«Possiamo “toccare” Gesù vivo in tutte le occasioni della vita quotidiana»

Intervista di Teresa Gutiérrez de Cabiedes a mons. Fernando Ocáriz, pubblicata il 14 settembre sul settimanale spagnolo «Alfa y Omega».

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Ha la tendenza a incrociare le braccia, e allora gli si apre un sorriso dal quale sgorgano parole timide ma cosparse di un certo senso dell’humour. A 72 anni è in grado di eseguire un bel rovescio tennistico. La sua sobrietà d’espressione è compensata da uno sguardo affabile e profondo.
Nella storia recente della Spagna l’Opus Dei ha lasciato tracce profonde; non soltanto per l’origine aragonese di un fondatore che ha diffuso un carisma divino nei cinque continenti. Particolarmente importante appare la sua presenza nell’ambito educativo pubblico e soprattutto nella vita quotidiana di migliaia di persone. Ci sembra stimolante interrogare a fondo colui che è il protagonista di una nuova tappa.
Trascorsi abbondantemente i primi cento giorni dalla sua elezione come prelato dell’Opera, non so se farle le congratulazioni o compiangerla per il peso che le è caduto sulle spalle. Come vive l’essere il padre spirituale di migliaia di persone di ogni parte del mondo?
So bene che ricade su di me una grande responsabilità, ma sono tranquillo. Mi aiuta soprattutto sapere che Dio, quando conferisce un incarico, dà anche la grazia necessaria per compierlo.
Inoltre mi conforta la vicinanza e l’affetto che mi ha dimostrato in modo tangibile il Santo Padre, al momento della mia nomina e dopo, quando ho avuto occasione di vederlo. Mi sento sostenuto anche dalla preghiera e dall’affetto di molti. Mi viene in mente una lettera che ho ricevuto da parte di un giovane che, ammalato e in ospedale, mi assicurava che stava offrendo per me le sue sofferenze; oltre che dalle preghiere di tanti membri dell’Opus Dei e di altre persone. Così mi spiego la serenità che provo in questi mesi.

mi conforta la vicinanza e l’affetto che mi ha dimostrato in modo tangibile il Santo Padre, al momento della mia nomina e dopo, quando ho avuto occasione di vederlo

Recentemente ha fatto il suo primo viaggio pastorale in Spagna per visitare i fedeli e gli amici dell’Opus Dei. Quali messaggi voleva trasmettere nei tanti incontri che ha avuto?
In questo viaggio in Spagna ho voluto ricordare soprattutto che, come cristiani, dobbiamo mettere Cristo al centro della nostra vita. Come sottolineava Benedetto XVI in una frase della sua prima enciclica (che Papa Francesco cita con piacere), e cioè il cristiano non aderisce a un’idea, né semplicemente a una dottrina, ma segue e ama una persona: Cristo.
Su questo ho voluto insistere in questo viaggio, mettendo l’accento sullo spirito proprio dell’Opus Dei, vale a dire, sul fatto che dobbiamo portare la carità di Cristo nella vita ordinaria, nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti con gli amici.

In questo viaggio in Spagna ho voluto ricordare soprattutto che, come cristiani, dobbiamo mettere Cristo al centro della nostra vita

In Spagna l’Opus Dei ha dato grandi frutti spirituali e sociali; però suscita anche dispute. Molti hanno trovato la fede grazie a questo carisma e sono felici. Esistono anche, invece, numerose persone che raccontano (anche pubblicamente) che il loro incontro con l’Opera ha comportato ferite profonde. Potrebbe darsi che qualcosa non sia stata fatta bene?
Nei 22 anni che ho lavorato accanto a lui, ho sentito don Javier chiedere perdono alle persone che si sono sentite ferite dal comportamento di alcuni suoi figli. Io mi unisco a questa richiesta di perdono e mi auguro con tutta l’anima che queste persone rimarginino le loro ferite e superino il loro dolore.
San Josemaría era solito dire che aveva un grande affetto verso tutte le persone che si avvicinavano alle attività formative dell’Opus Dei, fosse pure per un breve periodo. S’immagini l’affetto che conservava per le persone che erano arrivate a far parte dell’Opera. Egli sentiva una profonda paternità spirituale: non si smette mai di amare un figlio o un fratello.
È il caso di considerare due piani diversi. Da una parte, il messaggio dell’Opus Dei rappresenta un cammino aperto per seguire Cristo. Dall’altra, le attività che svolgono le persone e i centri dell’Opera, sulle quali, naturalmente, influiscono le circostanze e i modi di essere. Sicuramente, tra un così grande numero di persone e di attività – con buona intenzione – saranno stati fatti errori, omissioni, negligenze o malintesi. A me piacerebbe chiedere perdono per ognuno di essi.

