La luce della fede (XVI): ​Tra Dio e me? Liturgia e sacramenti

La centralità di Cristo nella nostra vita acquista il suo significato più completo e reale nella celebrazione liturgica, quando Dio si lascia “toccare” da noi e ci porta l’oggi della sua salvezza.

Noi cristiani crediamo e annunciamo Gesù Cristo, il Figlio di Dio che è morto e risuscitato per tutti e per ciascuno di noi, inserendosi nelle vicende della stirpe umana per trasformarle in una storia di salvezza. Non possiamo arrivare a Dio Padre se non diventiamo fratelli di Cristo mediante l’acqua e lo Spirito, se non seguiamo con il cuore i suoi gesti e la sua parola.

Sentendo profondamente questa realtà, Paolo VI, durante il viaggio più lungo del suo pontificato, davanti a una gran folla riunita a Manila, pronunciava parole che commuovono perché sono un elogio infiammato di Cristo, che sgorgava dal suo cuore: «Non finirei più di parlare di Lui; Egli è il Pane e la fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete; Egli è il Pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Per noi, Egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore ed i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli. Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra e per tutta la fila dei secoli»[1].

Il fatto che il nucleo del cristianesimo sia la persona viva di Gesù, il Crocifisso-Risorto, è per noi un invito a collegare la logica della nostra identità e della nostra vita con Cristo che muore e risuscita, e a renderci conto che l’intera nostra esistenza ha, giorno dopo giorno, un’impronta pasquale. Per comprendere questa profonda affermazione occorre prestare una particolare attenzione alla persona di Cristo nella sua intima relazione con il mistero liturgico.

“Toccare” Cristo nella liturgia

Una volta san Josemaría ricordò che « un vescovo molto santo, mio amico, in una delle sue frequenti visite alle catechesi della sua diocesi, domandò ai bambini perché, per amare Gesù, bisogna riceverlo spesso nella Comunione. Nessuno indovinava la risposta. Alla fine uno zingarello, sudicio e unto, rispose: “Perché per amarlo bisogna toccarlo!»[2]. Quel bambino aveva messo in evidenza, senza volerlo, una questione di fondo: il contatto con Cristo, ovvero, dove, quando e come un cristiano può avere una sua personale esperienza del Risorto. Infatti, per vivere come figli nel Figlio, oltre a sapere concettualmente chi è Gesù, è necessario “toccarlo”, ovvero, che ci sia la possibilità di stare con Lui in un modo reale. Ma, questo è possibile? Con quanto realismo?

“Esperienza” significa, qui, conoscere Cristo e sentirlo vivo. Ebbene, nella Chiesa, parlare di questa esperienza vuol dire parlare soprattutto della santa liturgia, come luogo privilegiato dove vivere la passione di ciò che è divino, cosa che per i cristiani non è opzionale né irrilevante, perché per essere contemplativi in mezzo al mondo occorre crescere al calore della Parola di Dio e della liturgia.

Sperimentare l’oggi della salvezza

È allora possibile “toccare”, oggi, Cristo dopo la sua ascensione al cielo? Per dare una risposta a tale quesito può essere di aiuto la contemplazione di un passo del libro dell’Esodo in cui si descrive il desiderio di Mosè di avere una esperienza più intima di Dio: «Mosè esclamò: mostrami la tua gloria. E il Signore rispose: Farò passare davanti a te tutto il mio splendore [...], là tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Essendo Dio infinito, appare impossibile per l’uomo abbracciare la sua eccellenza; ciò nonostante il Signore aggiunge: «Quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe, e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle» (Es 33, 18-23). Partecipare alle azioni sacre della Chiesa potrebbe paragonarsi a questa cavità della rupe dalla quale contemplare le sacre specie, che, pur non essendo le spalle di Dio, sono il sacramento del suo vero Corpo e del suo vero Sangue.

Un altro testo che descrive un’esperienza significativa è il passo dell’emorroissa. Quella donna tocca con fede l’orlo del mantello di Cristo e la forza del Signore la guarisce dalla sua malattia che si prolungava da tempo. Sorprende il fatto che la lamina a stampa che il Catechismo della Chiesa Cattolica sceglie per iniziare l’esposizione intorno alla liturgia e ai sacramenti sia la più antica rappresentazione del passo della emorroissa esistente nelle catacombe di san Marcellino e san Pietro. Per quale motivo è stata scelta questa immagine? Il motivo è che i sacramenti della Chiesa continuano oggi l’opera di salvezza compiuta da Cristo durante la sua vita terrena. I sacramenti sono come forze che escono dal Corpo di Cristo per darci la vita nuova di Cristo[3]. Questo insegnava sant’Ambrogio in termini più vivi e realistici: «O Cristo, che trovo vivo nei tuoi sacramenti»[4]. I termini chiave di questa frase sono “vivo” e “sacramenti”. Il primo si riferisce all’apparizione del Risorto, alla sua presenza reale; il secondo riguarda le celebrazioni liturgiche. Ambrogio collega le due realtà con il verbo trovare. Nelle celebrazioni avviene l’incontro fra Cristo e la Chiesa. Per questo è possibile sperimentare, direttamente, lo stesso potere divino del Figlio di Dio, il quale, superando la distanza geografica e temporale, salva l’uomo interamente, quando la Chiesa celebra la liturgia di ognuno dei sacramenti.

