Meditazioni: san Giovanni Apostolo ed Evangelista

Riflessioni per meditare il 27 dicembre, festa di san Giovanni Apostolo ed Evangelista. Ecco i temi proposti: Sicurezza nell’amore del Signore; Realmente figli; Con Maria sino alla fine.

- Sicurezza nell’amore del Signore
- Realmente figli
- Con Maria sino alla fine


IL QUARTO VANGELO riassume in una bella frase l’identità del giovane Giovanni: egli era «il discepolo che Gesù amava». Con ciò, in realtà, era detto tutto: Giovanni era colui che Gesù amava. Con il trascorrere degli anni questa convinzione non si affievolirà, ma diventerà ancora più forte: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1 Gv 4, 10). Non c’è dubbio che questa sicurezza nell’amore che il Signore aveva per lui fu ciò che gli permise di conservare, sino alla fine dei suoi giorni, una gioia profonda e contagiosa. La stessa che si respira nel suo Vangelo. Tutto era cominciato quel giorno, sulle rive del Giordano.

E noi, siamo stati coinvolti in un incontro altrettanto familiare come quello del giovane apostolo? Anche se siamo cristiani ormai da molti anni e abbiamo trascorso molte ore in preghiera, è bene che ci soffermiamo un momento a pensare: «Per me, chi è Gesù? Che significato ha nella mia vita reale Gesù, adesso?». Fatta questa considerazione, possiamo valutare com’è la nostra fede. «Ma prima di questa domanda, ce n’è un’altra in un certo senso più importante, inseparabile e previa (...): Chi sono io per Gesù?»[1].

Non è strano che, a questa domanda, restiamo un po’ perplessi: Chi sono io per Gesù? Chi sono? Un fanciullino? Un prodotto dell’evoluzione? Uno dei tanti esseri umani... che è tenuto ad adempiere i suoi comandamenti? Come mi vede Gesù? Può chiarire le idee, in queste situazioni, guardare ai santi? Quando una volta fecero una domanda simile a san Giovanni Paolo II, egli rispose: «Guarda, tu sei un pensiero di Dio, tu sei un battito del cuore di Dio. Affermare questo equivale a dire che tu hai un valore, in un certo senso, infinito, che conti per Dio nella tua irripetibile individualità»[2]. Ciò che egli stesso aveva scoperto – ciò che hanno scoperto tutti i santi – è che per Dio siamo molto importanti. Non siamo servi che sono al mondo solo per fare quel che Egli vuole. Siamo dei veri amici. Tutto ciò che proviene da noi gl’importa, e per questo si preoccupa di noi e ci sta accanto nel corso di tutta la nostra vita, anche se molte volte non ce ne accorgiamo.


UNA DELLE CONVINZIONI radicate nei primi cristiani era che si potevano rivolgere a Dio come figli amati. Gesù stesso aveva loro insegnato: «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli...» (Mt 6, 9). Egli si era presentato ai giudei come il Figlio amato dal Padre e aveva insegnato ai suoi discepoli a comportarsi allo stesso modo. Gli apostoli lo avevano ascoltato mentre si rivolgeva a Dio con il termine che usavano i bambini ebrei nel rivolgersi ai loro genitori. E, dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, essi stessi avevano cominciato a usare questa formula. Si trattava di una cosa completamente nuova rispetto alla pietà di Israele, ma san Paolo ne parlerà come di una cosa comune e conosciuta da tutti: «avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” Lo Spirito stesso attesta al nostro Spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8, 15-16). Era una convinzione che li riempiva di fiducia e conferiva loro un’audacia impensata: «se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 17). Gesù non è soltanto l’Unigenito del Padre, ma anche il primogenito di molti fratelli (cfr. Rm 8, 29; Col 1, 15).

La Vita nuova, portata da Cristo, si presentava ai loro occhi come una vita di figli amati da Dio. Non era, questa, una verità teorica o astratta, ma qualcosa di reale che li riempiva di una gioia straripante. Una eccellente dimostrazione di ciò è il grido che sfugge all’apostolo san Giovanni nella sua prima lettera: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1).


SULLA CROCE, GESÙ GUARDA MARIA, si rivolge a Lei con l’appellativo di Donna, come a Cana, e, indicando il discepolo amato, dice: “Donna, ecco il tuo figlio!” (Gv 19, 26). Poi, guardando Giovanni, aggiunge: “Ecco la tua Madre!” (Gv 19, 27).

Non chiama per nome né la Madonna né Giovanni. Maria è la nuova Eva che, in unione con il nuovo Adamo e subordinata a Lui, è chiamata a dare la sua mediazione materna nell’opera della redenzione. L’evangelista, invece, si trova lì in qualità di discepolo fedele, come rappresentante di tutti quelli che crederanno in Cristo sino alla fine dei secoli. Le parole del Signore – parole di Dio e dunque parole di creazione come quelle del principio del mondo – realizzano ciò che significano. Da quel momento Maria è costituita Madre di tutti coloro che verranno nella Chiesa: Mater Ecclesiæ, come la chiamò san Paolo VI nel chiudere il Concilio Vaticano II. Le sue viscere produssero una nuova maternità: spirituale, ma autentica; e dolorosa, perché in quei momenti si compiva alla lettera la profezia del vecchio Simeone: “a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2, 35).

Anche nel cuore del discepolo si fece strada in quello stesso momento la coscienza di una filiazione vera e reale, che lo faceva diventare fratello di Gesù e figlio della sua stessa Madre. Per questo aggiunge: “e da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” (Gv 19, 27); vale a dire, la introdusse nello spazio della sua vita interiore, l’accolse, come vera Madre, tra i suoi beni più preziosi. Da quell’istante, e fino al momento della Dormizione della Vergine Santissima, Giovanni non si separò mai da Lei.


[1] AGP, Biblioteca, P03, 2017, p. 146.

[2] San Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani del Kazakistan, 23-IX-2001.