La luce della fede (XII): ​«Noi predichiamo Cristo crocifisso»

Che cosa significa che con la sua morte sulla Croce e con la sua Resurrezione Cristo ha ottenuto il perdono di tutti gli uomini? A chi ha offerto la sua vita e perché? Che cosa significa che la morte di Cristo è vita del mondo, e che entrando nella morte ha guadagnato a tutti la vita? Quattro immagini ci aiutano ad approfondire il mistero.

«Mentre i giudei chiedono i miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1, 22-24).

Non è facile accettare il mistero della Croce. La prospettiva di un Messia che, dopo essere stato umiliato, finisce i suoi giorni su una Croce, scandalizzava l’immaginazione di Pietro (cfr. Mt 16, 21-23) , e neppure i Dodici lo comprendevano (cfr. Lc 18, 30-34). Fu tanto dolorosa quella sofferenza che Gesù chiese a suo Padre di far passare quel calice (cfr. Mt 26, 39) e il cuore di Maria, identificato con quello del Figlio, conobbe ugualmente la naturale reticenza davanti alla sofferenza.

È così naturale il rifiuto di un Dio che finisce su un patibolo, che anche la sua rappresentazione pittorica impiegò secoli prima di farsi strada nell’immaginario della cultura cristiana, sia nel contesto ebraico che greco-romano. Questa incapacità di intendere è talmente naturale, che noi stessi continuiamo a verificarlo quando siamo visitati dalla Croce, non nel turbamento artistico o nella teoria di un discorso, ma nell’acerba concretezza della vita reale.

LA CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DELLA CROCE È SORGENTE INESAURIBILE DI VITA.

Malgrado la durezza della Croce, la fiducia nel fatto che i progetti di Dio, il loro mistero di salvezza, rispondono a una logica che Egli stesso ci ha voluto rivelare, spinse i primi cristiani a difendere l’indifendibile, fino al punto che oggi qualunque bambino che impara il catechismo ripete a memoria: «qual è il segno del cristiano? Il segno del cristiano è quello della santa Croce»[1]. Il semplice gesto di farsi il segno della croce ha in sé una forza simbolica unica: confessa con l’anima e con il corpo tutto il mistero della creazione e della redenzione, tutto ciò che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno fatto e faranno per ciascuno di noi.

«Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire» (Qo 1, 8). La contemplazione del mistero della Croce è sorgente inesauribile di vita, a condizione che ciascuno percorra il proprio cammino intellettuale e spirituale. Questa è stata l’esperienza dei grandi maestri della tradizione cristiana, che hanno risalito la via della Croce con la loro predicazione e con la loro vita. Più che una spiegazione, le riflessioni che seguono vogliono presentare quattro immagini capaci di generare luce e serenità quando sembra che la tenebra della Croce ci avvolga.

Prima immagine: il trono della misericordia

La prima immagine è quella del Trono della misericordia. È una iconografia sviluppatasi soprattutto nel Medioevo. Esistono numerose variazioni, ma il motivo è sempre lo stesso: Dio Padre sostiene con le sue mani il Figlio sulla croce, mentre lo Spirito Santo, rappresentato in forma di colomba, appare tra i volti del Padre e del Figlio. La forza di questa immagine sta nel presentare la auto-donazione come la donazione stessa del Padre, grazie all’azione dello Spirito Santo. In tal modo appare chiaro, prima di tutto, che il Padre rivela la propria misericordia per ognuna delle sue creature non malgrado la, ma attraverso la Passione del Figlio. Questo non significa che l’amore di Dio abbia sulla croce una manifestazione eminente mediante il dolore che comportò, ma perché costituisce, di fatto, l’ultima e la più eloquente predicazione di Gesù sull’amore con il quale il Padre rispetta e promuove il bene e la libertà di tutti i suoi figli.

