Rendimi la gioia di essere salvato

Per poter dare misericordia, abbiamo bisogno di riceverla da Dio: dobbiamo mostrargli le nostre ferite, lasciarci curare, lasciarci amare. In un mondo «che troppe volte è duro con il peccatore e molle con il peccato», il salmo miserere – abbi misericordia di me – è la grande preghiera del perdono che libera l’anima e ci restituisce la gioia di abitare nella casa del Padre.

Miserere mei, Deus, secundum misericordiam tuam - «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia» (Sal 50 [51], 3). Da tre millenni il salmomiserere alimenta l’orazione di ogni generazione del Popolo di Dio. Nelle Lodi della Liturgia delle ore è inserito tutte le settimane, il venerdì. San Josemaría e i suoi successori alla guida dell’Opus Dei lo recitano ogni sera prostrati per terra[i], esprimendo con il corpo il significato delle parole che compongono questo «Magnificat della misericordia», come lo ha definito recentemente il Papa: « il Magnificat di un cuore contrito e umiliato che, nel suo peccato, ha la grandezza di confessare il Dio fedele, che è più grande del peccato»[ii].

Il salmo miserere ci immerge nella «più profonda meditazione sulla colpa e la grazia»[iii]. La tradizione di Israele lo pone sulle labbra di Davide, quando il profeta Nathan lo rimproverò, da parte di Dio, per l’adulterio con Betsabea e l’assassinio di Uria[iv]. Il profeta non rinfacciò direttamente al re il suo peccato: si servì di una parabola[v], perché fosse lo stesso Davide a riconoscerlo. Peccavi Domino, «Ho peccato contro il Signore» (2 Sam 12, 13): il miserere – abbi misericordia di me – che esce dal cuore di Davide è anche l’espressione della sua desolazione interiore e la consapevolezza del dolore che ha seminato attorno a sé. La percezione della portata del proprio peccato – Dio, gli altri, se stesso – lo porta a cercare rifugio e rimedio nel Signore, l’unico che può sistemare le cose: «davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3, 19-20).

Perché non sanno quello che fanno

Del peccato vediamo soprattutto, in un primo momento, la liberazione che sembra promettere: emanciparsi da Dio per essere veramente noi stessi. Ma l’apparente liberazione – illusione – si trasforma ben presto in un peso insopportabile. L’uomo forte e autonomo, che credeva di poter mettere a tacere la propria coscienza, arriva prima o poi a un momento in cui si arrende: l’anima non ne può più; «non le bastano le spiegazioni abituali, non la soddisfano più le menzogne dei falsi profeti»[vi]. È l’inizio della conversione, o di una delle «conversioni successive» della nostra vita, che sono «ancora più importanti e difficili»[vii].

Il processo non è sempre così rapido come nella storia del re Davide. La cecità che precede e accompagna il peccato, e che cresce con il peccato stesso, può prolungarsi ancora; ci inganniamo con giustificazioni, diciamo a noi stessi che la cosa non è così importante… È una situazione nella quale spesso anche noi ci imbattiamo attorno a noi, «in un mondo che troppe volte è duro con il peccatore e molle con il peccato»[viii]: duro con il peccatore perché nella sua condotta si percepisce chiaramente quanto sia corrosivo il peccato; ma molle con il peccato, perché riconoscerlo come tale significherebbe proibire a se stesso certe «libertà». Tutti siamo esposti a questo rischio: vedere negli altri quanto sia brutto il peccato, ma non condannare il peccato in noi stessi. Allora, non soltanto manchiamo di misericordia: diventiamo anche incapaci di riceverla.

Lasciarsi offuscare dal peccato e dalla tiepidezza sa di auto-inganno, di cecità voluta – vogliamo non vedere, facciamo finta di non vedere ­– , e perciò richiede il perdono di Dio. Gesù vede così il peccato quando dice dalla Croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Perderemmo la profondità di questa parola del Signore se la considerassimo semplicemente un’amabile giustificazione, che nasconde il peccato. Quando ci allontaniamo da Dio, sappiamo o non sappiamo quello che facciamo? Ci rendiamo conto che non ci comportiamo bene, ma dimentichiamo che così non andiamo da nessuna parte. Il Signore si impietosisce di entrambe le cose e anche della profonda tristezza nella quale sprofondiamo successivamente. San Pietro sapeva o non sapeva ciò che faceva, mentre rinnegava l’Amico? Poi «pianse amaramente» (Mt 26, 75) e le lacrime gli restituirono uno sguardo più limpido e più lucido.

«La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente»[ix]. La sua parola di perdono dalla Croce - «non sanno quello che fanno» - lascia intravedere il suo progetto misericordioso: possiamo tornare alla casa del Padre. Anche per questo dalla Croce ci affida alla protezione di sua Madre.

