Un’epica storia di amore
Avere una memoria libera, non schiava
Amare i comandamenti
NON SEMPRE la predicazione del Signore è stata ben accolta da quelli che lo ascoltavano. Un chiaro esempio è ciò che accadde dopo il discorso del pane di vita. Alcuni di quelli che fino a quel momento avevano seguito il Maestro commentarono: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6, 60). Qualsiasi progetto che vale la pena in questa vita comporta una rinuncia. Anche il matrimonio, che è destinato ad essere una storia di amore nel corso del tempo, obbedisce a questa dinamica. Lo suggerisce la seconda lettura, quando afferma: «Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne» (Ef 5, 31). Non c’è dubbio che imparare a “ballare allo stesso ritmo di un altro” implica abbandonarsi nelle sue mani, ma quello che si ottiene è molto di più di quello che si potrebbe ottenere da soli.
Nella vita cristiana non si cerca semplicemente la rinuncia per la rinuncia. Certamente, quando si vuole vivere di amore, essa è inevitabile. Come ricorda san Paolo, aspirare ai beni di lassù richiede che si prendano le distanze dai beni di quaggiù (cfr Col 3, 1-2). Ciò nonostante, se pensiamo ai grandi racconti epici della storia, la loro risonanza non è dovuta tanto alle rinunce che è stato necessario accettare, quanto alle gesta che sono state compiute. In modo simile, è vero che ogni tanto possiamo avere l’impressione che la relazione con Dio sia segnata dalla durezza, perché magari alcune volte troviamo grande difficoltà nel seguire i suoi comandamenti; tuttavia, la vita cristiana non si limita unicamente a questo, ma deve essere valutata soprattutto per i beni di lassù, che noi cerchiamo ardentemente e che Egli vuole darci. Si tratta di beni che non solo si assaporeranno nella vita eterna, ma che possiamo cominciare a gustare anche durante la vita terrena. Come ricordava san Josemaría, «per amare sul serio è necessario essere forti, leali, avere il cuore saldamente ancorato alla fede, alla speranza e alla carità. Solo chi è inconsistente e fatuo muta capricciosamente l’oggetto dei suoi affetti, che in realtà non sono affetti, ma soddisfazioni egoistiche. Quando c’è amore c’è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno può toglierci»[1].
NELLA PRIMA lettura di questa domenica Giosuè convoca le tribù d’Israele e le invita a prendere una posizione radicale: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore» (Gs 24, 15). In realtà questa esortazione di Giosuè è la conclusione di un toccante discorso, nel quale il successore di Mosè ricorda, a partire da Abramo, tutte le vicissitudini per le quali è passato il popolo di Israele e come Dio gli è rimasto fedele in ogni circostanza, proteggendolo dai suoi nemici e colmandolo di molte benedizioni (cfr Gs 24, 1-14). Non c’è da meravigliarsi che il popolo, ricordando la presenza fedele e protettrice di Dio, esclami con decisione: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati» (Gs 24, 16-17).
Giosuè ricorda al popolo i doni ricevuti da Dio. Il popolo di Israele avrà bisogno ripetutamente di ricordare tutto quello che Yahweh ha fatto per lui. Infatti assai spesso, davanti alle avversità dell’esodo, gli israeliti arrivano ad avere nostalgia delle cose positive della schiavitù: «Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11, 4-6). «Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo. Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù. Essi, in quei momenti di tentazione, avevano memoria, ma una memoria malata, una memoria selettiva. Una memoria schiava, non libera»[2].
Un popolo al quale è stata offerta la libertà, che ha sperimentato il potere protettore del Signore, ha nostalgia dell’apparente comfort della schiavitù. Per quanto paradossale possa sembrare, l’esperienza di Israele può rispecchiare anche l’esperienza di ognuno di noi. Possiamo arrivare a considerare Dio e la vita di fede come una cosa che ci complica la vita, che ci fa avere nostalgia dell’ingannevole calma che offre la lontananza da Dio. È allora che, come Giosuè, possiamo mettere di nuovo davanti ai nostri occhi tutto il bene che il Signore ha fatto nella nostra vita attraverso la sua presenza, i suoi sacramenti, le persone che ha messo al nostro fianco. Se poi riflettiamo sul fatto che questa vicinanza non viene mai meno, che questo Dio tenero e provvidente non ci abbandona se noi lo lasciamo rimanere, possiamo esclamare come san Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68-69).
«O DIO, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia»[3]. Così recita la preghiera colletta di questa domenica. Attraverso questa supplica, la Chiesa non ci invita semplicemente a compiere ciò che Dio comanda, ma a ricambiare il suo amore. Compiere una cosa che ci viene imposta dall’esterno può essere un atteggiamento encomiabile se ciò che viene comandato è lecito e contribuisce al bene nostro e a quello della comunità. Tuttavia, noi vogliamo andare oltre: vogliamo amare un Dio che è buono e ci chiede soltanto quello che ci conviene.
