e lo spirito di servizio”[3].

L’impresa

Già fin dalle origini della Scuola, il suo statuto concepiva l’impresa non soltanto come un capitale che cerca di produrre un reddito, né come degli impianti che danno lavoro a un certo numero di persone, e neppure come un progetto che fornisce servizi ai consumatori e ai lavoratori, ma soprattutto come una comunità di persone, anticipando in qualche modo il Concilio Vaticano II che, nel basare tutta l’attività economica sulla centralità della persona umana, affermava che “nelle imprese economiche si uniscono delle persone, cioè uomini liberi e autonomi, creati ad immagine di Dio” (Gaudium et spes, n. 68). Alcuni anni dopo san Giovanni Paolo II, nell’enciclica Centesimus annus, spiegava che lo “scopo dell'impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società” (n. 35).

L’impresa, dunque, è un’espressione della socievolezza della persona, che ha bisogno di intavolare relazioni con altre persone per soddisfare le proprie necessità materiali e spirituali, per dare un senso al proprio lavoro, per prestare un servizio agli altri e alla società e, in definitiva, per conoscere se stessa e raggiungere così la pienezza come persona e come figlio di Dio. Volendo citare Benedetto XVI, “la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio” (Caritas in veritate, n. 53). Come dice un recente documento della Santa Sede, “ogni impresa costituisce un’importante rete di relazioni”[4]: relazioni, in primo luogo, orientate verso l’interno, verso l’intimità dell’organizzazione e poi rivolte all’esterno, verso i clienti, i fornitori, gli investitori e la società in generale. L’impresa è una comunità di persone che serve altre persone all’interno di una società di persone. Soltanto dopo aver considerato questo, c’è spazio per i capitali, gli impianti, la tecnologia e le realtà giuridiche.

Da questa socievolezza e dal carattere relazionale dipende la missione esterna dell’impresa: il soddisfacimento delle necessità di altre persone, prima di tutto mediante la produzione di beni e servizi, ma anche in molti altri modi, come l’innovazione e la creatività, lo sviluppo di una cultura di lavoro e di servizio, l’adempimento dei doveri fiscali e sociali, l’esempio di una dedizione al servizio e tanti altri, che fanno vedere che l’impresa, in sostanza, è una grande trasformatrice della società, nel bene o nel male.

La funzione dell’impresa, dunque, dipende dalla libertà e dalla capacità creativa delle persone, prima di tutto dei proprietari e dei dirigenti, ma anche di tutti gli uomini e le donne che si uniscono per portarla avanti come impiegati, fornitori, distributori e collaboratori esterni. Infatti la funzione sociale non si esaurisce nell’atto creativo, ma continua in tutte le attività quotidiane, nel lavoro, lieto e vario qualche volta, monotono e noioso altre volte, nell’impegno continuo e nell’esercizio delle virtù necessarie perché tutto questo divenga una realtà quotidiana.

Il lavoro umano

È evidente che l’impresa è un ambito privilegiato per l’esercizio del lavoro umano. Sicuramente non è l’unico ambito dove è presente, perché il lavoro comprende anche le varie attività della casa, della politica, delle amministrazioni pubbliche, dell’educazione e delle tante organizzazioni benefiche e sociali.

Aveva ragione san Giovanni Paolo II quando affermava che “la principale risorsa dell’uomo, insieme con la terra, è l’uomo stesso” (Centesimus annus, n. 32). Questa è un’affermazione audace, che contrasta con molte proposte attuali, magari basate su buone intenzioni, ma sbagliate o almeno incomplete. Alcune mettono l’accento sulla tecnica, sull’organizzazione, sull’efficacia, sul denaro o sul potere; altre, invece, guardano con diffidenza l’essere umano come un predatore che mette in pericolo la sopravvivenza del nostro mondo.

Viceversa il Concilio Vaticano II afferma che “l'attività umana come deriva dall'uomo così è ordinata all'uomo. L'uomo, infatti, quando lavora, non trasforma soltanto le cose e la società, ma perfeziona se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, esce da sé e si supera. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare. L'uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimenti, tutto ciò che gli uomini compiono allo scopo di conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano dei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la base materiale della promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo a realizzarla” (Gaudium et spes, n. 35).