Questa immagine ci dice che Dio è disposto a caricarsi del peso della Croce piuttosto che forzare qualcuno ad amarlo. Per questo, se guardiamo bene attraverso le piaghe del Risorto, non vedremo l’immagine di un Dio tanto radicalmente trascendente da considerare indegno della sua purezza avere rapporti con coloro che sono polvere del suolo e vanità (cfr. Gn 2, 7; Sal 144, 4). L’immagine del Dio cristiano dimostra, in un modo sorprendente e nuovo, l’unità della giustizia e della misericordia; l’amore di Dio, che si mette sempre dalla parte delle sue creature, e la sua capacità di portare a compimento il disegno originario della creazione. Proprio la croce di Cristo rende evidente il peso di queste vicende, vale a dire, quanto sia costato alla Trinità essere fedele al proprio progetto, a quella pazzia d’amore che è la creazione di esseri personali che danno del Tu a Dio da tutta l’eternità, sia sotto la forma di un appassionato Ti amo, sia con un amaro Ti odio. Nostro Padre diceva spesso che proprio colui che ama, soffre: «se in amore sono esperto, / è a forza di dolore»[2].

Seconda immagine: il grido di Gesù

La seconda immagine è il grido di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Come tutto nella vita di Gesù, questo gemito che esce dalle profondità di un corpo esausto funge da rivelazione. Se ci guardiamo attorno senza ingenuità, vedremo che spesso i giusti sono quelli che finiscono per perdere. È la continua verità del salmo 73: «agli empi va apparentemente bene, a quelli che vogliono vivere al cospetto di Dio va apparentemente male». In questo senso, Gesù sulla Croce solidarizza con tutti gli innocenti che soffrono ingiustamente e di cui in questo mondo non vengono ascoltate le grida.

La Passione del Crocifisso è un atto di compassio redentrice del Padre in Cristo con tutte le vittime che, in un modo o in un altro, hanno sofferto per difendere la verità di Dio e la verità dell’uomo. I loro lamenti, le loro grida tante volte ridotte al silenzio, trovano un luogo in Dio grazie al grido di Gesù. In Lui non vengono spenti, ma trovano una risonanza divina. Nel perché di Gesù le nostre domande più esasperate dal dolore o dalla solitudine non sono dimenticate, ma raggiungono la certezza di una risposta piena d’amore da parte della Trinità. Come nel caso di Gesù, questa risposta sarà piena solo quando arriverà la Resurrezione. Tuttavia, se impariamo a gridare in Lui, la nostra pena si trasformerà gradatamente in pace e serenità di vittoria[3].

GESÙ SULLA CROCE SOLIDARIZZA CON TUTTI GLI INNOCENTI CHE SOFFRONO INGIUSTAMENTE E DI CUI IN QUESTO MONDO NON VENGONO ASCOLTATE LE GRIDA.

Se è vero che nel banchetto eterno i malvagi non si siederanno a tavola accanto alle vittime, come se non fosse successo niente[4], è facile capire perché la croce sia indissociabile dalla Resurrezione e dal giudizio finale. Una predicazione che insista esclusivamente su una di queste tre realtà fa una caricatura del mistero di Cristo e rende ancor meno accettabile il volto di Cristo ai nostri contemporanei. Il giudizio finale è indissociabile dalla Croce e dalla Resurrezione. È l’ultimo atto della costituzione del Regno che Gesù ha predicato fin dall’inizio; l’atto nel quale le intenzioni del cuore saranno manifestate e la sofferenza innocente di tutti i giusti, a cominciare da Abele, riceverà il pubblico riconoscimento che merita.

Terza immagine: il buon ladrone

La terza immagine è la conversione del buon ladrone (cfr. Lc 23, 40-43). Appeso alla Croce, Gesù non soltanto solidarizza con gli innocenti, ma saggia le profondità dei cuori che rifiutano Dio. Lo Spirito Santo muove Gesù a non abbandonare nessuno, neppure quelli che si ergono contro di Lui. Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori (Mc 2, 17). Durante la vita non ha parlato soltanto del perdono e dell’amore verso i nemici (Mt 5, 44), ma è morto perdonando e benedicendo uno dei malfattori che era crocifisso con Lui (cfr. Lc 23, 43). Il buon ladrone passò in pochi minuti dalla maledizione alla benedizione. L’esodo per il quale lo condusse Gesù è una metafora della nostra vita, perché tutti abbiamo peccato e siamo vissuti privi della gloria di Dio (cfr. Rm 3, 23).