Per amare occorre conoscere quanto bene c’è dietro a ciò che Dio propone attraverso la Scrittura, la Tradizione e il Magistero della Chiesa. Una comprensione che non è astratta, ma che con l’aiuto della fede riesce a cogliere il bene che un comandamento o una indicazione comporta per noi stessi. Non osserviamo i precetti divini solo perché sono comandati da uno che ha autorità, ma perché comprendiamo il bene che comportano o, almeno, perché abbiamo fiducia in chi ce li ha dati. Con la luce della fede e l’aiuto della grazia possiamo scoprire il bene per noi che i comandamenti contengono. Si capisce allora la richiesta di sant’Agostino: «Dacci quello che comandi e comanda quello che vuoi»[4]. Perciò possiamo chiedere al Signore che ci aiuti a comprendere il significato dei suoi comandamenti, per poterli amare con tutto il cuore.
In questo senso, l’orazione, la lettura e l’assistenza spirituale possono essere per un cristiano i canali abituali attraverso i quali Dio ci dà questa sapienza. Possiamo così mettere serenamente a fuoco i periodi di maggiore aridità o le circostanze in cui prevale la rinuncia nel nostro rapporto di amore con Dio. Tale sapienza non solo ci fa sapere che il Signore è buono e cerca il nostro bene, ma ci permette di sperimentare sempre più la sua bontà e tutti i doni che continuamente ci dà, come esclama il salmista: «Gustate e vedete com’è buono il Signore; beato l’uomo che il lui si rifugia» (Sal 34, 9). Possiamo chiedere alla Vergine Maria che ci aiuti a riconoscere e a godere di tutto ciò che suo Figlio fa per noi.
Domingo XXI – Tiempo Ordinario (ciclo B)
- Una historia épica de amor.
- Tener una memoria libre, no esclava.
- Amar los mandamientos.
LA PREDICACIÓN del Señor no siempre fue bien recibida por quienes le escuchaban. Un ejemplo claro es lo que ocurrió después del discurso del pan de vida. Algunos de los que hasta ese momento seguían al Maestro comentaron: «Este modo de hablar es duro, ¿quién puede hacerle caso?» (Jn 6,60). Cualquier proyecto que vale la pena en esta vida implica renuncia. El matrimonio, que está llamado a ser una historia de amor a lo largo del tiempo, también cuenta con esa dinámica. Así lo sugiere la segunda lectura al afirmar: «Por eso dejará el hombre a su padre y a su madre, y se unirá a su mujer y serán los dos una sola carne» (Ef 5,31). No hay duda de que aprender a bailar al compás del otro implica abandonarse en sus manos, pero lo que se alcanza es mucho mayor que lo que uno podría conseguir por su propia cuenta.
En la vida cristiana no se busca simplemente la renuncia por la renuncia. Ciertamente, cuando se pretende vivir de amor, esta es inevitable. Como recuerda san Pablo, aspirar a los bienes de arriba requiere tomar distancia con los de abajo (cfr. Col 3,1-2). No obstante, si pensamos en los grandes relatos épicos de la historia, su repercusión no se debe tanto a las renuncias que han realizado, sino a las gestas que han logrado. De un modo similar, es verdad que a veces podemos percibir que la relación con Dios está marcada por la dureza, pues en ocasiones quizá encontramos gran dificultad en seguir sus mandamientos. Sin embargo, la vida cristiana no se tasa únicamente en eso, sino que sobre todo se mide por los bienes de arriba que nosotros ardientemente buscamos y que él quiere darnos. Unos bienes que no solo se saborean en la vida eterna, sino que también en la terrena podemos empezar a degustarlos. Como recordaba san Josemaría: «Para amar de verdad es preciso ser fuerte, leal, con el corazón firmemente anclado en la fe, en la esperanza y en la caridad. Solo la ligereza insubstancial cambia caprichosamente el objeto de sus amores, que no son amores sino compensaciones egoístas. Cuando hay amor, hay entereza: capacidad de entrega, de sacrificio, de renuncia. Y, en medio de la entrega, del sacrificio y de la renuncia, con el suplicio de la contradicción, la felicidad y la alegría. Una alegría que nada ni nadie podrá quitarnos»[5].
EN LA PRIMERA lectura de este domingo, Josué convoca a las tribus de Israel y las invita a una toma de posición de radical: «Si os resulta duro servir al Señor, elegid hoy a quién queréis servir: si a los dioses a los que sirvieron vuestros padres al otro lado del río, o a los dioses de los amorreos, en cuyo país habitáis; que yo y mi casa serviremos al Señor» (Jos 24,15). En realidad, esta exhortación de Josué es la conclusión de un emotivo discurso en el que el sucesor de Moisés rememora desde Abraham todas las vicisitudes por las que ha pasado el pueblo de Israel y cómo Dios ha permanecido fiel en cada circunstancia, protegiéndolo de sus enemigos y colmándolo de muchas bendiciones (cfr. Jos 24,1-14). No es de extrañar que el pueblo, evocando la memoria de la presencia fiel y protectora de Dios, exclame con decisión: «¡Lejos de nosotros abandonar al Señor para ir a servir a otros dioses! Porque el Señor nuestro Dios es quien nos sacó, a nosotros y a nuestros padres, de Egipto, de la casa de la esclavitud; y quien hizo ante nuestros ojos aquellos grandes prodigios y nos guardó en todo nuestro peregrinar y entre todos los pueblos por los que atravesamos» (Jos 24,16-17).