Nei 22 anni che ho lavorato accanto a lui, ho sentito don Javier chiedere perdono alle persone che si sono sentite ferite dal comportamento di alcuni suoi figli

Lei parla di perdono. Una delle consapevolezze della fede cattolica è sapere che la misericordia di Dio ci accoglie malgrado le nostre mancanze; anche quando questi errori macchiano il suo nome. Forse uno dei momenti più felici della nostra storia è stato quando Giovanni Paolo II chiese perdono in nome dei figli della Chiesa universale.
Penso che non dobbiamo separare la richiesta del perdono dalla lode a Dio, propria della riconoscenza, per la straordinaria quantità di doni che continuamente riversa nella sua misericordia e che ci arrivano attraverso la mediazione umana, che così diventa strumento dell’azione divina.
San Giovanni Paolo II, durante la sua vita, ci ha dato un grande esempio di queste due dimensioni, che debbono essere sempre presenti quando contempliamo la magnificenza di Dio e la debolezza degli uomini. Così accadde in quella giornata del Perdono, che indisse durante il Grande Giubileo del 2000. E Benedetto XVI ha affermato che il perdono è l’unica forza che può vincere il male e può cambiare il mondo. Prima di ogni altra cosa, dobbiamo chiedere perdono a Dio. Del resto penso che dobbiamo inserire nella nostra vita, in modo abituale, la richiesta di perdono e il perdonare. Lo ripetiamo tutti i giorni quando recitiamo il Padre nostro, ma poi assai spesso lo dimentichiamo nella vita pratica.

perdonare e chiedere perdono sono atteggiamenti cristiani che non umiliano ma nobilitano

È vero che dobbiamo rispettare la verità, che non possiamo chiedere perdono accusando indirettamente e ingiustamente altre persone con un meaculpismo superficiale. Comunque, perdonare e chiedere perdono sono atteggiamenti cristiani che non umiliano ma nobilitano.

La cristianità occidentale attraversa un preoccupante inverno vocazionale. Contemporaneamente esistono nella Chiesa germogli primaverili: frutti di ottimismo in quelle comunità che hanno maturato una rinnovata pedagogia della fede. Lo Spirito ha dato un impulso per cui un’ascetica eminentemente volontaristica si è evoluta verso un approfondimento nella gratuità dell’amore di un Dio che va incontro, che non vuole che lo conquistiamo con i nostri meriti, che ha bisogno della nostra povertà per mostrare la sua misericordia. Come si vive e si annuncia, oggi, nell’Opus Dei, questa relazione con Dio?
Il fondamento dello spirito dell’Opus Dei è la viva coscienza della nostra filiazione divina. San Josemaría ha scritto in Cammino: «Dio è un Padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamalo Padre molte volte al giorno, e digli – da solo, nel tuo cuore – che lo ami, che lo adori: che senti l’orgoglio e la forza di essere figlio suo». L’annuncio della relazione con Dio nell’Opus Dei ha questo approccio. Come scrive san Giovanni: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente!».
In questo nostro mondo, spesso prigioniero della cultura del lamento, assaporare così l’amore di un Padre è di estrema importanza per vivere con speranza.

Il fondamento dello spirito dell'Opus dei è la viva consapevolezza della filiazione divina

Dobbiamo tenere sempre ben presente, e specialmente in questi momenti, tale meravigliosa realtà, che aiuta a superare i pessimismi che ci assalgono nel constatare i problemi della vita, la consapevolezza dei propri difetti, le difficoltà della evangelizzazione e anche la situazione del mondo.
La nostra vita non è un romanzo rosa, ma un poema epico. Saperci figli di Dio ci aiuta a vivere con fiducia, gratitudine e gioia; ci invita ad amare questo nostro mondo, con tutti i suoi problemi e con tutta la sua bellezza. La pace del mondo dipende più dal contributo che ciascuno di noi può dare, nella vita ordinaria (sorridendo, perdonando, evitando di darsi importanza), anziché dai grandi accordi fra gli Stati, per quanto necessari e importanti essi siano.