Nei sacramenti ciò che vediamo materialmente è acqua, pane, vino, olio, la luce, la croce...; osserviamo alcuni gesti e ascoltiamo alcune parole. Sono gesti e parole che Gesù, nel prendere la nostra natura, incarnandosi, adottò per farsi presente attraverso di essi al fine di continuare a guarire, perdonare o insegnare[5]. Si tratta di una logica che facciamo fatica a comprendere, come faceva fatica Filippo, ed è per questo che il Signore è costretto ad aiutarlo a comprendere con un’affettuosa ammonizione: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 9). Questo non è una cosa decisa da Cristo, ma è dovuta al fatto che Cristo è. Che Egli sia il grande Sacramento non è dovuto alla sua volontà, ma al suo essere, alla sua ontologia. Di conseguenza, la Chiesa è sacramento di Cristo e i sacramenti sono sacramenti della Chiesa. È stato detto pedagogicamente – con i limiti di un esempio – che, quando si tratta di raggiungere un oggetto, il capo (Cristo) invia un ordine al braccio (la Chiesa) perché le dita (i sacramenti) lo prendano. I sacramenti sono l’organismo sacramentale della Chiesa.

Un contatto sacramentale

Con la seconda domanda ci si chiedeva che tipo di contatto è quello che si stabilisce tra Cristo e noi. Nella fede della Chiesa questo contatto si chiama misterico o sacramentale, il che vuol dire che avviene in un sistema di segni e simboli.

La comunicazione a noi del mistero di Cristo avviene attraverso mediazioni simboliche , che sono i riti del culto cristiano: la celebrazione del battesimo, dell’Eucaristia, del matrimonio... Tutto ha un significato nell’universo simbolico della liturgia, ogni cosa manifesta la fede. I sacramenti si chiamano sacramenti della fede.

La liturgia è una sottile membrana che mette in relazione il mistero di Dio con il mistero dell’uomo. Questa membrana è una membrana di simboli. Lo spazio di una cattedrale, di un santuario o di un oratorio; il tempo dell’aurora o del tramonto, del Natale o della Quaresima; i testi della Bibbia e le preghiere del Messale; i gesti di adorare in ginocchio o di ricevere la cenere; la comunità riunita intorno all’altare; i canti e le acclamazioni, le luci e i colori, i profumi e i sapori..., tutti questi – e altri ancora – sono i simboli cristiani nella cui celebrazione si riflette l’insondabile trascendenza di Dio, il potere del suo amore salvifico. Questi simboli sono in un certo senso delle fenditure attraverso le quali l’Eterno illumina la nostra quotidianità sino a farci diventare uomini e donne degni di «servirlo alla sua presenza»[6]. Per mezzo di essi Dio ci permette di pregustare la liturgia della Gerusalemme del cielo. Parteciparvi definitivamente sarà un giorno la consumazione definitiva della nostra vocazione battesimale.

La connaturalità con i simboli della liturgia è patrimonio dei cristiani. Come una madre non coccola suo figlio esclusivamente mediante l’uso di parole, ma anche per mezzo di una ricca gamma di codici materni di comunicazione, così anche la celebrazione liturgica invita il cristiano a partecipare all’azione sacra con tutte le possibilità della sua sensibilità, con l’anima e con il corpo, con tutti i suoi sensi: acclama la Parola di Dio, venera il santissimo Sacramento, canta gli inni con i quali gli Angeli lodano Dio, offre incenso, si compiace del pane e del vino consacrati, osserva il silenzio... In tal modo, i segni del mistero di Cristo ci portano direttamente al mistero di Cristo e allora tutto il carico di verità che ha questo mistero lo percepiamo nei coinvolgenti riti che lo celebrano.

Oltre alla connaturalità, l’apprezzamento. Apprezziamo gli umili veli dietro i quali il Risorto manifesta e nasconde la sua presenza. In tal senso, sant’Agostino confessava: «Non ero così umile da riuscire ad avere in me l’umile mio Dio Gesù, né capivo che cosa volesse insegnarmi il suo essersi fatto debole»[7].