La funzione dell’impresa nella società si deve cercare nel servizio alla persona, che è nello stesso tempo il destinatario, il promotore, il creatore e il realizzatore di tutto ciò che producono le nostre organizzazioni. Infatti, mentre la persona domina la natura, fabbrica cose e genera ricchezza, completa se stessa: si realizza e si sviluppa. Ancora una volta abbiamo qui tutti i componenti della funzione sociale delle imprese: le persone, il proposito o obiettivo che le muove, la direzione del progetto e l’inserimento nel vasto ambito della società di cui fanno parte, che servono, delle cui risorse si nutrono e alla cui prosperità contribuiscono. Quando rifletteva sul valore centrale del lavoro di una persona che è, a sua volta, il centro dell’impresa e del mercato, san Josemaría proponeva di scendere dalla sommità dell’organizzazione fino alla realtà quotidiana dell’attività professionale, per proporre le sue tre dimensioni fondamentali: santificare il lavoro, santificarci nel lavoro e santificare gli altri con il lavoro (cfr. È Gesù che passa, n. 45).

“Se vogliamo davvero santificare il lavoro, dobbiamo inevitabilmente soddisfare la prima condizione: lavorare, e lavorare bene!, con serietà umana e soprannaturale” (Forgia, n. 698). Mi pare di udire la sua voce quando ci diceva: “Dissotterra il talento! Rendilo proficuo: [...] non importa che il risultato terreno non sia una meraviglia che susciti l’ammirazione degli uomini. L’essenziale è dare tutto ciò che siamo e abbiamo, fare in modo che il talento renda, e impegnarci senza sosta a produrre un buon frutto” (Amici di Dio, n. 47).

L’impresa, una realtà positiva

Queste parole concentrano la nostra attenzione su quella comunità di persone che è l’impresa. Tutti quelli che entrano ogni giorno in una di esse, lo fanno mossi da motivazioni assai diverse, di cui, spesso, non sono del tutto consapevoli: cercano di guadagnarsi la vita e portare avanti la famiglia, vogliono provare soddisfazioni personali, imparare cose e sviluppare capacità, godere di opportunità di carriera, fare amici, aiutare altri, sentirsi utili, collaborare al progresso della società... Alcuni di questi obiettivi sono inclusi nel contratto di lavoro, ma molti altri no. In ogni caso, nei posti di lavoro avviene ogni giorno un continuo travaso di prestazioni. Si riceve molto, e non soltanto un salario, una congratulazione per la dedizione o certe possibilità di promozione, ma anche conoscenze, capacità, relazioni, amicizie... E, nello stesso tempo, si dà molto: tempo, impegno, attenzione, entusiasmo, conoscenze, esperienze... Tutto questo si dà all’impresa e ai suoi proprietari, ma anche agli altri dirigenti e impiegati, ai clienti, ai fornitori e ai distributori, alla comunità più vicina, alle stesse famiglie e alla società in generale... e si riceve tutto da loro. Si danno beni privati, ma anche beni comuni, che fanno parte del bene comune dell’impresa con cui essa contribuisce al bene comune della società, e si ricevono beni privati e comuni, beni che vengono creati fra tutti e dai quali tutti traggono beneficio.

In tal modo, persino i più egoisti, che forse avevano concepito il proprio lavoro esclusivamente come un mezzo per soddisfare interessi personali, finiscono per servire i clienti, aiutare i colleghi, sforzandosi di migliorare il rendimento dei talenti che Dio ha dato loro... Però l’importante non sono i risultati, ma soprattutto il cambiamento che ciascuno sente in se stesso. L’impresa, indubbiamente, è una grande trasformatrice di persone, come dicevo prima: nel bene o nel male.

San Giovanni Paolo II diceva che l’impresa si configura come una comunità di persone che partecipano di uno stesso proposito, che è “l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini” che si uniscono per dare un servizio alla società (Centesimus annus, n. 35). E i beni che si generano in questa comunità umana non sono soltanto quelli propri delle relazioni mercantili, ma, come suggeriva Benedetto XVI, “il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica” (Caritas in veritate, n. 36).

Potrebbe sembrare che questa sia una visione utopistica, che oggi le imprese non hanno buona stampa e che i mezzi di comunicazione ci ricordano ogni giorno i loro errori. Naturalmente esistono buoni motivi per una concezione così pessimista, perché conosciamo bene le debolezze e gli errori di cui siamo capaci noi esseri umani; però questa non è l’ultima parola.

San Josemaría, che conosceva molto bene questo ambiente, quando nel novembre del 1972 venne in visita allo IESE e partecipò a una riunione con i professori e il personale, gli alunni e gli ex-alunni, che cosa disse? “Le persone guardano con diffidenza voi che dovete amministrare il denaro. Io no [...]. A voi la società deve la quantità di posti di lavoro che create. Il paese vi deve la prosperità. A voi tante persone debbono il miglioramento della vita nazionale. Pertanto, state svolgendo un’attività molto cristiana... Mi piace il vostro lavoro, quello che fate [...]. Figli miei, i vostri affari sono inseriti nel Vangelo. Il Signore vi guarda con affetto [...]. Anch’io guardo tutti voi con un affetto particolare”.

