Lunedì della XXI settimana del Tempo Ordinario
- Trasmettere la fede con l’esempio.
- Quando nasce il formalismo.
- La santità è flessibile
GLI SCRIBI e i farisei erano conosciuti come degli zelanti credenti e praticanti della Legge. Tuttavia, alcuni di loro si limitavano a predicare agli altri e non mettevano in pratica quello che insegnavano. È per questo che Gesù, in diverse occasioni, mette in evidenza la loro ipocrisia, con un rimprovero pieno di dolore per le anime e con la speranza che cambiassero atteggiamento: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il Regno dei Cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare» (Mt 23, 13).
In certo qual modo, ogni cristiano ha in comune con gli scribi e i farisei la missione di insegnare, vale a dire, di trasmettere la fede in seno alla propria famiglia e fra gli amici. In senso lato, tutti siamo in qualche modo dei “capi”; da noi ci si attende che siamo in grado di guidare gli altri con delicatezza e pieno rispetto della loro libertà. E ciò richiede, prima di tutto, che si dia una testimonianza coerente. «La parola ha forza quando è accompagnata dalle opere»[1], insegnava sant’Antonio di Padova. Ogni cristiano è chiamato a «fare della sua vita quotidiana una testimonianza di fede, di speranza, di carità; testimonianza semplice e spontanea che, senza manifestazioni vistose, ma attraverso la coerenza di vita, dà rilievo alla costante presenza della Chiesa nel mondo: giacché tutti i cattolici sono essi stessi Chiesa, membri a pieno diritto dell’unico Popolo di Dio»[2].
Trasmettere la fede con il proprio esempio non significa che noi cristiani dobbiamo essere perfetti. Probabilmente le persone del nostro ambiente conoscono alcuni dei nostri difetti, le piccole o grandi incoerenze tra ciò che vogliamo insegnare e ciò che realmente siamo. La cosa importante, comunque, non è condurre una vita senza macchia, perché ciò sarebbe impossibile. In realtà queste incoerenze, quando sono riconosciute con umiltà e si combattono con l’impegno e la grazia di Dio, possono illuminare le persone che ci stanno attorno: si rendono conto che l’ideale cristiano non consiste nell’essere perfetti, ma nel lottare per somigliare sempre più a Cristo. Perciò, gli altri si accorgeranno che è possibile stare vicino a Dio anche con qualche difetto, perché Egli non pone nessun ostacolo al suo amore. In fin dei conti, la santità non è una cosa che si ottiene dalla sera alla mattina, ma è un cammino che si percorre durante tutta la vita.
«GUAI A VOI, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’aneto e sul cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle» (Mt 23, 23). Gesù denuncia quelli che danno troppa importanza a cose secondarie e perdono di vista l’essenziale. In effetti alcuni scribi e farisei avevano fatto propri molti precetti umani che non avevano nulla a che vedere con la legge divina. Questo li aveva portati a redigere una minuziosa casistica su ciò che si poteva fare e non si poteva fare. Con questo modo di agire rivelavano un certo orgoglio e autosufficienza: probabilmente avranno pensato che per guadagnare la vita eterna sarebbe bastato semplicemente seguire quelle disposizioni. Dimenticavano che la salvezza non è una cosa che umanamente possiamo meritare per le nostre azioni, ma che è sempre un dono di Dio.
Il problema che Gesù solleva non è tanto l’esistenza di questi precetti umani, perché effettivamente forse potevano avere un loro senso, ma il fatto che si trascuri l’essenziale, e cioè la Legge data da Dio. Alcuni membri dell’autorità ebraica compivano alla perfezione le norme stabilite da essi stessi, ma dimenticavano di praticare la giustizia, la carità e la misericordia verso i loro fratelli. L’amore per Dio e per gli altri era passato in secondo piano: l’importante era adempiere alla lettera le loro disposizioni.
