- Gesù loda la semplicità
- La coerenza del cristiano
- Manifestare l’amore di Dio
GESÙ doveva avere un carattere molto pacifico, perché i bambini si avvicinavano a lui con naturalezza. Inoltre, non si stancava di predicare che il Regno di Dio è di quelli che cercano la pace. Perciò la durezza con cui a volte parla può richiamare la nostra attenzione e causare una certa perplessità; non solo per il contenuto di quello che dice, ma anche per il tono che caratterizza le sue invettive contro certi capi religiosi che, mossi dalla vanità, si ponevano come esempio di alcune virtù, che in realtà non vivevano in cuor loro. «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume» (Mt 23, 27).
Se meditiamo sui vangeli, ci rendiamo ben presto conto della grande pazienza con la quale Gesù tratta le persone più diverse: assiste i malati con affetto, vuole abbracciare con la sua misericordia i peccatori, e tanto i poveri quanto i ricchi trovano nel Maestro di Nazaret un cuore tenero e gentile. Solo l’ipocrisia, vale a dire la brama di apparire quello che non si è o lo sforzo smisurato di lasciarsi influenzare da quello che altri diranno, sembra irritare il suo cuore semplice e umile. Infatti, una delle poche lodi che sentiamo dire a Gesù è rivolta a Natanaele, nel loro primo incontro. Malgrado il futuro apostolo lo abbia ricevuto con una frase piena di scetticismo e di critica sul suo luogo di origine - «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1, 46) -, Gesù apprezza la sua sincerità davanti agli altri apostoli: «Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1, 47).
È interessante che questa sia stata una delle prime frasi pronunciate dal Signore ai suoi nuovi seguaci, forse per far loro comprendere che non sono le debolezze umane e neppure i limiti quelli che possono allontanarci da Dio, ma il non volerli riconoscere o consentire una certa doppiezza nel nostro agire. Perciò, come insegnava san Josemaría, noi cristiani siamo chiamati a dare testimonianza di una vita semplice: «Con la tua condotta di cittadino cristiano, mostra alla gente la differenza che c’è tra vivere tristi e vivere allegri; tra sentirsi timidi e sentirsi audaci; tra agire con cautela, con doppiezza…, con ipocrisia!, e agire da uomini semplici e tutti di un pezzo. – In una parola, tra essere mondani ed essere figli di Dio»[1].
QUAL È il motivo principale che mi induce ad agire? Questa è una domanda che ci permette di dare unità alla nostra vita. Tutto quello che facciamo nella nostra quotidianità – azioni, parole, omissioni – fa riferimento a una identità che vogliamo costruire. Nell’esame di coscienza cerchiamo di verificare fino a che punto tutte le nostre espressioni esterne sono guidate dall’intenzione finale di amare sempre più Dio e gli altri. Infatti può succedere che si generi uno sfasamento tra ciò che sembriamo all’esterno e ciò che portiamo nel nostro cuore: «All’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità» (Mt 23, 28).
«Tutto il panorama della vocazione cristiana, quell’unità di vita che ha come nerbo la presenza di Dio, nostro padre, può e deve divenire una realtà quotidiana»[2]. Per ottenere che l’ipocrisia non s’introduca un po’ per volta nella nostra anima, ci può aiutare prendere tutte le nostre decisioni alla presenza di Dio. Quando ci sentiamo guardati da un Padre che ci ama, accompagnati da Gesù, il nostro migliore Amico, e portatori dello Spirito Santo, allora appare quasi naturale che il nostro portamento esterno sia espressione dell’amore che abbiamo dentro. Infatti, la coerenza che nasce dall’unità di vita non s’improvvisa, ma scaturisce dalle convinzioni profonde che albergano nel nostro cuore e che non vogliamo negoziare.
L’autorità che caratterizza ogni cristiano «non consiste nel comandare e farsi sentire, ma nell’essere coerente, essere testimone e, per questo, essere compagni di strada nella via del Signore»[3]. Senza coerenza non c’è vero apostolato, perché tutto quello che ci piacerebbe trasmettere all’esterno nascerebbe da un cuore spento. Ecco perché ci possiamo domandare in questo momento di orazione se l’amore di Dio e il desiderio di dargli gloria è il principale motore che muove i nostri pensieri e i nostri affetti.
L’AMORE per Cristo è ciò che conferisce una solida armonia ai nostri pensieri, ai nostri sentimenti e alle nostre azioni. Se il Signore occupa il centro della nostra vita, sarà più facile manifestare la coerenza esteriore nei rapporti con gli altri. Naturalmente sarà necessario in certo qual modo adattare il nostro comportamento in funzione delle persone con le quali stiamo. Non è lo stesso passare un giorno di riposo con la propria famiglia o partecipare a una riunione di lavoro che si prevede decisiva per un progetto; la nostra confidenza verso gli amici – è chiaro – è maggiore di quella che sentiamo verso gli sconosciuti. In ogni caso, questo adattamento naturale all’ambiente in cui ci troviamo non dovrebbe farci perdere la nostra identità, né nascondere quello che dà senso a tutta la nostra vita: l’amore per Gesù.
Il desiderio di voler essere sempre la stessa persona ci porterà a vivere una virtù umana molto amata da san Josemaría: la naturalezza. Una volta ha scritto: «Quando si lavora unicamente ed esclusivamente per la gloria di Dio, si fa tutto con naturalezza, con semplicità, come chi ha fretta e non può indugiare in “grandi festeggiamenti” per non perdere il suo rapporto – irripetibile e incomparabile – con il Signore»[4]. Cerchiamo di non fare il bene per essere lodati o perché quelli che ci conoscono si formino una buona opinione di noi. Al contrario, ci interessa che tutto quello che facciamo sia un riflesso della gloria di Dio, in modo che molti possano conoscerlo, mentre noi passiamo inosservati. È l’esigente raccomandazione del Maestro: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 16).
Affinché la nostra naturalezza e la nostra coerenza siano autentiche, non dobbiamo aver paura di ammettere i nostri errori e le nostre debolezze; altrimenti potremmo cadere nella tentazione di alcuni scribi e farisei, che vivevano in un mondo di buoni propositi, ma senza ammettere i propri limiti: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”» (Mt 23, 29-30). Il desiderio di mostrarsi molto sicuri verso gli altri li portava a difendere una falsa concezione di sé stessi e a nascondere i loro limiti. Noi sappiamo, invece, che anche attraverso le nostre debolezze possiamo manifestare la gloria di Cristo, perché Egli è il nostro Salvatore. Come nostra Madre, avremo il coraggio di dire: «Ecco la serva del Signore» (Lc 1, 38), sapendo che in questa verità, forse agli occhi del mondo ben poco attraente, si nasconde tutta la nostra ricchezza.
[1] San Josemaría, Solco, n. 306.
[2] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 11.
[3] Papa Francesco, Omelia, 14-I-2020.
[4] San Josemaría, Solco, n. 555.