La nostalgia della casa del Padre

«La vita umana, in un certo modo, è un continuo ritorno alla casa del Padre»[x]. La conversione, e le conversioni, cominciano e ricominciano con la costatazione che siamo rimasti in qualche modo senza casa. Il figlio prodigo sente la «nostalgia del pane appena sfornato che i domestici a casa, a casa di suo padre, mangiano per colazione. La nostalgia è un sentimento potente. Ha a che fare con la misericordia perché ci allarga l’anima […]. In questo ampio orizzonte della nostalgia, questo giovane – dice il Vangelo – rientrò in sé stesso e si sentì miserabile. E ognuno di noi può cercare o lasciarsi portare a quel punto dove si sente più miserabile. Ognuno di noi ha il suo segreto di miseria dentro… Bisogna chiedere la grazia di trovarlo»[xi].

Fuori dalla casa del padre – riflette il figlio prodigo – egli si trova in realtà fuori dalla sua stessa casa. La riscopre: il luogo che gli appariva come un ostacolo per la sua realizzazione personale, si rivela come il focolare che non avrebbe mai dovuto abbandonare. Anche coloro che stanno nella casa del padre possono stare con il cuore altrove. Questo succede al fratello maggiore della parabola: pur non essendo andato via, il suo cuore era lontano. Anche per lui sono valide le parole del profeta Isaia alle quali Gesù si riferiva nella sua predicazione: «Questo popolo […] mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13)[xii]. Il fratello maggiore «non dice mai “padre”, non dice mai “fratello”, pensa soltanto a sé stesso, si vanta di essere rimasto sempre accanto al padre e di averlo servito […]. Povero padre! Un figlio se n’era andato, e l’altro non gli è mai stato davvero vicino! La sofferenza del padre è come la sofferenza di Dio, la sofferenza di Gesù quando noi ci allontaniamo o perché andiamo lontano o perché siamo vicini ma senza essere vicini»[xiii]. Vi saranno momenti della nostra vita nei quali, anche se non ci siamo allontanati come il figlio minore, sentiremo più fortemente fino a che punto siamo come il figlio maggiore. Sono momenti nei quali Dio ci dà più luce: ci vuole più vicini al suo cuore. Sono i momenti di una nuova conversione.

Nella conversazione tra il fratello maggiore e il padre[xiv] salta agli occhi, a fronte della tenerezza del cuore del padre, la durezza di cuore del figlio: la sua risposta amara lascia indovinare che aveva perduto la gioia di stare nella casa di suo padre. Proprio per questo aveva perduto la capacità di rallegrarsi con lui e con il fratello. Per l’uno e per l’altro aveva soltanto rimproveri: vedeva soltanto i loro errori. «Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi, non vi è più spazio per gli altri […], non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita più l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente»[xv].

Anche il padre resta sorpreso da questa durezza, e tenta di ammorbidire il cuore di quel figlio che, pur essendo rimasto con lui, ambiva – magari senza esserne perfettamente cosciente – l’egoismo sventato del fratello piccolo; il suo era un egoismo più «ragionevole», più sottile, e forse più pericoloso. Il padre cerca di dargli qualche spiegazione: «bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (Lc 15, 32). Con fortezza di padre e tenerezza di madre, lo rimprovera, come per dirgli: Figlio mio, dovresti rallegrarti: che cosa ti succede nel cuore? «Anche lui ha bisogno di scoprire la misericordia del padre»[xvi]: ha bisogno di scoprire quella nostalgia della casa del Padre, quel dolore soave che ci fa ritornare.

Rendimi la gioia di essere salvato

Tibi, tibi soli peccavi et malum coram te feci. - «contro di Te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto» (Sal 50[51], 6). Lo Spirito Santo, che «convincerà il mondo quanto al peccato»[xvii], è colui che ci fa vedere che questa nostalgia, questo malessere, non è dovuto soltanto a uno squilibrio interiore, ma ha un’origine più profonda in una relazione ferita: ci siamo allontanati da Dio, lo abbiamo lasciato solo, e siamo rimasti soli. «In multa defluximus»[xviii], scrive sant’Agostino: quando ci allontaniamo da Dio, ci disperdiamo in molte cose, e la nostra casa rimane deserta[xix]. È lo Spirito Santo che ci induce a ritornare a Dio, l’unico che può perdonare i peccati[xx]. Come aleggiava sulle acque all’inizio della creazione[xxi], così aleggia ora sulle anime. Egli ha mosso la donna peccatrice ad avvicinarsi a Gesù, senza parlare; e la misericordia di Dio l’ha accolta senza che i commensali capissero il perché delle lacrime, del profumo, dei capelli[xxii]: Gesù, raggiante, dice di lei che le era stato perdonato molto perché molto aveva amato[xxiii].

La nostalgia della casa del Padre è nostalgia di vicinanza, di misericordia divina; è necessità di rimettere «il cuore in carne viva, umanamente e sopranaturalmente pervaso da un amore forte, abnegato, generoso»[xxiv]. Se, come il figlio minore, ci avviciniamo al grembo del Padre, a quel punto comprenderemo che la medicina per le nostre ferite è Lui stesso, Dio stesso. Entra allora in scena un «terzo figlio»: Gesù che ci lava i piedi, Gesù che si è fatto servo per noi. «È quello che “pur essendo di natura divina, non ritenne un privilegio l’essere come [il Padre], ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6-7). Questo Figlio-Servo è Gesù! È l’estensione delle braccia e del cuore del Padre: Egli ha accolto il prodigo e ha lavato i suoi piedi sporchi; Lui ha preparato il banchetto per la festa del perdono»[xxv].