La pace del mondo dipende più dal contributo che ciascuno di noi può dare, nella vita ordinaria (sorridendo, perdonando, evitando di darsi importanza), anziché dai grandi accordi fra gli Stati

Fin dalla sua prima lettera pastorale da prelato, lei insiste molto sulla centralità di Gesù Cristo. Perché il cristianesimo non diventi una ideologia, o un rituale pieno di buone intenzioni, abbiamo bisogno di sperimentare e di rivivere continuamente un incontro personale con l’amore di Dio. Come conseguenza, nella Chiesa germoglia la vita cristiana e sovrabbonda la grazia. Come pensa l’Opus Dei di proclamare oggi questo annuncio, che è la buona e inesauribile notizia?
Soprattutto mediante la sincera amicizia: da persona a persona, che arricchisce sempre reciprocamente. Per una evangelizzazione appare essenziale il valore della testimonianza e della condivisione della propria esperienza di vita: è molto più efficace dei discorsi teorici.
Logicamente, questo non esclude la multiforme iniziativa personale che dà origine anche ad attività di evangelizzazione molto diverse (attività di insegnamento, di assistenza, ecc.), di alcune delle quali la Prelatura si assume la responsabilità dell’orientamento cristiano e della cura ministeriale con i suoi sacerdoti.

per l'evangelizzazione appare essenziale il valore della testimonianza e della condivisione della propria esperienza di vita

L’Opus Dei è nato nella Chiesa con un carattere profetico. Tuttavia, la morte del fondatore coincise con i primi anni dello tsunami post-conciliare. Sembra logico che l’Opera si aggrappi alle fondamenta. Potrebbe darsi che sia rimasta qualche voglia di trincerarsi? In tanta confusione, in tanto caos, come ha resistito (e resiste) la barca di Pietro?
La fedeltà a Dio è una dimensione che ha illuminato sempre la storia nel corso dei venti secoli di cristianesimo. La fedeltà alla fede cristiana, che è fedeltà a Cristo, si è dimostrata sempre dinamica, innovatrice e trasformatrice. Penso che effettivamente, dopo il Vaticano II, vedendo le conseguenze della «ermeneutica della rottura» (come la denominò Benedetto XVI in un famoso discorso), si sia prospettata la tentazione di quel chiudersi in trincea di cui lei parla.
In ogni caso sono reazioni congiunturali che è necessario superare – tanto la rottura che il trincerarsi –. Sono la conseguenza dell’aver ceduto a una mentalità dialettica, politica, che è estranea alla Chiesa, perché divide e incrina la comunione. Nella Chiesa non ci sono, non devono esserci, fazioni né partiti, ma unità all’interno di un legittimo pluralismo.

Nella Chiesa non ci sono, non devono esserci, fazioni né partiti, ma unità all’interno di un legittimo pluralismo

Il relativismo è causa di rovine nella nostra società disorientata. L’Opera è nota per la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa. Questo costituisce una benedizione in tempi convulsi. Ribadire la dottrina in mezzo alla tormenta apporta sicurezza; d’altra parte, tutto questo può condurre all’anelito di tenere ogni cosa in perfetto ordine. Come armonizzare la fedeltà senza incertezze alla Legge divina con la libertà gioiosa dei figli di Dio?
Molti problemi sorgono quando solleviamo dilemmi superflui o riduciamo la realtà a stereotipi dialettici. Fedeltà o creatività, ortodossia o libertà, dottrina o vita... Penso che dobbiamo vivere con un atteggiamento integratore che è sicuramente molto cristiano. La realtà non si lascia ingabbiare in uno schema escludente, ma ci richiede un equilibrio, una ponderazione, una integrazione che finisce per risultare molto positiva anche nelle relazioni tra persone.
In realtà la dialettica genera cortocircuiti. Dobbiamo guardare le cose attraverso un prisma più integratore. A lei piace Beethoven: come seguire la partitura sul filo di una propria interpretazione?
Ritengo perfettamente compatibile la fedeltà alla dottrina con l’apertura alle ispirazioni dello Spirito. La storia della Chiesa lo conferma: senza perdere la sua identità, è una novità permanente. In questo contesto, considero importante la libertà di spirito, che, evidentemente, non consiste nell’assenza di obblighi e di impegni, ma nell’amore. È ciò che sant’Agostino espresse nella famosissima frase «Ama e fa’ quello che vuoi», o come scrisse san Tommaso d’Aquino in un linguaggio diverso: «Quanta più carità uno ha, tanta più libertà avrà».
Allora, fedeltà creativa vuol dire vivere la libertà di amare volendo aprirsi alla verità perenne dello Spirito...
Infatti, i modi di dire e di fare cambiano, ma il nucleo, lo spirito, rimane inalterato. La fedeltà non proviene mai da una ripetizione meccanica, ma si concretizza quando riusciamo ad applicare lo stesso spirito a circostanze differenti.