Però quella conversazione non si concluse con questi elogi agli imprenditori e ai dirigenti, ma ricordò loro anche i doveri: “Non dimenticate – aggiungeva san Josemaría – il senso cristiano della vita. Non gioite dei vostri successi. Non fatevi prendere dalla disperazione se qualche cosa non va a buon fine”. In sostanza, ricordava loro che è legittimo cercare di ottenere un rendimento soddisfacente per il capitale, ma evitando sempre la tentazione di puntare al denaro, al potere e al successo personale al di sopra di tutto.

Quando, in quella riunione del 1972 un ex-alunno domandò a san Josemaría qual è la prima virtù che deve sforzarsi di acquisire un imprenditore, rispose immediatamente come fosse qualcosa di cui era profondamente convinto: “La carità, perché la giustizia da sola non basta [...]. La giustizia sola è una cosa arida; rimangono molti spazi vuoti”. Poi aggiunse: “ma non parlare della carità: vivila!”. Alcuni anni dopo Benedetto XVI, nella enciclica Caritas in veritate, si esprimeva così: La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia [...]. Non posso ‘donare’ all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia [...]. La carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono “ (n. 6).

Ora è probabile che il linguaggio del mondo degli affari sia diverso: la giustizia e la carità hanno ceduto il passo alla responsabilità sociale, alla solidarietà e alla sostenibilità. Comunque, i cambiamenti nella terminologia non debbono nascondere la realtà. A volte le ideologie e i mezzi di comunicazione vogliono presentarci la morale cristiana come un insieme di proibizioni, di pesi, di obblighi, che finiscono per soffocarci. Oppure come qualcosa di privato, che ciascuno può vivere in casa sua con la porta chiusa, ma che non deve andare per le strade, perché non trova spazio nei dibattiti pubblici. E inoltre i problemi economici sono presentati come cosa strettamente tecnica, per la quale sono sufficienti le soluzioni tecniche, senza che occorra ridestare la coscienza delle persone.

Ebbene, se l’impresa è una comunità di persone, non è possibile giudicarla soltanto in base ai risultati, soltanto in base a ciò che ha una dimensione economica, in termine di utili, redditività, efficienza o quota di mercato. Le persone – lo abbiamo ricordato prima – debbono essere protagoniste e destinatarie delle azioni che avvengono nelle imprese. Bisogna prendere in considerazione questo protagonismo, non in terza, ma in prima persona, perché noi, tutti e ognuno di noi, abbiamo un ruolo da svolgere nella vita di ogni giorno.

Ascoltiamo nuovamente san Josemaría: “Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno. Sappiatelo bene: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire” (Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 114).

Questo “qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni” è, nella sua realtà più intima, l’amore di Dio, che ci precede, ci accompagna e ci segue sempre; è Dio stesso, perché “Dio è amore” (Gv 4, 8). Questa chiamata a scoprire in ogni cosa l’amore di Dio e a corrispondere a questo amore è, in sostanza, la vocazione universale alla santità, che Dio gli aveva fatto vedere nel 1928, quando ispirò l’Opus Dei. Egli voleva che arrivasse a tutti il messaggio di san Paolo: “questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4, 3), e questo nel lavoro, nella vita ordinaria, perché, “pienamente inserito nel suo lavoro ordinario, in mezzo agli altri uomini – a cui è uguale in tutto – attivo, impegnato, in tensione – concludeva san Josemaría –, il cristiano deve, nello stesso tempo, essere pienamente in Dio” (È Gesù che passa, n. 65); “allora potremo intraprendere l’impresa grande, immensa, illimitata, di santificare dal di dentro tutte le strutture temporali portando in esse il fermento della Redenzione” (Ibid., n. 183).

Vi sarete resi conto che tutte queste considerazioni sono man mano cambiate di livello. Erano cominciate trattando di motivazioni economiche, estrinseche; sono passate poi ad altre considerazioni intrinseche e sociali e poi hanno fatto riferimento a una dimensione trascendente, che si orienta agli altri e, alla fine, a Dio.

Forse nelle attività professionali i passaggi devono essere diretti ad adempiere ciò che è previsto nel contratto di lavoro, per avere diritto alla remunerazione concordata, ma ben presto si scopre che il lavoro cambia dall’interno, genera conoscenze e capacità, acquista un nuovo significato... e si scopre il servizio agli altri, la collaborazione in compiti comuni, la consapevolezza di far parte di una realtà superiore, che effettivamente apre nuovi orizzonti.... fino ad arrivare a Dio, come fine della nostra vita.