Josué evoca en el pueblo los dones recibidos de Dios. El pueblo de Israel necesitará en muchísimas ocasiones volver a poner la vista en todo lo que Yahvé ha hecho por él. Porque con frecuencia, ante las adversidades del éxodo, los israelitas llegan a añorar las comodidades de la esclavitud: «¡Quién nos diera carne para comer! ¡Cómo nos acordamos del pescado que comíamos gratis en Egipto, y de los pepinos y melones y puerros y cebollas y ajos! En cambio ahora se nos quita el apetito de no ver más que maná» (Nm 11,4-6). «El alimento que nos ofrece el Señor es distinto de los demás, y tal vez no nos parece tan gustoso como ciertas comidas que nos ofrece el mundo. Entonces soñamos con otras comidas, como los judíos en el desierto, que añoraban la carne y las cebollas que comían en Egipto, pero olvidaban que esos alimentos los comían en la mesa de la esclavitud. Ellos, en esos momentos de tentación, tenían memoria, pero una memoria enferma, una memoria selectiva. Una memoria esclava, no libre»[6].
Un pueblo al que se le ha brindado la libertad, que ha experimentado el poder protector del Señor, añora la aparente comodidad de la esclavitud. Por paradójico que pueda parecer, la vivencia de Israel puede reflejar también la experiencia de cada uno de nosotros. Podemos acabar viendo a Dios y la vida de fe como algo que nos complica, añorando la engañosa calma que proporciona la lejanía de Dios. Es entonces cuando, como Josué, podemos volver a poner ante nuestros ojos todo el bien que el Señor ha hecho en nuestra vida a través de su presencia, de sus sacramentos, de las personas que ha puesto a nuestro lado. Y al considerar que esa cercanía nunca se retira, que ese Dios tierno y providente no nos abandona si nosotros le dejamos, podemos exclamar como san Pedro: «Señor, ¿a quién vamos a acudir? Tú tienes palabras de vida eterna; nosotros creemos y sabemos que tú eres el Santo de Dios» (Jn 6, 68-69).
«SEÑOR Dios, que unes en un mismo sentir los corazones de tus fieles, impulsa a tu pueblo a amar lo que mandas y a desear lo que prometes, para que, en medio de la inestabilidad del mundo, estén firmemente anclados nuestros corazones donde se halla la verdadera felicidad»[7]. Así reza la oración colecta de este domingo. A través de esta súplica, la Iglesia no nos invita sencillamente a cumplir lo que Dios manda, sino a corresponder a su amor. Cumplir algo que nos viene impuesto desde fuera puede ser una actitud encomiable si lo que se manda es lícito y contribuye al bien nuestro y de la comunidad. Sin embargo, nosotros queremos ir más allá: deseamos amar a un Dios que es bueno y solo nos pide aquello que nos conviene.
Amar exige conocer la razón de bien detrás de lo que Dios propone a través de la Escritura, de la Tradición y del Magisterio de la Iglesia. Una comprensión que no es abstracta, sino que con la ayuda de la fe alcanza a captar el bien que un mandamiento o una indicación supone para uno mismo. No cumplimos los preceptos divinos solo porque son mandados por alguien con autoridad, sino porque comprendemos el bien que conlleva o, al menos, porque confiamos en quien nos lo pide. Con la luz de la fe y la ayuda de la gracia podemos descubrir la bondad que contienen los mandamientos para nosotros. Se entiende entonces aquella petición de san Agustín: «Da lo que mandas y manda lo que quieras»[8]. Por eso, podemos pedir al Señor que nos ayude a comprender el sentido de sus mandamientos para poder amarlos con todo el corazón.
En este sentido, la oración, la lectura y el acompañamiento espiritual pueden ser para un cristiano los cauces habituales por los que Dios nos da esa sabiduría. Así, podemos enfocar con serenidad los períodos de mayor sequedad o las circunstancias donde sobresale más la renuncia en nuestra historia de amor con Dios. Esa sabiduría no solo nos hace saber que el Señor es bueno y busca nuestro bien, sino que nos permite experimentar cada vez más su bondad y todos los dones que continuamente nos da, como clama el salmista: «Gustad y ved qué bueno es el Señor, dichoso el que se acoge a él» (Salmo 34,9). Podemos pedir a la Virgen María que nos ayude a reconocer y disfrutar todo lo que su Hijo hace por nosotros.
[1] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 75.
[2] Papa Francesco, Omelia, 19-VI-2014.
[3] Messale Romano, preghiera colletta della XXI Domenica del Tempo Ordinario.
[4] Sant’Agostino, Confessioni, X, 29.
[5] San Josemaría, Es Cristo que pasa, n. 75.
[6] Francisco, Homilía, 19-VI-2014.
[7] Misal Romano, oración colecta del XXI Domingo del Tiempo Ordinario.
[8] San Agustín, Confesiones, X, 29.