La fedeltà non proviene mai da una ripetizione meccanica, ma si concretizza quando riusciamo ad applicare lo stesso spirito a circostanze differenti
Questo obbliga, alcune volte, a conservare ciò che è accidentale; ma in altri casi induce a cambiarlo. In tal senso, il discernimento sereno e aperto alla luce dello Spirito Santo è fondamentale; soprattutto per conoscere i limiti (a volte non evidenti) tra ciò che è accidentale e ciò che è essenziale.

Un altro rischio della presunta ipertrofia dello zelo dottrinale nella nostra Chiesa è la proliferazione di anime immerse in un razionalismo che rifiuta la dimensione sensibile nella relazione personale con Dio: come se vivere la fede con il cuore equivalesse a cadere nel sentimentalismo. Come fisico, se la sentirebbe con usare una equazione per crescere nell’intimità con Dio?

Gli anni di studio di teologia, la vicinanza a determinate persone, mi hanno indotto ad apprezzare molto la luce della fede anche per l’esercizio della ragione. Ma sempre senza sottovalutare l’importanza della dimensione sensibile, del cuore, delle emozioni, che sono profondamente umane. Il nostro Dio è sempre vicino: e nell’Eucaristia Gesù è particolarmente vicino all’intimità del nostro cuore.

Una delle sfide più provocatorie che ci propone l’epoca in cui viviamo consiste nel riconsiderare il fecondo valore del silenzio. L’Opera è esperta nel formare cristiani chiamati a vivere in presenza di Dio in mezzo al mondo. Forse un accorgimento ce lo ha suggerito san Josemaría quando ci ha invitati a introdurci nel Vangelo, sorgente inesauribile di sapienza e di pace, come uno dei tanti personaggi. Come è possibile toccare Gesù vivo, oggi e ora?
San Josemaría, consigliando di introdurci nei racconti del Vangelo come uno dei tanti personaggi, trasmetteva una sua esperienza personale. Dio gli concesse una fede viva nell’incarnazione, dalla quale nasceva un amore ardente per nostro Signore, per seguire le orme del suo passaggio sulla terra e per considerarlo un modello.
Cristo, pur essendo Dio, e vivendo come uomo tra gli uomini, che cresce e si educa, vive in una famiglia, lavora, ha alcuni amici, s’intrattiene con i vicini, soffre e piange... Ci mostra il valore che tutto ciò che è umano ha agli occhi di Dio e che perciò la nostra vita comune, se unita a Lui, acquista un valore divino.

possiamo toccare Gesù vivo in tutte le occasioni dell’esistenza ordinaria. Soprattutto nei luoghi privilegiati della presenza del Signore: nei bambini, nei poveri, nei malati...

Così possiamo toccare Gesù vivo in tutte le occasioni dell’esistenza ordinaria. Soprattutto nei luoghi privilegiati della presenza del Signore: nei bambini, nei poveri, in coloro nei quali Egli ha voluto identificarsi in modo particolare; nei malati, quelli che il Papa chiama «la carne sofferente di Cristo»; e in un modo ancora più intenso, come dicevo prima, nell’Eucaristia.
L’Opus Dei gode di una immagine di forte unità, e questo è meritorio. Tuttavia, certe volte non si nota la pratica di una sana autocritica. Le sue prime parole scritte ai fedeli dell’Opera riguardavano la quantità di opere buone (e reali!) fatte insieme. Mi chiedo se parlare soltanto di ciò che di buono e dell’ideale (e capisco che sia necessario farlo) forse può generare un terreno fertile all’autocompiacimento o può indurre all’idealismo di confondere ciò che si desidera essere (il carisma divino) con ciò che in realtà si è (assai spesso, il povero agire umano).
L’autocompiacimento è sempre un pericolo per chi desidera operare bene. Nell’Opus Dei, come dappertutto, dobbiamo essere vigilanti anche in vista di tale pericolo. Come dicevo prima, ho lavorato vicino a don Javier Echevarría per più di 20 anni. Egli era solito ripeterci che nell’Opera noi non siamo né ci sentiamo superiori a nessuno, perché ognuno è capace di qualsiasi cattiveria.
Però non è sufficiente l’umiltà personale; esiste anche una umiltà collettiva, istituzionale, che ha molte manifestazioni: nel modo di parlare, nell’ammirazione sincera per gli altri… Perciò, quando riconosciamo le opere buone, è per rendere grazie a Dio, che è Colui che ce le concede, e non per fare bella figura. Chiedo a Dio che ci liberi dall’autocompiacimento, dal quale spesso don Javier ci metteva in guardia, seguendo anche in questo san Josemaría.