Il realismo sacramentale

All’inizio ci domandavamo anche: con quanto realismo? Dobbiamo anche accennare al realismo sacramentale, se vogliamo rispondere alla domanda: fino a che punto questo sfioramento, questo contatto con Cristo sia veritiero. Realismo sacramentale vuol dire che, partecipando alla liturgia, riceviamo l’identica realtà divina attraverso i segni della Chiesa. I segni e i simboli liturgici sono colmati da questa realtà, soprattutto nell’Eucaristia. Dire che il contatto tra Cristo e la Chiesa è sacramentale in nulla riduce la precisa realtà di questo contatto.

Il sostantivo contatto è un termine che troviamo nelle antiche fonti liturgiche: «O Dio, che nella partecipazione al tuo sacramento arrivi fino a noi (contingis)», vale a dire, entri in contatto con noi, ti avvicini fino a raggiungerci[8]. Dio entra in contatto con noi e noi entriamo in contatto con Dio mediante la partecipazione al mistero celebrato. Contatti fisici con il Signore li hanno avuti san Tommaso, l’emorroissa e i lebbrosi; questi contatti per ora sono solamente sacramentali. Non si tratta di immaginare il passato come qualcosa che ora è presente soltanto per la fede dei credenti. La liturgia non dice: questo simbolizza, immagina..., ma afferma: questo è. Non è un semplice enunciato, è una notizia! È un accadimento reale.

I Padri della Chiesa hanno sottolineato questo realismo del mistero sacramentale e lo hanno mostrato per mezzo di espressioni, come nel caso di Papa san Leone Magno, il quale, commentando gli effetti del battesimo su chi lo riceve, afferma: «il corpo del battezzato è carne del Crocifisso»[9]. Frutto del penetrante realismo sacramentale, che è latente in questa espressione, è l’apertura immediata di un grande orizzonte nella comprensione di chi è un cristiano: una identità che abbraccia dimensioni che si estendono dal valore sacro del suo corpo fino alla speranza di gloria con la quale sarà rivestito; dalla sua condizione di una corporeità uguale a quella di Cristo fino alla santità delle relazioni sponsali (cfr. Ef 3, 6). Sono valori inaspettati che, sgorgando dalla fonte inesauribile che la Chiesa offre nei suoi sacramenti, esaltano al massimo la condizione umana del battezzato.

D’altra parte, nell’anelito di narrare il mistero, i linguaggi non si escludono, ma si completano reciprocamente, e perciò la liturgia sa intuire quando è il momento della parola, quando quello del canto o del silenzio, quando è il momento del gesto o quando quello dell’adorazione; ma è sempre il momento dell’arte, perché, essendo Dio l’eterna Bellezza, il suo aspetto sacramentale – la liturgia – si costituisce in arte delle arti. In essa la verità e il bene si mostrano avvolti nella bellezza; ecco perché il decoro e il buon gusto finiscono sempre con l’essere gli elementi strutturanti dell’azione sacra. L’esperienza di Dio fluisce attraverso questa via pulchritudinis, che è la celebrazione, ognuna delle quali è un evento di alto livello estetico.

Affinché il condono che operano i riti di grande significato sia evidente, sono necessarie celebrazioni che diffondano verità e semplicità, autenticità e dignità. La celebrazione avviene nella solennità di un insieme semplice. Tutto ciò che in essa interviene non può essere prosaico, né fastoso, ma nitido, nobile e di buon gusto. Sono le qualità del decoro con il quale la Sposa dedica il suo umile omaggio allo Sposo, il suo apprezzamento a ciò che celebra: l’amore salvifico traboccante della santa Trinità.

Felix María Arocena


[1] San Paolo VI, Omelia pronunciata a Manila durante un viaggio pastorale, 29-XI-1970.

[2] San Josemaría, Appunti di una meditazione, 12-IV-1937, in “Crescere al di dentro”, p. 50 (AGP, Biblioteca, P12). Il prelato citato era mons. Manuel González, vescovo di Malaga, canonizzato nel 2016.

[3]Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1066.

[4] Sant’Ambrogio, Apologia prophetæ David 1, 2.

[5] San Josemaría ricordava l’insegnamento dei Padri quando dicevano che i sacramenti sono “impronte dell’incarnazione del Verbo” (cfr. San Josemaría, Amare il mondo appassionatamente).

[6]Messale Romano, Preghiera eucaristica II.

[7] Sant’Agostino, Le confessioni 7, 18.

[8] Cfr. Sacramentario Veronense 1256. Il verbo latino contingo è un composto di tango (cum-tango), che significa toccare; contingere rimanda a “con-tattare”.

[9] San Leone Magno, Sermo 70, 4: “corpus regenerati fit caro Crucifixi”.