Cito altri brani di san Josemaría pronunciati nell’omelia dell’8 ottobre 1967 nel campus dell’Università di Navarra: “Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. Per questo vi posso dire che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni, il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo e occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo” (Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 114).

Il dirigente cristiano

Ma ritorniamo nuovamente a quella comunità di persone che è l’impresa, che abbiamo or ora presentato come trasformatrice della società perché è trasformatrice delle persone. Ora mi riferirò brevemente a voi, alunni ed ex-alunni che dirigete queste aziende, ai professori e al personale delle scuole, il cui compito principale è quello di formare e sviluppare le capacità, le conoscenze e le virtù di coloro che dirigono tali imprese.

Prenderò come punto di partenza una frase del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, che dice così: “I ruoli dell'imprenditore e del dirigente rivestono un'importanza centrale dal punto di vista sociale, perché si collocano al cuore di quella rete di legami tecnici, commerciali, finanziari, culturali, che caratterizzano la moderna realtà di impresa” (n. 344). A prima vista, sembra che si tratti di una messa a fuoco eminentemente tecnica, ma subito dopo si appella alla responsabilità di quelle persone, e in modo particolare alla cura delle persone. Papa Francesco lo esprime in maniera più diretta: “La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili a tutti i beni di questo mondo” (Evangelii gaudium, n. 203).

Qual è il compito principale del dirigente di un’azienda? Perdonate se m’intrometto in ciò che fa parte della vostra attività. Non c’è dubbio che si tratta dell’attività di convocare, formare, orientare, esigere, incoraggiare, curare e, certe volte, guarire questo gruppo umano che poi porterà avanti le attività dell’azienda. Naturalmente una sola persona non può assumere tutte queste funzioni, a meno che non si tratti di una micro-azienda. Ma soprattutto, se si tratta di un gruppo umano, nel quale i vari compiti sono distribuiti fra tutti i dirigenti, nessuno, per quanto appaia tecnico il suo posto di lavoro, può trascurare la propria responsabilità verso le persone. Chiaramente non sono trascurabili gli altri compiti fondamentali abitualmente affidati a un manager, come pianificare, organizzare, comandare, coordinare e controllare; però anche questi compiti si svolgono sempre mediante relazioni interpersonali. Un’azienda è, alla fin fine, un luogo di convivenza, ed essa dipende da tutti, ma soprattutto da quelli che la dirigono. Ecco, dunque, la necessità che i dirigenti tengano ben presente che ogni persona è importante, non soltanto né principalmente per l’apporto che dà all’azienda, ma per ciò che essa è in se stessa. Se è così da una prospettiva semplicemente umana, più importante sarà in base a una prospettiva specificamente cristiana. E più in generale, secondo quanto detto da san Josemaría: “un uomo o una società che non reagiscano davanti alle tribolazioni e alle ingiustizie, e che non cerchino di alleviarle, non sono un uomo o una società all’altezza dell’amore del Cuore di Cristo” (È Gesù che passa, n. 167).

Comunque, non dobbiamo essere utopistici: un buon dirigente avrà dei difetti, come tutti; commetterà errori, ma dovrà riconoscerli e correggersi: ricomincerà, senza cedere allo scoraggiamento. “Il cristiano – diceva san Josemaría – non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia” (È Gesù che passa, n. 75), e opera sempre liberamente perché Dio “non vuole dei servi forzati; preferisce avere dei figli liberi” (Amici di Dio, n. 33).

Che le persone che svolgono funzioni direttive nell’azienda includano nella loro vita una dimensione spirituale non va considerato come un’aggiunta di alcune pratiche introdotte nell’orario, ma di una cosa che fa parte del modo di essere e di agire della persona. Questa dimensione spirituale può assumere aspetti molto diversi. Un aspetto, per esempio, è l’unità di vita: avere alcuni principi e criteri chiari di decisione e applicarli in modo coerente. Un altro, fondamentale per un cristiano, è l’impegno positivo nel santificare il lavoro professionale: non solo farlo tecnicamente bene, ma come un’offerta a Dio a servizio degli altri.

Il futuro

Però in un ambiente quasi sempre piuttosto laicista, in una società che spesso sembra apprezzare soltanto il successo finale, la capacità di accumulare ricchezza e potere; in un ambiente individualista, soggettivista e utilitarista, in cui la concezione etica dominante porta di fatto al relativismo..., c’è posto per una Scuola di direzione aziendale che parte da una proposta di ispirazione cristiana come questa? La risposta, chiaramente, è sì. E i sessanta anni di esistenza dello IESE dimostrano che una concezione cristiana della vita è non soltanto compatibile, ma è anche un fondamento eccellente per un modo di intendere l’impresa e la sua funzione, che guidi la formazione e la crescita di dirigenti che aspirino all’eccellenza tecnica ma anche umana.