Chiedo a Dio che ci liberi dall’autocompiacimento, dal quale spesso don Javier ci metteva in guardia, seguendo anche in questo san Josemaría.

In tal senso, a me sembra un’espressione molto bella quella che utilizza quando parla dell’Opus Dei come di una piccola parte della Chiesa. Le famiglie ecclesiali, immaginate dallo Spirito Santo, alle volte corrono un rischio: dalle mie parti si dice non vedere al di là del proprio naso, vale a dire, vivere nella miopia del culto verso l’istituzione, verso il proprio carisma, verso il fondatore... Come si può evitare di promuovere il marchio della casa, anteponendo il volto di Dio e l’unità con la Chiesa?
L’espressione piccola parte della Chiesa è di san Josemaría, che ricorreva al diminutivo tipico del suo linguaggio aragonese per esprimere il tono affettivo con cui la impiegava. La tentazione dell’auto-referenzialità è sempre in agguato per tutti. A volte per un eccesso di entusiasmo, a volte perché non si conoscono altre realtà o per una punta di vanità. San Josemaría ci ha voluto prevenire da questo pericolo ricordandoci spesso che l’Opera esiste soltanto per servire la Chiesa come la Chiesa vuole essere servita. Se servire la Chiesa – espressione necessaria dell’amore di Cristo – sarà sempre una realtà nella vita di ciascuno, andremo bene.
Mi domando se certe volte preghiamo per l’unione delle religioni e dimentichiamo l’ecumenismo intra-ecclesiale. Un esempio: la famiglia è una delle grandi vittime della nostra società e, purtroppo, della nostra Chiesa. In Spagna, se hai una famiglia numerosa, accade spesso che ti domandino: «Sei dell’Opus o dei Kikos?». Però molti cristiani comuni hanno l’impressione che sia gli uni che gli altri vadano per conto loro. Come ottenere che, rimanendo ognuno fedele ai doni ricevuti, impari ad amare la ricchezza degli altri come frutto della diversità dell’azione di Dio?
Per amare, prima occorre conoscere. Molte divisioni o molti malintesi in seno alla Chiesa si spiegano con la mancanza di conoscenza. E si risolverebbero in buona parte avvicinandosi di più alla realtà.
Inoltre, amare Cristo vuol dire amare tutti, specialmente coloro che in un modo o nell’altro dedicano la loro vita al servizio del Vangelo. Anche la gioia è un ponte sincero che unisce le persone al di là delle differenze.
A proposito del conoscersi (prima di tutto il prossimo nella fede), facciamo un’ipotesi. Che cosa succederebbe se si organizzasse tutti insieme una iniziativa? Per esempio: che cosa succederebbe se un evento familiare fosse organizzato da Neocatecumenali e da fedeli dell’Opus Dei, o che la gioventù studentesca di Comunione e Liberazione partecipasse a un congresso UNIV, o si desse vita a un atto interreligioso, gomito a gomito con i Focolarini?
Noi cattolici corriamo il rischio, come avverte Papa Francesco, di ridurre l’apostolato a strutture, attività o eventi, che in molti casi non sono particolarmente efficaci per arrivare al cuore e alla testa di persone che non conoscono Cristo.
Nell’Opera il punto centrale consiste nell’impartire una buona formazione cristiana, in modo che ognuno operi con libertà e iniziativa, individualmente. Questi eventuali incontri di cui lei parla, qualche volta potranno essere utili, e di fatto certe volte avvengono, in particolare quando sono il Papa o i vescovi a prendere l’iniziativa.

Nell’Opera il punto centrale consiste nell’impartire una buona formazione cristiana, in modo che ognuno operi con libertà e iniziativa, individualmente

Ad ogni modo, a me sembra che oltre a fare riunioni, soprattutto dobbiamo incontrarci nei luoghi dove ciascuno svolge la propria attività abituale: nell’ambito del lavoro, dell’educazione, della cultura, dell’imprenditoria, della politica. Lì stanno già lavorando cattolici di differenti sensibilità e noi possiamo collaborare in innumerevoli iniziative di evangelizzazione: con senso ecumenico, a braccetto con altri cristiani, e con spirito aperto, insieme con molte altre persone di buona volontà.

