Per me, vivere è Cristo (III): Arrivare alla persona nella sua integrità: il ruolo degli affetti (I)

Alcune persone, quando pensano alla formazione, tendono a considerarla un sapere. Tuttavia, un concetto di questo tipo non è sufficiente: per arrivare all’integrità della persona bisogna pensare alla formazione come a un modo di essere. Si tratta di un obiettivo molto più elevato: immergersi nel mistero di Cristo e lasciare che la grazia ci trasformi progressivamente per renderci conformi a Lui.

Gesù è indubbiamente l’amore della nostra vita: non è il più grande di tutti, ma quello che dà un senso a tutti gli altri amori e agli interessi, alle speranze, alle ambizioni, alle attività, alle iniziative che riempiono i nostri giorni e il nostro cuore. Proprio per questo è di estrema importanza conservare nella nostra vita spirituale «la centralità della persona di Cristo»[1]: Egli è la via per entrare in comunione con il Padre nello Spirito Santo. In Lui si svela il mistero di chi è l’uomo[2], a che cosa è chiamato. Per camminare con Cristo bisogna crescere nella conoscenza di sé, andare a fondo anche del proprio mistero personale. Permettere che Gesù sia il centro della nostra vita significa, tra l’altro, «riscoprire con nuove luci il valore antropologico e cristiano dei differenti mezzi ascetici; arrivare alla persona nella sua integrità: intelligenza, volontà, cuore, relazioni con gli altri (...)»[3].

La persona alla quale bisogna arrivare siamo noi stessi, e anche tutti coloro che riusciamo a raggiungere con la nostra amicizia, con il nostro apostolato. La formazione che riceviamo e che impartiamo deve arrivare all’intelligenza, alla volontà e agli affetti, senza che nessuno di questi elementi venga trascurato o semplicemente sottomesso agli altri. Qui ci soffermeremo soprattutto sulla formazione dell’affettività, dando per scontato quanto sia importante che essa poggi su una buona formazione intellettuale. La considerazione dell’importanza della formazione integrale ci permetterà di riscoprire la grande verità che racchiude l’identificazione che san Josemaría stabiliva tra fedeltà e felicità[4].

Formarsi per entrare in sintonia con Cristo

Alcune persone, quando pensano alla formazione, tendono a considerarla un sapere. In questo senso, avrebbe una buona formazione chi durante la sua vita ha ricevuto dei buoni contenuti dottrinali, ascetici, professionali, ecc. Tuttavia, un concetto di questo tipo non è sufficiente: per arrivare all’integrità della persona bisogna pensare alla formazione come a un modo di essere. Un buon professionista conosce la scienza e la tecnica richiesta dalla sua professione, ma deve avere qualcosa di più; deve disporre di una serie di abiti – modi di essere – che lo dispongano ad applicare bene la scienza e la tecnica che possiede: attenzione nei confronti degli altri, concentrazione nel lavoro, puntualità, capacità di sopportare bene successi e insuccessi, perseveranza…

Nello stesso modo, essere un buon cristiano non è semplicemente conoscere – a un livello adeguato alla propria situazione nella Chiesa e nella società – la dottrina sui sacramenti, sull’orazione o sulle norme morali generali e professionali. Si tratta di un obiettivo molto più elevato: immergersi nel mistero di Cristo per conoscerne l’ampiezza e la profondità (cfr. Ef 3, 18), permettere che la sua Vita entri nella nostra ed essere nelle condizioni di ripetere con san Paolo che «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20); vale a dire, essere «alter Christus, ipse Christus»[5], permettere che la grazia ci trasformi progressivamente per uniformarci a Lui.
Permettere alla grazia di agire, non è certamente qualcosa di passivo, non consiste soltanto nell’evitare di mettere ostacoli, perché lo Spirito Santo non ci trasforma in Cristo senza la nostra cooperazione libera e volontaria. Ma neanche questo è sufficiente: donarci al Signore, dargli la nostra vita, non è solamente dargli le nostre decisioni, i nostri atti; è anche dargli il nostro cuore, i nostri affetti, e anche la nostra spontaneità. Per questo non si può fare a meno di una buona formazione intellettuale e dottrinale che configuri la mente, che influisca sulle nostre decisioni; però è anche necessario che tale dottrina scenda e arrivi al cuore della persona. E questo richiede lotta... e richiede tempo. In altre parole, è necessario acquisire virtù, e proprio in questo consiste la formazione.

