Cristo non respinge i farisei
“Voler capire” il bene nascosto nei precetti
Ripulire dall’interno verso l’esterno
IL VANGELO ci presenta molti incontri di Gesù con gli scribi e i farisei. Lo vediamo spesso mentre dialoga con loro, cercando instancabilmente la loro conversione; la qual cosa non deve meravigliare, dato che «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10) e Cristo considerava queste persone più lontane dal Regno di Dio che non i pubblicani e le prostitute (cfr Mt 21, 31). Sappiamo che, se qualcuno ne ha bisogno, il Signore non nega il suo aiuto e fa tutto quello che sta nelle sue mani per ricuperare la pecora smarrita. E queste pecore smarrite, che erano alcuni degli scribi e dei farisei, gli costarono grandi sforzi. Durante la sua vita terrena, per il poco che possiamo sapere, Gesù in questo campo poté contare solo su poche vittorie. Già prima della sua passione e morte troviamo qualche dottore della legge che si annovera tra i suoi discepoli, anche se lo fa di nascosto (cfr Gv 7, 50; Gv 19, 38). Alcuni farisei abbracceranno la fede dopo la sua risurrezione (cfr At 15, 5). Tra essi, alcuni continueranno a seguire gli stessi schemi dell’antica legge, cosa che creerà alcune difficoltà nella prima comunità cristiana (cfr At 15, 5); altri, come Paolo (cfr At 23, 6), avranno un’efficacia meravigliosa.
È da supporre che Gesù non si sentisse a suo agio in alcuni di questi incontri con i membri dell’autorità ebraica. Sapeva che spesso l’unica cosa che cercavano da lui era una dichiarazione che permettesse di accusarlo. Si rammaricava, inoltre, della ottusità dei loro cuori, che impediva loro di accogliere la buona novella che Egli annunciava. Eppure Cristo non si allontanò da loro. Secondo i nostri schemi, forse avrebbe fatto meglio a circondarsi unicamente di quelli che comprendevano il suo messaggio e lo ascoltavano con affetto, ma il Signore non rifiutò il dialogo con quelli che non lo amavano. Alla fin fine, Dio non vuole «la morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità» (Ez 33, 11). Quando si rivolgeva a loro, lo faceva col desiderio che si emendassero e cambiassero vita, anche quando lo faceva con una durezza maggiore: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà!» (Mt 23, 23).
Chiediamo al Signore che ci aiuti ad avere questa sete di anime che ci porti a cercare la salvezza degli uomini, anche di quelli che forse non ci comprendono. «Vogliamo fare del bene a tutti - scriveva san Josemaría -: a coloro che amano Dio e a coloro che forse lo odiano. Questi ultimi, però, ci fanno anche una gran pena e pertanto dobbiamo cercare di trattarli con affetto, aiutarli a trovare la fede, annegare il male - ripeto - nell’abbondanza del bene. Non dobbiamo avere nemici: se combattono la Chiesa in malafede, la nostra condotta umana lineare, ferma e amabile sarà l’unico mezzo in virtù del quale, con la grazia di Dio, potranno scoprire la verità, o almeno rispettarla»[1].
CRISTO rimprovera i farisei e gli scribi di adempiere rigorosamente le norme umane, ma di trascurare i precetti divini basilari. Tuttavia non critica il fatto che queste norme esistano. Gesù afferma che è necessario adempierle, ma senza dimenticare l’essenziale, che è la legge data da Dio. E questo è possibile se cerchiamo di vedere il bene che c’è dietro a tutto ciò che facciamo: la giustizia, la misericordia, la fedeltà…, in una parola, l’amore, perché «tutta la Legge, infatti, trova la sua pienezza in un solo precetto» (Gal 5, 14). Il problema di alcuni scribi e farisei è che avevano perduto l’autentico senso di tutte queste norme ed erano diventate guide cieche, capaci di filtrare il moscerino e di ingoiare un cammello (cfr Mt 23, 24).
Far crescere questo atteggiamento di voler capire per vivere la relazione con Dio con «volontarietà attuale»[2], per amore, non è né automatico, né semplice. Proprio per questo san Josemaría parlava della formazione come di una battaglia che, oltre ad essere ardua, «non termina mai»[3]. La Legge richiede di essere capita, perché è stata data a persone intelligenti, che sono invitate a lasciarsi guidare da essa in un modo profondo, non superficiale. «Essere santi - commenta il prelato dell’Opus Dei - non è fare sempre più cose o raggiungere certi standard che ci siamo prefissati. Il cammino verso la santità, come ci spiega san Paolo, consiste nel corrispondere all’azione dello Spirito Santo, finché Cristo non sia formato in noi (cfr Gal 4, 19)»[4].
In tal modo possiamo considerare tutto ciò che la vita cristiana comporta - comandamenti, norme di pietà, opere di misericordia… - come mezzi che ci portano a identificarci con il Signore. Queste pratiche fanno «parte di un dialogo di amore che abbraccia tutta la nostra vita e ci conducono a un incontro personale con Cristo. Sono momenti nei quali Dio ci aspetta per condividere la sua vita con noi»[5].
«GUAI A VOI, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza!» (Mt 23, 25). Gesù arriva alla radice del problema. Mette in evidenza il contrasto tra quello che queste persone manifestano esteriormente - preghiere ad alta voce, digiuni clamorosi… - e quello che hanno dentro - voglia di fingere, ricerca di un riconoscimento… -. «Occorre dire no alla “cultura del trucco”, che insegna a curare le apparenze. Va invece purificato e custodito il cuore, l’interno dell’uomo, prezioso agli occhi di Dio; non l’esterno, che svanisce»[6].
Il sistema indicato da Gesù è quello di purificare dall’interno verso l’esterno. «Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito» (Mt 23, 26). Ci rendiamo conto così che la formazione che il Signore vuole per noi non consiste nell’accumulare una grande quantità di informazioni, ma richiede invece una crescita dell’interiorità della persona. Non si tratta di accogliere molti semi che crescano rapidamente in superficie per dare l’impressione di fecondità, quanto piuttosto di lavorare un terreno profondo e ricco, capace di lasciar germogliare il seme piantato da Gesù nella nostra anima.
Questo è un compito che, con l’aiuto della grazia, riguarda esclusivamente ciascuno di noi. Mentre le buone opere esterne forse si possono compiere, almeno in parte, per influenza di altri - perché questi ci spingono o perché l’ambiente ci aiuta a farlo -, noi siamo i responsabili di far crescere la nostra interiorità; vale a dire, di costruire un mondo interiore che goda del bene che facciamo e rifiuti il male, non poiché proibito, ma perché ci allontana dalla felicità che desideriamo. E questo «richiede la capacità di fermarsi, di “disattivare il pilota automatico”, per acquistare consapevolezza sul nostro modo di fare, sui sentimenti che ci abitano, sui pensieri ricorrenti che ci condizionano, e spesso a nostra insaputa»[7]. La Vergine Maria è modello di una interiorità diligente che accoglie la parola e lascia che fruttifichi (cfr Lc 11, 28). Ella ci potrà aiutare a seguire fedelmente, senza doppiezza, i passi di suo Figlio.
[1] San Josemaría, Lettera 4, n. 24b.
[2] San Josemaría, Cammino, n. 293.
[3] San Josemaría, Appunti di una riunione di famiglia, 18-VI-1972.
[4] Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 28-X-2020, n. 6.
[5] Ibid.
[6] Papa Francesco, Omelia, 3-XI-2018.
[7] Papa Francesco, Udienza, 5-X-2022.