Meditazioni: Sabato della 22a settimana del Tempo Ordinario

Riflessioni per meditare nel sabato della ventiduesima settimana del Tempo Ordinario. I temi proposti sono: Ricordare il cuore della fede; Piacere a Dio e al prossimo; Figli, non schiavi.

Ricordare il cuore della fede

Piacere a Dio e al prossimo

Figli, non schiavi


GLI APOSTOLI non ce la fanno a sopportare la fame. Probabilmente sono diversi giorni che non mangiano quasi nulla. Quindi, appena si trovano a passare tra i campi di grano, raccolgono delle spighe, le sgranano con le mani e le mangiano. Il gesto in sé non sembra problematico, ma è sabato. E la legge dice che in quel giorno non si può mietere. Ecco perché alcuni farisei, osservando la trascuratezza di quei discepoli, chiedono spiegazioni: «Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?» (Lc 6,2). Non sono gli apostoli a rispondere, ma Gesù: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Come entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non sia lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?» (Lc 6,3-4).

Spesso il Signore è passato sopra ad alcune pratiche abituali del popolo ebraico. Certi scribi e farisei gli rinfacciavano che i suoi discepoli non si lavavano le mani prima di mangiare, per non parlare delle accuse sollevate dal fatto che compiva miracoli di sabato. Ma perché lo faceva? Per riportare la fede al centro della pratica religiosa, «ed evitare un rischio, che vale per quegli scribi come per noi: osservare formalità esterne mettendo in secondo piano il cuore della fede. Anche noi tante volte ci “trucchiamo” l’anima. (…) È il rischio di una religiosità dell’apparenza: apparire per bene fuori, trascurando di purificare il cuore. C’è sempre la tentazione di “sistemare Dio” con qualche devozione esteriore, ma Gesù non si accontenta di questo culto. Gesù non vuole esteriorità, vuole una fede che arrivi al cuore»[1].

Evidentemente questo non significa che le opere esterne siano senza importanza. Infatti, nella quotidianità del Signore sono presenti molte tradizioni di ogni ebreo della sua epoca: recita le preghiere abituali, va spesso in sinagoga, celebra le feste... Ma tutto questo non lo fa per il semplice desiderio di apparire, o come modo per guadagnarsi il rispetto di Dio Padre o degli altri, ma come espressione dell’amore che riempie il suo cuore. In tal modo, «ci ricorda che la vita cristiana è una “via” da percorrere, consistente non tanto in una legge da osservare, ma nella persona stessa di Cristo, da incontrare, da accogliere, da seguire»[2].

GESÙ non critica tanto lo zelo che alcuni scribi e farisei avevano per il rispetto della legge, quanto la loro mancanza di amore. Molti di loro dedicavano parecchio tempo alla preghiera e al digiuno, ma trascuravano i doveri più elementari di carità verso il prossimo. Così, non esitavano a criticare chi non seguiva i loro standard di vita, o si preoccupavano più di rispettare certi precetti che di gioire per la guarigione di una persona. In realtà, non c’è nulla di più assurdo che contrapporre l’osservanza della legge divina al desiderio di volere il bene degli altri. «Preferisco le virtù alle austerità, dice con altre parole Jahvè al popolo eletto, che s’inganna con certi formalismi esteriori.

— Per questo dobbiamo coltivare la penitenza e la mortificazione come vere manifestazioni di amore verso Dio e verso il prossimo»[3].

San Gregorio Magno notava che il digiuno è santo quando è accompagnato da altri atti di virtù, in particolare dalla generosità[4]. Nello stesso senso, san Josemaría incoraggiava a praticare «mortificazioni che non mortificano gli altri, che ci rendono più garbati, più comprensivi, più aperti con tutti». E aggiungeva: «non puoi considerarti mortificato se sei suscettibile, se soddisfi solo il tuo egoismo, se sopraffai gli altri, se non sai privarti del superfluo e, a volte, del necessario; se ti rattristi quando le cose non si realizzano secondo le tue previsioni. Sei invece mortificato se sai farti tutto a tutti, per guadagnare tutti»[5].

Ogni giorno ci offre molte opportunità di piacere a Dio cercando il bene delle persone che ci circondano: sorridere quando siamo stanchi, offrirci di svolgere un compito più difficile, perdonare i piccoli attriti della convivenza, condividere il nostro tempo con chi ne ha più bisogno... Con questi gesti stiamo adempiendo i principali comandamenti della legge: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27).

A VOLTE i formalismi possono dare una certa sensazione di sicurezza. In generale, tutti abbiamo bisogno di indicazioni precise per sapere se stiamo facendo bene qualcosa. Ma se applichiamo questo approccio alla vita cristiana, il rapporto con Dio può pian piano diventare simile a quello dei farisei, che Gesù ha denunciato: pieno di opere esterne buone, ma con un cuore che non entra in risonanza con quello che vive. Invece, quando osserviamo i comandamenti mettendo in gioco tutte le nostre facoltà – volontà, affetti e intelletto – scopriamo una gioia profonda e serena, perché gustiamo con i sensi spirituali l’amore di Dio in ogni suo precetto e in ogni circostanza della vita. Il prelato dell’Opus Dei afferma: «Sapere che l’Amore infinito di Dio si trova non soltanto all’origine della nostra esistenza, ma in ogni suo istante, perché Egli è più intimo a noi di noi stessi, ci colma di sicurezza»[6].

Fondare la lotta cristiana sulla filiazione divina ci riempie di ottimismo. Oggi si dice che le espressioni di affetto che un bambino riceve dai suoi genitori possono avere un’importanza decisiva per il suo futuro. Se fin da piccolo si sente amato e riconosciuto, da adulto avrà una base solida su cui costruire il resto delle relazioni. Ebbene, qualcosa di simile accade nel nostro rapporto con Dio. «Il fatto di sapere che abbiamo un Padre che ci ama infinitamente, ci consente di vivere una vita gioiosa e piena, ed illumina tutti gli aspetti della nostra esistenza nella prospettiva di quell’amore, fiducia e semplicità, anche in mezzo alle difficoltà o quando tocchiamo con mano i nostri difetti»[7]. La filiazione divina fornisce anche un’altra prospettiva al rispetto della legge: non siamo sudditi che cercano di compiacere un re, ma figli che ce la mettono tutta per piacere al loro padre... anche se non sempre ci riescono. Possiamo chiedere alla Vergine Maria di farci sentire sempre figli amati da Dio.

[1] Francesco, Angelus, 29-VIII-2021.

[2] Benedetto XVI, Udienza, 9-III-2011.

[3] San Josemaría, Solco, n. 992.

[4] Cfr. San Gregorio Magno, Regola Pastorale, 19, 10-11.

[5] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 9.

[6] Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 4.

[7] Mons. Fernando Ocáriz, Omelia, 26-VI-2024.