C’è una condizione, tuttavia, per poter entrare nella benedizione, perché nella relazione con Gesù non c’è nulla di magico o di automatico: nessuno, neppure Gesù, può sostituire la nostra coscienza. Alla fine della sua vita Gesù prosegue con il suo programma iniziato al Giordano (cfr. Mc 1, 14). Cerca i pescatori e fraternizza con loro, ma per chiamarli alla conversione e alla penitenza (cfr. Lc 5, 32). La novità della rivelazione della Croce consiste nel fatto che a Dio basta un autentico atto di contrizione per donare la benedizione. Il buon ladrone non ebbe l’opportunità di restituire ciò che aveva rubato, eppure gode ormai della vita eterna. Come nel nostro Battesimo, risuona qui la scandalosa generosità della parabola del figlio prodigo: il Padre non esige che si compia materialmente una riparazione impossibile. Egli saggia la verità del cuore e per questo gli basta che riconosciamo senza ambagi il nostro peccato, che ci pentiamo di cuore e che ci abbracciamo a Gesù con la fede che opera ciò che può per mezzo della carità (cfr. Gal 5, 6). Il buon ladrone è una bella immagine per comprendere l’assoluta gratuità della giustificazione e di quel minimo che il Padre richiede per poterci perdonare. Lo Spirito Santo che opera in Gesù e nel suo Corpo, che è la Chiesa, provvederà a sanare le conseguenze che abbiamo causato attorno a noi con i nostri peccati.

Dalla croce, Gesù ci guarda. La sua preghiera di intercessione, «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34), è una preghiera efficace: ci mette, come il ladrone, in condizione di riconoscere la nostra colpa, di accettare la nostra responsabilità e di aprirci alla necessità del perdono. Se lo sguardo di Gesù non fosse misericordioso, lo spettacolo dei nostri peccati ci porterebbe facilmente alla disperazione. Ma il suo sguardo è diverso: non ci riconduce ai nostri atti, ma apre uno spazio nel quale il dolore che proviamo nel renderci conto della meschinità delle nostre decisioni, non termina in un gesto amaro. Il Figlio di Dio è oggetto di una violenza assurda; la stessa che rimane attiva nel nostro intimo quando l’invidia, la superficialità o semplicemente l’indifferenza davanti al male e al peccato ci trasformano in colpevoli. Però l’Amore di Dio è più forte di qualunque sciocchezza delle sue creature. La pazienza con cui sopporta la debolezza di chi non ha bastone (la im-becillitas) rivela che il Padre ha in Cristo le sue mani sempre aperte per accoglierci, se veramente vogliamo fare lo sforzo di lasciarci abbracciare da Lui.

Quarta immagine: l’Agnello immolato davanti al trono di Dio

La quarta immagine è quella dell’Agnello immolato che sta in piedi davanti al trono di Dio (cfr. Ap 5, 1-14). Il profeta Isaia aveva usato l’immagine dell’agnello per parlare del servo sofferente (cfr. Is 53, 7). Il Battista impiega la stessa immagine per riferirsi a Gesù «che toglie i peccati del mondo» (Gv 1, 29). Il vangelo di san Giovanni fa coincidere la morte di Cristo con il momento del sacrificio rituale nel tempio, forse per sottolineare in tal modo che il sangue di un agnello aveva liberato i primogeniti di Israele dalla morte in Egitto (cfr. Es 12).

Il libro dell’Apocalisse presenta Cristo come l’Agnello che vince i potenti della terra, perché Egli è il Re dei re e il Signore dei signori (cfr. Ap 17, 14). A chi non ha familiarità con il mondo biblico può apparire difficile comprendere l’insistenza – fino a ventinove volte – con cui l’Apocalisse si serve di questa immagine; ma per i primi cristiani ebrei era tanto naturale che ben presto si affermò la potente immagine dell’Agnello immolato e vittorioso, mirabile sintesi di ciò che la successiva tradizione cristiana chiamerà la gloriosa esaltazione di Cristo sulla Croce.

Tale tradizione, di origine giovannea, contempla la croce come anticipazione della gloria della Resurrezione. In molti crocifissi vediamo ancora oggi le cosiddette potenze, vale a dire, i raggi della gloria del Risorto che si espandono dalla croce al mondo intero. San Josemaría, come tanti altri santi, contemplava abitualmente la croce da questo punto di vista[5].