IL VOLONTARISMO È UNA CONCEZIONE ERRATA DELLA VIRTÙ, CHE VIENE CONSIDERATA UN SEMPLICE SUPPLEMENTO DI FORZA DI VOLONTÀ

Non è raro incontrare persone che temono che insistere sulle virtù finisca per condurre al volontarismo. Niente di più lontano dalla realtà. Forse alla radice di questa confusione c’è una concezione errata della virtù, che viene considerata un semplice supplemento di forza di volontà, che rende chi la possiede capace di compiere la norma morale anche quando essa si oppone alle proprie inclinazioni. Si tratta di un’idea abbastanza diffusa e, in effetti, di origine volontaristica.
In sostanza, la virtù consisterebbe nella capacità di andare contro la spinta delle proprie inclinazioni quando la norma morale lo richiede. Naturalmente, c’è qualcosa di vero in questo, ma si tratta di qualcosa di incompleto che trasforma le virtù in qualità fredde, che porterebbero praticamente alla negazione delle proprie inclinazioni, dei propri interessi e dei propri affetti, e che, senza volere, finiscono per trasformare l’indifferenza in un ideale: come se la vita interiore e la donazione consistessero nell’arrivare a non sentirsi attratti da niente che possa ostacolare le proprie decisioni future.

LO SVILUPPO DELLA VITA INTERIORE NON PERSEGUE L’OBIETTIVO DI DISINTERESSARSI DEI PROBLEMI

Impostare la formazione in questo modo impedisce di arrivare alla persona nella sua integrità: intelligenza, volontà e affetti non crescerebbero insieme, tenendosi per mano, aiutandosi reciprocamente, senza che nessuna di queste facoltà ostacoli una delle altre. Lo sviluppo della vita interiore, invece, richiede questa integrazione e, naturalmente, non porta a ridimensionarsi, a perdere interessi e affetti; non ha come obiettivo che le cose non ci tocchino, che non ci importi ciò che è importante, che non ci dolga ciò che è doloroso, che non ci preoccupi ciò che è preoccupante o che non ci attiri ciò che è attraente. Piuttosto, fa espandere il cuore, che si riempie di un grande amore e riesce a vedere tutti quei sentimenti in un contesto più ampio, che consente di trovare le risorse per affrontare quelli che comportano una difficoltà e aiuta a cogliere il senso positivo e trascendente di quelli che risultano attraenti.

Il Vangelo ci mostra il sincero interesse del Signore per il riposo dei suoi: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6, 31), o anche la reazione del suo cuore alle sofferenze dei suoi amici, come Marta e Maria (cfr. Gv 11, 1-44). Non possiamo immaginare che in quei momenti Gesù si comportasse come se, in fondo, data la sua unione con il Padre, quanto succedeva attorno a lui gli fosse indifferente. San Josemaría parlava di amare il mondo e di farlo appassionatamente[6], invitava a mettere il cuore in Dio e, attraverso Lui, negli altri, nel lavoro che stiamo facendo, nell’attività apostolica, perché «il Signore non ci vuole freddi, rigidi, come materia insensibile»[7].
La disponibilità, per esempio, non è la disposizione di colui al quale è indifferente ogni cosa, perché è riuscito a perdere ogni interesse, forse per evitare di soffrire quando gli si chiede qualcosa che lo infastidisce; ma la disposizione meravigliosa di chi sa fare a meno immediatamente di una cosa buona e attraente per concentrarsi su un’altra nella quale Dio lo aspetta, perché vivere per Iddio è ciò che desidera profondamente. Si tratta, in definitiva, di qualcuno che ha un cuore grande, che ha interessi e ambizioni buone che sa mettere da parte quando conviene, non perché le neghi o perché tenti di non farsi coinvolgere, ma perché il suo interesse di amare e servire Dio è assai più grande. E non soltanto è più grande, ma è diventato un po’ per volta ciò che dà senso e contiene in sé tutti gli altri interessi.