Questo atteggiamento di alcuni scribi e farisei può essere presente anche oggi. «In alcuni si nota una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia»[3]. Possiamo chiedere al Signore, prima di tutto, di saper praticare la sua legge con il cuore, col desiderio di piacergli per ciò che facciamo. «Da’ a Dio “tutta” la gloria. – “Spremi” con la tua volontà, aiutato dalla grazia, ognuna delle tue azioni, affinché in esse non resti nulla che odori di superbia umana, di compiacenza del tuo “io”»[4]. Così potremo trasmettere una legge che non è autoreferenziale, né si basa soltanto su pratiche esteriori, ma cerca anzitutto il bene autentico degli altri: «Il Vangelo risponde alle necessità più profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per quello che il Vangelo ci propone: l’amicizia con Gesù e l’amore fraterno»[5].
NEGLI ANNI Sessanta un gran numero di studenti viveva a Villa Tevere, che allora era la sede del Collegio Romano della Santa Croce, dove molti membri dell’Opera ricevevano formazione. Una volta questi ultimi furono invitati a non sedersi su certe cassapanche decorative, che si trovavano nei pressi della sala da pranzo, per evitare che si rovinassero. Pochi giorni dopo, arrivando in quella zona della casa, vi trovarono san Josemaría seduto su una cassapanca, alla quale dava dei colpetti col tallone mentre li guardava con aria divertita. Poi spiegò loro che quell’avviso era stato dato come un particolare per vivere la povertà, perché erano in molti in quella casa, ma non c’era niente di male se uno ogni tanto si sedeva su una cassapanca, se ciò gli faceva piacere. E concluse: «Non siamo dei maniaci né della povertà, né dell’ordine, né delle piccole cose, figli miei; ma facciamo tutto per amore di Dio!»[6].
A volte la meticolosità, anche in ciò che si riferisce alla vita spirituale, può tendere più a tranquillizzare la propria coscienza, piuttosto che a far piacere a Dio. Così è facile che la relazione con il Signore finisca col diventare un formalismo. Perciò san Josemaría era solito dire che «la santità possiede la flessibilità dei muscoli agili. Chi vuole essere santo sa muoversi in modo tale che, mentre fa una cosa che lo mortifica, ne omette – se non c’è offesa a Dio – un’altra che pure gli costa e ringrazia il Signore per questa comodità. Se noi cristiani agissimo diversamente, correremmo il rischio di diventare rigidi, senza vita, come una bambola di pezza. La santità non ha la rigidezza del cartone: sa sorridere, cedere, aspettare. È vita: vita soprannaturale»[7].
San Francesco di Sales, agli inizi della sua corrispondenza con quella che un giorno sarebbe diventata santa Giovanna di Chantal, la metteva in guardia dalla possibile mancanza di libertà di figlia di Dio, in cui poteva incorrere anche nelle sue aspirazioni di vita cristiana. «Un’anima che si è assuefatta all’esercizio della meditazione, se la interrompi, la vedrai smettere la meditazione con pena, ansiosa e meravigliata. Un’anima in possesso di un’autentica libertà la interromperà col volto sereno e un cuore benevolo verso l’importuno che l’ha disturbata, perché è la stessa cosa servire Dio meditando o servirlo sopportando il prossimo; entrambe le cose sono volontà di Dio, ma in quel momento è necessario sopportare il prossimo»[8]. Possiamo chiedere alla Vergine Maria di aiutarci a trattare suo Figlio con un cuore libero da formalismi e pieno di un amore autentico e semplice.
[1] Sant’Antonio da Padova, Sermoni, I, 226.
[2] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 53.
[3]. Papa Francesco, es. ap. Evangelii Gaudium, n. 95.
[4] San Josemaría, Cammino, n. 784.
[5] Papa Francesco, es. ap. Evangelii Gaudium, n. 265.
[6] Di san Josemaría, cit. in Pilar Urbano, El hombre de Villa Tevere, Plaza & Janés, Barcellona 1995, p. 225.
[7] San Josemaría, Forgia, n. 156.
[8] San Francesco di Sales, Lettera alla baronessa de Chantal, 14-X-1604.