Il prossimo sinodo della Chiesa sarà dedicato alla vocazione dei giovani, un tema sul quale è sorta una polemica con l’Opus Dei. Un benintenzionato zelo apostolico è riuscito, forse e talvolta, a forzare alcune decisioni di donazione e trasformare la missione in un’attività dalla quale bisogna ottenere dei risultati. Se è stato così, come si potrà evitare che succeda nuovamente? Sarebbe fecondo superare il proselitismo e promuovere un apostolato del contagio?
Benedetto XVI e Francesco si sono riferiti al proselitismo nel significato negativo che ha acquisito negli ultimi tempi, specialmente in ambito ecumenico, e hanno spiegato molto bene in che cosa consiste l’apostolato cristiano.
Naturalmente il significato con il quale san Josemaría impiegava il termine proselitismo non era quello negativo; è sempre stato un deciso difensore della libertà. Può darsi che certe volte alcuni abbiano commesso gli errori che lei ricorda. Mi viene ora in mente, fra tante manifestazioni pratiche dell’amore di san Josemaría alla libertà, un piccolo particolare, che io però considero molto significativo. Quando una madre gli chiese di benedire il bambino che portava in grembo, la benedizione fu questa: «Perché sia molto amico della libertà».

Quando una madre gli chiese di benedire il bambino che portava in grembo, la benedizione fu questa: «Perché sia molto amico della libertà»

Forse l’obiettivo potrebbe essere che gli altri si domandino: «Da che cosa nasce la gioia e l’amore che provano queste persone?».
Infatti, non si tratta tanto di fare apostolato, quanto di essere apostoli. Per questo ripeto che la testimonianza è assolutamente necessaria. Però questo non esclude ma richiede la positiva trasmissione del Vangelo, la proposta della sequela di Gesù che nasce dall’amore agli altri e, di conseguenza, con un pieno rispetto della intimità e della libertà. In questo, come in tutto, l’esempio di Gesù è luminoso e decisivo. Non solo «passò da questo mondo facendo il bene», ma inoltre fu esplicito e molto diretto nelle sue proposte concrete: «Seguimi», «Convertitevi e credete al Vangelo».
L’Opus Dei è diventato un punto di riferimento per il suo investimento nell’educazione a tutti i livelli e in tutti i continenti. Come si vive nel mondo senza essere mondani? A volte, in alcune imprese sostenute da istituzioni religiose penetra la logica del successo e finiscono in primo piano la meta dell’eccellenza o i meriti tangibili premiati dal ranking. Come evitare di finire con l’oscurare la missione autentica: mostrare sempre più e sempre meglio la bellezza del volto di Dio?
Prima mi riferivo al pericolo degli stereotipi dialettici. Penso che quando alcune persone dell’Opus Dei istituiscono delle scuole, aspirino a far sì che siano eccellenti dal punto di vista professionale e, nello stesso tempo, che si dia una eccellente educazione cristiana, sempre rispettando la libertà degli studenti e delle loro famiglie.
Non soltanto non esiste una contrapposizione, ma lo spirito cristiano richiede l’integrazione. Da un’altra angolazione, si tratta di confermare con le opere che il fatto di essere cristiano non ammette alcuna negligenza sul piano umano, ma tutto il contrario.

si tratta di confermare con le opere che il fatto di essere cristiano non ammette alcuna negligenza sul piano umano, ma tutto il contrario

Temo di non essere riuscita a esprimere bene il mio pensiero. Non si tratta di «o successi umani o mostrare Dio». Né mi riferivo specificamente agli apostolati dell’Opera. Viviamo in un clima di laicismo belligerante nel quale è facile pensare che nominare Dio è pericoloso ed è meglio metterlo da parte o finiremo con l’apporlo come un falso adesivo. Come affrontare la sfida di parlare di Lui con naturalezza, con passione, senza complessi, come l’amore benedetto che sostiene la nostra vita e le nostre imprese?
È vero, abbiamo la sensazione di vivere in tempi di insicurezza; ma, nello stesso tempo, si sente un gran desiderio di cambiamento. Il nostro mondo sembra allontanarsi da Dio, eppure si nota una grande sete spirituale...; sono in corso numerosi conflitti, mentre constatiamo un grande desiderio di pace. L’azione di Dio si realizza oggi e ora, nei tempi che ci è toccato di vivere, e magari ci aprissimo a essa! Quando alcuni pensatori dicono che nella nostra società le relazioni interpersonali si sono liquefatte, e mettono l’accento sul nostro naufragio nell’effimero e nella superficialità..., tutto questo non può riempirci di pessimismo e di amarezza, ma ci deve spronare a contagiare la gioia del Vangelo.