Godere mediante la pratica delle virtù

La formazione delle virtù richiede lotta per superare le proprie inclinazioni quando si oppongono agli atti buoni. Questa è la parte di verità che contiene il concetto riduttivo – volontaristica – di virtù, al quale prima facevamo riferimento. Però la virtù non consiste nella capacità di opporsi alle inclinazioni, ma consiste piuttosto alla formazioni delle inclinazioni. L’obiettivo non è, dunque, essere capaci di lasciare abitualmente da parte l’affettività per farsi orientare da una regola esterna, ma invece formare l’affettività in modo da essere capaci di godere del bene compiuto. La virtù consiste proprio nel godimento nel bene, nella formazione – diciamo così – del buon gusto: «[Beato l’uomo che] si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte» (Sal 1, 2). In definitiva, la virtù è la formazione dell’affettività e non l’abito di opporsi sistematicamente a essa.

Finché la virtù non è formata, l’affettività può opporre una resistenza all’atto buono, e ciò dovrà essere superato. Però l’obiettivo non consiste semplicemente nel riuscire a superarlo, ma nello sviluppare il piacere per questo comportamento. Quando si possiede la virtù, l’atto buono può continuare a costare, ma lo si fa con gioia. Facciamo qualche esempio. Alzarci puntualmente la mattina – il minuto eroico[8] – probabilmente ci costerà sempre: forse non arriverà mai il giorno in cui, quando la sveglia suona, non preferiremmo rimanere a letto qualche minuto in più.
Ma se ci sforziamo abitualmente di vincere la pigrizia per amore di Dio, arriverà il momento in cui farlo ci fa piacere, mentre cedere alla comodità ci dispiace, ci lascia l’amaro in bocca. Similmente, a una persona giusta, portare via un prodotto del supermercato senza pagarlo, non soltanto lo considererà una cosa proibita, ma anche brutta, sgradevole, incompatibile con le proprie convinzioni, con il proprio cuore. Questa configurazione dell’affettività che genera la gioia davanti al bene e la ripugnanza davanti al male, non è una conseguenza collaterale della virtù, ma una componente essenziale di essa. Per questo la virtù ci rende capaci di godere del bene.

Questa non è un’idea strettamente teorica; al contrario, ha una grande influenza pratica sapere che quando lottiamo non ci stiamo abituando a sopportarci, ma impariamo a godere del bene, anche quando al momento questo significa andare contro corrente.

La formazione delle virtù fa sì che le facoltà e gli affetti tendano a concentrarsi in ciò che veramente può soddisfare le aspirazioni più profonde e concedano luoghi secondari – sempre subordinati a quelli principali – a ciò che semplicemente è nell’ordine dei mezzi. In fin dei conti, formarsi nelle virtù vuol dire imparare a essere felice, a godere di e con ciò che è grandioso, in definitiva significa prepararsi al Cielo.

Se formarsi significa crescere nelle virtù e le virtù consistono in un certo ordine degli affetti, si può concludere che ogni formazione è formazione dell’affettività. Forse, nel leggere questo, qualcuno potrebbe obiettare che, nell’impegno di acquisire virtù, l’intento è più operativo che affettivo, e potrebbe anche aggiungere che chiamiamo virtù alcuni abiti operativi. È vero; ma se le virtù ci aiutano a fare il bene è perché ci aiutano a sentire correttamente. L’essere umano si muove sempre verso il bene.

Il problema morale sta, alla fine, nel fatto che quello che non è buono ci appare – si presenta ai nostri occhi – come una cosa buona in quella situazione concreta. Questo succede perché il disordine delle tendenze induce a esagerare il valore del bene al quale è rivolta una di esse, sicché in questa situazione la si considera più desiderabile di un altro bene con il quale è entrata in conflitto, il quale, tuttavia, possiede un maggior valore oggettivo perché risponde al bene globale della persona. Per esempio: in una certa situazione possiamo trovarci davanti all’alternativa di dire o no la verità.
La tendenza naturale che abbiamo alla verità ce la presenterà come un bene. Però abbiamo anche una tendenza naturale all'apprezzamento da parte degli altri per cui, in questo caso concreto, se ci sembra che la verità ci farebbe rimanere male, ci presenterà la menzogna come conveniente.

UN’AFFETTIVITÀ ORDINATA AIUTA A FARE IL BENE PERCHÉ PRIMA AIUTA A RICONOSCERLO.