L' IMMAGINE DELL’AGNELLO IMMOLATO E VITTORIOSO È SINTESI DELLA GLORIOSA ESALTAZIONE DI CRISTO SULLA CROCE.

Il capitolo 5 dell’Apocalisse contiene un’allusione caratteristica dello stile di san Giovanni. L’autore presenta con grande drammaticità la scena di un libro sigillato che nessuno è in grado di aprire. Un angelo grida a gran voce e domanda se c’è qualcuno degno di sciogliere i sette sigilli. Ma nessuno risponde. A quel silenzio desolante, Giovanni proruppe in pianto (cfr. v. 4). Uno dei vegliardi lo tranquillizza e gli dice: «Non piangere più; ecco, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide; egli dunque aprirà il libro» (Ap 5, 5). Il paradosso è che quando questo leone fa atto di presenza per aprire il libro, lo fa assumendo l’aspetto di un agnello (cfr. Ap 5, 6).

«Victor, quia victima»[6]. Vinse non perché fu violento, ma perché fu vittima della violenza. La vittoria del Padre in Cristo rivela qualcosa di questa divina passività e mansuetudine che l’immagine dell’agnello esprime in linguaggio umano. Né il Padre richiese a suo Figlio il dolore come soddisfazione, né Cristo eliminò il peccato distruggendo alcunché. Il Padre chiese a suo Figlio di rivelare il suo amore di Padre per ognuno di noi, rischiando che gli uomini dessero all’amore di Dio la direzione che volevano loro. Gli chiese di svelare sempre e senza ambagi che il Padre non ritira i suoi doni, che la libertà è reale e che Egli non vuole schiavi ma figli. Ecco perché tutta la vita di Gesù consistette nello smascherare la logica dei cuori che, pur facendo le cose esternamente, nel loro intimo vivono schiavi della paura, dell’invidia o del risentimento.

Gesù è venuto a liberarci dalla schiavitù del peccato annunciando che «il Padre stesso vi ama» (Gv 16, 27) e ha unito la sua volontà di uomo a questo desiderio divino in modo tanto perfetto da lasciarsi appendere a un legno piuttosto che obbligare chicchessia ad arrendersi a Dio. Il paradosso di questo Agnello «mite e umile» (Mt 11, 29), che è venuto «per distruggere le opere del diavolo» (1 Gv 3, 8), è che le ha vinte subendo sino alla fine la tentazione della sfiducia nell’amore del Padre. In tal modo ha dimostrato la grandezza del cuore umano secondo il disegno creatore di Dio: un cuore che, mediante la forza dello Spirito Santo, può lasciarsi modellare del tutto, può abbracciare tutti ed è capace di introdurre, nelle tenebre più dense del rifiuto di Dio, la luce della fiducia filiale.

La nostra libertà è reale e la Trinità la ama tanto da volere che anche noi diamo forma alla relazione che Egli ha iniziato nella creazione. Né Gesù, né quelli che lo hanno crocifisso, né Maria, né Pietro, né Giuda erano semplici esecutori di un copione già scritto dall’eternità. È vero che Dio è più di noi ed è Lui che ha stabilito le regole e il senso di questo gioco, che è la nostra vita; ma una regola fondamentale è che noi decidiamo e costruiamo con Lui il modo di vivere nell’eternità. «Il Dio che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te»[7]. Egli è sempre dalla nostra parte e ci tende le mani, ma non eserciterà alcuna violenza contro nessuno di noi perché sa che il dono di una relazione vissuta in libertà, illumina la nostra storia.

Juan Rego


[1] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 617.

[2] San Josemaría, Amici di Dio, n. 68.

[3]Sal 22, 26-32: «Sei tu la mia lode nella grande assemblea, scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli. I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano: “Viva il loro cuore per sempre”. Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli. Poiché il regno è del Signore, egli domina su tutte le nazioni. A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere. E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: “Ecco l’opera del Signore!”».

[4] Cfr. Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 30-XI-2007, n. 44.

[5] Cfr. San Josemaría, Cammino, n. 969.

[6] Sant’Agostino, Confessioni X, 43.

[7] Cfr. Sant’Agostino, Sermo 169, 11, PL 38,923.