Probabilmente uno dei primi passi sarà quello di ammettere che non importano tanto i numeri quanto la grazia. Se viviamo un cristianesimo di minoranza, ma con la fede invincibile di un granello di senape...
Sono convinto che una delle sfide più importanti della Chiesa di oggi è dare speranza a ogni persona, specialmente ai più giovani, alle famiglie in difficoltà o che si disuniscono e alla vittime della povertà (non soltanto materiale, ma tante volte dovuta alla solitudine o al vuoto esistenziale).
Affrontare questa sfida, tenendo presente i nostri limiti personali e i nostri peccati, è possibile soltanto rivivendo nello sguardo misericordioso di Gesù e pregandolo di inviarci a portare il suo amore ai nostri contemporanei.

Sono convinto che una delle sfide più importanti della Chiesa di oggi è dare speranza a ogni persona

La Chiesa ha voluto per l’Opera la formula di una prelatura personale al servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Non poche volte, però, viene considerata una realtà extra-diocesana. Pur non essendo numerosi, molti sacerdoti della prelatura stanno cercando di mitigare la scarsezza di sacerdoti diocesani. Ma in termini pratici, il fatto che i fedeli della prelatura abbiano nei propri centri i mezzi di formazione, le confessioni, le attività apostoliche..., può far pensare che vivano al di fuori della vita quotidiana della parrocchia. Come si può affrontare la sfida di essere pietre vive (inserite e non appoggiate) nella struttura della Chiesa?
Forse su questo punto succede che, quando si parla dell’Opera, si pensa soprattutto ai sacerdoti della Prelatura o ai numerari. Però la maggioranza dei fedeli dell’Opera sono soprannumerari, che partecipano attivamente alla vita delle loro parrocchie, nella misura delle loro possibilità (tenuto conto dei loro doveri lavorativi e familiari). Non sempre è facile avere tempo, e ognuno fa quello che può.
D’altra parte i sacerdoti della Società della Santa Croce sono sacerdoti diocesani pienamente dediti alle attività pastorali delle loro diocesi. Secondo me, con il passare del tempo, sarà più chiara a tutti questa dimensione ecclesiale, oggi forse meno conosciuta.
A volte non ci ricordiamo che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo; e che ciascuno, attraverso la propria vocazione, contribuisce al fiume di grazia mediante la comunione dei santi. Però mi chiedo se un’altra delle grandi sfide della nostra Chiesa sia che le parrocchie si arricchiscano di più e meglio con i carismi che va suscitando lo Spirito Santo. Temo che occorra uno sforzo da entrambe le parti per superare alcuni pregiudizi, andando incontro l’uno all’altro.
In questo senso, può aiutarci un cambiamento di atteggiamento. Invece di contabilizzare che cosa fa ognuno, ringraziamo il Signore perché tutti ci diamo da fare. Nella prima lettera che ho scritto da prelato penso di essere stato chiaro al riguardo: «Sarà bene continuare a utilizzare le occasioni di invitare alcuni fedeli della Prelatura, cooperatori e gente giovane, a offrirsi per collaborare, con piena libertà e responsabilità personali, nella catechesi, nei corsi prematrimoniali, nei lavori sociali, nelle parrocchie o in altri posti dove c’è bisogno di loro, purché si tratti di servizi che concordano con la loro condizione secolare e mentalità laicale, e senza che in questo dipendano dall’autorità della Prelatura. D’altra parte, voglio fare una menzione speciale delle religiose e dei religiosi, che tanto bene hanno fatto e fanno alla Chiesa e al mondo. “Chi non ama e venera lo stato religioso non è un buon figlio mio”, ci insegnava nostro Padre. Mi rallegra, inoltre, pensare a tanti religiosi, oltre ai sacerdoti diocesani, che hanno visto fiorire la loro vocazione al calore dell’Opera».
Mi viene in mente, anche, una cosa che spesso viene contestata all’Opera, un aspetto della sua pratica pastorale: il fatto, tanto efficace e, a volte, necessario che uomini e donne stiano separati. È un aspetto del carisma fondazionale? Forse appare antinaturale perché non ammette eccezioni? All’esterno può essere considerata una disposizione che soffoca le iniziative sane che nascono naturalmente e/o che favoriscono la convivenza dei giovani, la condivisione spirituale delle coppie di coniugi...
Nell’Opera la separazione tra donne e uomini si limita ai mezzi di formazione, ai centri in cui si impartiscono, alla organizzazione dei diversi apostolati. In questi casi la separazione è un tratto del carisma originale, che ha ben sperimentati motivi pastorali, anche se comprendo che alcune persone non lo condividano e preferirebbero altre modalità, ugualmente legittime.
A parte questi mezzi di formazione, vi sono moltissime attività alle quali partecipano donne e uomini: corsi per coniugi o per fidanzati, sessioni per padri e madri di famiglia nei club giovanili, iniziative di parrocchie tenute da sacerdoti della Prelatura, ecc. Per non parlare delle innumerevoli attività informali che nascono dalla stessa iniziativa e creatività delle famiglie.
L’importante, a mio parere, è che uomini e donne sposati ricevano la formazione come un aiuto per rafforzare la loro unione coniugale e la loro famiglia. Con questo intento vengono loro offerti i mezzi di formazione dell’Opera.
Viviamo tempi difficili e al tempo stesso appassionanti. Penso a quei posti dove la Chiesa è perseguitata. Anche lì, tra i “missionari” del XXI secolo, vi sono molti spagnoli dell’Opus Dei che annunciano Dio. Nella vecchia Europa viviamo come se fossimo anestetizzati. Come lenire il martirio di tanti nostri fratelli che stanno donando la loro vita per Cristo?
Prima di ogni altra cosa, aiutandoli con la preghiera. Non riusciamo ad abituarci a queste notizie che, purtroppo, sono di ogni giorno. San Josemaría, che partecipava vivamente di tutto ciò che riguardava la Chiesa, denunciava la «cospirazione del silenzio» che pesava sui cristiani perseguitati, in particolare su quelli che in quegli anni vivevano al di là della cortina di ferro. Allora chiese alle persone dell’Opera – e penso che sia un consiglio valido per tutti i cattolici – di controbilanciare il silenzio con l’informazione, facendo conoscere quello che succede ai cristiani perseguitati, aiutandoli anche secondo le nostre possibilità. La chiave è l’informazione, perché far conoscere la realtà può spingerci ad aiutare più generosamente e attivamente.
Qualche volta abbiamo la sensazione di vivere in un mondo orfano di madre. Che cosa ha chiesto alla Madonna nel suo viaggio a Fatima?