Lo IESE, come parte dell’Università di Navarra, non ha una concezione propria delle teorie economiche o sociali: molte sono le teorie compatibili, in maggiore o minore misura, con i presupposti antropologici ed etici della dottrina sociale della Chiesa cattolica. Nella dichiarazione di missione dello IESE si afferma soltanto che “i valori etici e morali della scuola si basano sulla tradizione cristiana. Questi valori sottolineano i diritti e la dignità intrinseci di ogni persona, che consideriamo il perno di qualunque organizzazione e della società in generale”. Più avanti dice: “coltiviamo l’integrità, lo spirito di servizio, l’eccellenza professionale e il senso di responsabilità nelle persone che passano dalla nostra scuola”. Questi valori, che trovano fondamento nelle verità cristiane, possono essere condivisi da persone di qualunque credo e anche da persone senza religione alcuna.

In ogni caso, il contenuto umanistico ed etico di ciò che si insegna nello IESE non è una alternativa alla qualità professionale che promuovete tra imprenditori e dirigenti, ma ne fanno parte: non solo, ma la mancanza di alcune virtù e di alcuni valori possono essere un indicatore di una qualità professionale insufficiente, quando si cerca di misurarla non soltanto in base ai risultati esteriori (introiti, profitti, livello di vendite, reputazione, riconoscimento sociale, ecc.), ma anche in base all’apprendimento interiore (virtù), alla loro capacità di trasformare la persona e la loro influenza su altre persone (colleghi, impiegati, ecc.).

A tutti voi che ora lavorate nello IESE o in altre scuole che s’ispirano allo stesso codice morale, e a quelli che verranno nei prossimi anni, potrà essere di aiuto un brano di un discorso di san Josemaría, riguardante l’Università in generale, che è pienamente attuale per una istituzione come lo IESE, che fa parte dell’Università di Navarra. “L’Università – diceva il primo Gran Cancelliere – non soddisfa nessuna incertezza, nessuna inquietudine, nessuna necessità degli uomini. Non è compito suo offrire soluzioni immediate. Però, se si studiano i problemi con profondità scientifica, smuove anche i cuori, stimola la passività, risveglia forze che sonnecchiano e forma cittadini disposti a costruire una società più giusta. Contribuisce in tal modo, con il suo lavoro universale, a togliere le barriere che rendono difficile la reciproca comprensione tra gli uomini, a mitigare ogni timore verso il futuro incerto, a promuovere – con l’amore per la verità, la giustizia e la libertà – la pace autentica e la concordia degli spiriti e delle nazioni” (Discorso a Pamplona, 9-V-1974). Come sono attuali queste parole, pronunciate più di un quarto di secolo fa!

Questo è il compito che vi compete, professori, dirigenti e impiegati, studenti ed ex-studenti dello IESE, e che compete a tutti coloro che oggi si uniscono a questa festa di anniversario e che svolgono la loro attività in altre scuole e università.

Dicevo all’inizio che sessanta anni sono già un’età rispettabile per una istituzione accademica. Lo IESE ha fatto un buon lavoro e mi congratulo per questo. Però rimane molto da fare: nuove generazioni arrivano ogni giorno nelle vostre aule, i vostri programmi si moltiplicano, nella vostra attività coinvolgete sempre nuovi paesi, i vostri lavori di ricerca ricevono meritati elogi... A questo punto, vi ricordo ancora una volta quello che san Josemaría disse agli imprenditori e ai dirigenti nella riunione del novembre 1972: “Non gioite dei vostri successi. Non disperate se qualcosa va in fumo. Non dimenticate il senso cristiano della vita”. È con questo senso che potrete – potremo – affrontare sempre anche il lavoro “lieti nella speranza” (Rm 12, 12), come scrive san Paolo ai Romani.


[1] “Dirigir empresas con sentido cristiano”, in Dirigir empresas con sentido cristiano, EUNSA, Pamplona 2015, pp. 47-48.

[2] Relazione di Francisco Ponz Piedrafita, ottobre 1998. Francisco Ponz è stato professore ordinario di Organografia e Fisiologia Animale all’Università di Barcellona dal 1944 al 1966 e Rettore dell’Università di Navarra dal 1966 al 1979.

[3] Vd. https://www.iese.edu/es/conoce-iese/mision-valores/

[4] Congregazione per la dottrina della fede e Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico e finanziario, 17 gennaio 2018, n. 23.