Cor mundum crea in me, Deus - «Crea in me, o Dio, un cuore puro» (Sal 50 [51], 12). Il Salmo ritorna ancora una volta sulla purezza del cuore[xxvi]. Non è una questione di narcisismo o di scrupolo, perché «il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia»[xxvii]. È una questione di amore: il peccatore pentito è disposto a fare il necessario per guarire il proprio cuore, per riacquistare la gioia di vivere con Dio. Redde mihi laetitiam salutaris tui - «rendimi la gioia di essere salvato» (Sal 50 [51], 14): quando le cose si vedono in questo modo, la confessione non è un qualcosa di freddo, come una sorta di tramite amministrativo. «Può farci bene domandarci: dopo essermi confessato, festeggio? O passo rapidamente a un’altra cosa, come quando, dopo essere andati dal medico, vediamo che le analisi non sono andate tanto male e le rimettiamo nella busta e passiamo a un’altra cosa»[xxviii].

Chi festeggia, apprezza: è grato del perdono. E considera allora la penitenza come qualcosa che va oltre una semplice pratica per ristabilire la giustizia: la penitenza è una esigenza del cuore, che sente la necessità di avallare le sue parole – perché, Signore, perché – con la vita. Per questo san Josemaría consigliava a tutti di avere «spirito di penitenza»[xxix]. «Un cuore affranto e umiliato» (Sal 50 [51], 19) comprende che è necessario un percorso di ritorno, di riconciliazione, che non si fa dalla sera alla mattina. Dato che è l’amore a doversi ripristinare, per acquisire una nuova maturità, il rimedio è l’amore stesso: «amore con amor si paga»[xxx]. La penitenza, dunque, è l’affetto che porta a voler soffrire – sereni, senza darci importanza, senza «cose strane»[xxxi] – per tutto quello che abbiamo fatto soffrire a Dio e agli altri. Questo è il senso di uno dei modi che il Rituale propone al sacerdote per congedarsi dal penitente dopo l’assoluzione; il confessore ci dice: «il bene che farai e il male che dovrai sopportare ti giovino per il perdono dei peccati»[xxxii]. Inoltre, «è ben poco una vita per riparare!»[xxxiii]. La vita intera è gioiosa contrizione: con un dolore fiducioso – senza angosce, senza scrupoli – perché cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies (Sal 50 [51], 19) - «un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi».

Carlos Ayxelá

Foto: Santiago González Barros


[i] Cfr. A. Vázquez de Prada, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. III, Leonardo, Milano 2004, p. 385.

[ii] Papa Francesco, 1ª meditazione nel Giubileo dei sacerdoti, 2-VI-2016.

[iii] San Giovanni Paolo II, Udienza, 24-X-2001.

[iv] Cfr. 2 Sam 11, 2 ss.

[v] Cfr. 2 Sam 12, 2-4.

[vi] San Josemaría, Amici di Dio, n. 260.

[vii] San Josemaría, È Gesù che passa, 57.

[viii] Papa Francesco, Omelia, 24-XII-2015.

[ix] Card. Joseph Ratzinger, Omelia, Missa pro eligendo pontifice, 18-IV-2005.

[x] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 64.

[xi] Papa Francesco, 1ª meditazione nel Giubileo dei sacerdoti, 2-VI-2016.

[xii] Cfr. Mt 15, 8.

[xiii] Papa Francesco, Udienza, 11-V-2016.

[xiv] Cfr. Lc 15, 28-32.

[xv] Papa Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium (24-XI-2013), 2.

[xvi] Papa Francesco, Udienza, 11-V-2016.

[xvii] Cfr. Gv 16, 8. Così san Giovanni Paolo II traduce queste parole della preghiera sacerdotale di Gesù, sulle quali ha meditato profondamente nell’enciclica Dominum et vivificantem (18-V-1986), nn. 27-48.

[xviii] Sant’Agostino, Confessioni, X.29.40.

[xix] Cfr. Mt 23, 38.

[xx] Cfr. Lc 7, 48.

[xxi] Cfr. Gn 1, 2.

[xxii] Cfr. Lc 7, 36-50.

[xxiii] Cfr. Lc 7, 47.

[xxiv] San Josemaría, Amici di Dio, n. 232.

[xxv] Papa Francesco, Angelus, 6-III-2016.

[xxvi] Cfr. Sal 50 [51], 4, 9, 11, 12, 19.

[xxvii] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 75.

[xxviii] Papa Francesco, Omelia, 24-III-2016.

[xxix] Cfr. San Josemaría, Forgia, n. 784; Amici di Dio, nn. 138-140, intorno allo spirito di penitenza e le sue diverse manifestazioni.

[xxx] San Josemaría, Forgia, n. 442.

[xxxi] San Josemaría, Forgia, n. 60.

[xxxii] Rituale della Penitenza, n. 104.

[xxxiii] San Josemaría, Via Crucis, VIII stazione.