La chiave è l’informazione, perché far conoscere la realtà può spingerci ad aiutare più generosamente e attivamente

Alla sua materna presenza cercavo di ripassare alcune sfide di questo nostro mondo, tanto complesso quanto appassionante. Le chiedevo la grazia di portare a tutti il Vangelo nella sua purezza originale e, allo stesso tempo, nella sua luminosa novità. In un messaggio successivo ai miei figli, scrivevo una cosa che penso possa servirci: «La chiamata a che ognuno di noi, con le sue risorse spirituali e intellettuali, con le sue competenze professionali o la sua esperienza di vita, e anche con i suoi limiti e difetti, si sforzi di stabilire in che modo può collaborare di più e meglio al compito immenso di mettere Cristo in cima a tutte le attività umane. Per questo è necessario conoscere a fondo il tempo in cui viviamo, le dinamiche che lo attraversano, le potenzialità che lo caratterizzano e i limiti e le ingiustizie, talora gravi, che lo affliggono. Soprattutto è indispensabile la nostra unione personale con Gesù, nell’orazione e nei sacramenti. Così potremo rimanere disponibili all’azione dello Spirito Santo, per bussare con carità alla porta del cuore dei nostri contemporanei».
Penso che queste parole possono chiudere felicemente una conversazione nella quale avrei voluto affrontare anche altri temi. Però bisogna chiudere qui. La ringrazio di cuore per il tempo che ci ha dedicato. Grazie per la sua franchezza e per non aver rifiutato alcune domande scomode. Grazie per aver cercato di “gettare ponti”.
Anch’io la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato. Inoltre, è stato meraviglioso parlare in un clima di libertà, di apertura e di affetto, nel quale s’impara sempre gli uni dagli altri. Sono contento che mi abbia posto alcune domande che forse potrebbero sembrare inopportune, ma che ci hanno permesso di trattare alcuni aspetti interessanti e che, dopotutto, erano motivate da un retto e sincero desiderio di cooperare alla diffusione della verità. Nel dire questo, mi viene in mente una frase della terza lettera di san Giovanni: «Cooperatori della verità», che Joseph Ratzinger scelse come motto episcopale.
Mi viene voglia di ringraziare Dio e anche la sua dedizione nel guidare spiritualmente migliaia di persone di ogni razza e condizione, di ogni parte del globo. Abbiamo bisogno che tutti continuino a costruire, con la gioia del Vangelo, le famiglie, la Chiesa e questo nostro benedetto mondo. Auguriamoci che ogni lettore di questa intervista decida di rivolgere a Dio preghiere affinché lei possa compiere fedelmente la sua missione.