Queste due tendenze entrano in conflitto. Quale di esse prevarrà? Dipenderà da quale dei due beni è più importante per noi e in questa valutazione l’affettività gioca un ruolo decisivo. Se è ben ordinata, aiuterà la ragione a capire che la verità ha un grande valore e che l’apprezzamento da parte degli altri non è desiderabile se richiede che si rinunci ad essa. Questo amore per la verità al di sopra di altri beni che pure ci attraggono, è proprio ciò che chiamiamo sincerità. Ma se il desiderio di far bella figura è più forte dell’attrattiva della verità, è facile che la ragione s’inganni e, pur sapendo che non è una cosa buona, giudichi conveniente mentire. Pur sapendo perfettamente che non si deve mentire, riteniamo che nel caso specifico ci convenga farlo.

Un’affettività ordinata aiuta a fare il bene perché prima aiuta a riconoscerlo. Formarla è molto importante. Come farlo? Cercheremo di esporre alcune idee nel prossimo articolo. Ora ci limiteremo a indicare qualcosa che è bene sapere prima di affrontare questo argomento.

La volontà e i sentimenti

Abbiamo appena affermato che un’affettività ordinata aiuta a comportarsi bene. Lo stesso si può dire nel senso contrario: comportarci bene aiuta a ordinare l’affettività.

Sappiamo per esperienza – e conviene non dimenticarlo se non vogliamo cadere facilmente in frustrazioni e scoraggiamenti – che non possiamo controllare direttamente i nostri sentimenti: se siamo presi dallo scoraggiamento, non possiamo risolvere il problema decidendo a un certo punto di essere allegri. Lo stesso succede se improvvisamente vogliamo sentirci più audaci, o meno timidi, o se vogliamo non aver paura o vergogna, oppure non sentire l’attrazione sensibile di una cosa che giudichiamo disordinata.
Altre volte può darsi che vorremmo trattare con disinvoltura una persona verso la quale sentiamo una certa repulsione involontaria per ragioni che riconosciamo insignificanti, ma non ci riusciamo, e allora ci rendiamo conto che proporsi soltanto di trattarla con semplicità non risolve il problema. In definitiva, non basta una decisione volontaria perché i sentimenti si adeguino ai nostri desideri. Eppure, che la volontà non controlli direttamente i sentimenti non significa che non abbia nessuna influenza su di essi.

In etica, il controllo che la volontà può esercitare sui sentimenti è detto politico, perché è simile a quello che un governante ha sulle decisioni di coloro che egli governa: non può controllarle direttamente, in quanto essi sono liberi; però può adottare certe misure – per esempio, diminuire le imposte – sperando che producano certi risultati – per esempio, un aumento dei consumi o degli investimenti – attraverso la libera volontà dei cittadini.
Anche noi possiamo compiere certi atti nella speranza che suscitino dei sentimenti concreti: possiamo soffermarci a considerare il bene che farà un’attività apostolica per la quale cerchiamo aiuti, come mezzo per sentirci più audaci al momento di chiedere un donativo per il suo avviamento. Possiamo riflettere sulla nostra filiazione divina sperando anche che un rovescio professionale ci colpisca meno a livello sensibile. Sappiamo anche che ingerire una certa dose di alcool può provocare uno stato transitorio di euforia; e che se volontariamente rimuginiamo nella nostra testa un torto ricevuto, provocheremo reazioni di ira. Questi potrebbero essere alcuni esempi dell’influenza, sempre indiretta, che la volontà può esercitare a breve scadenza sui sentimenti.

Molto più importante, tuttavia, è l’influenza che la volontà esercita a lunga scadenza sull’affettività, perché è proprio questa influenza che le permette di darle forma, di formarla. Se riflettiamo su questo processo, si avverte chiaramente che la persona è una e che la formazione centra l’obiettivo soltanto se raggiunge l’intelligenza, la volontà e gli affetti. Ma su questo ci soffermeremo nel prossimo articolo.

Julio Diéguez


[1] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 8.

[2] Cfr. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes (7-XII-1965), n. 22.

[3] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 8.

[4] San Josemaría, Solco, 84: «La tua felicità sulla terra si identifica con la tua fedeltà alla fede, alla purezza e al cammino che il Signore ti ha tracciato». Cfr. anche, per esempio, san Josemaría, Istruzione, maggio-1935/14-IX-1950, 60; Istruzione, 8-XII-1941, 61; san Josemaría, Amici di Dio, n. 189.

[5] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 96.

[6] Basterà menzionare, come esempio, il titolo dell’omelia Amare il mondo appassionatamente, in Colloqui, nn. 113-123.

[7] San Josemaría, Amici di Dio, n. 183.

[8] San Josemaría, Cammino, n. 206.