“La bellezza disarmata”: la presentazione del libro

L’incontro di presentazione del libro di don Julián Carrón “La bellezza disarmata” è avvenuto il 20 giugno al Teatro Manzoni a Monza. La serata ha previsto gli interventi, tra gli altri, di don Matteo Fabbri, Vicario della Prelatura dell’Opus Dei per l'Italia, e di don Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Riportiamo il testo di don Matteo Fabbri.

Ci sono nella vita delle amicizie in cui non si riesce ad incontrarsi di frequente, pur desiderandolo. Se l’amicizia è profonda, può accadere qualcosa di straordinario: quando ci si vede, pur di rado, si ha l’impressione di proseguire un dialogo che non si è mai interrotto, di riprendere il discorso esattamente dove lo si era lasciato magari addirittura anni prima: vi è una consonanza interiore che, nonostante la scarsa frequentazione, si è mantenuta. Leggendo il libro di don Julián ho sperimentato una sensazione simile: una consonanza di vedute, di contenuti, di punti di vista davvero notevole; e questo ovviamente ha suscitato molte riflessioni e molti pensieri.

E qui viene il difficile: ho trovato spunti e stimoli di riflessione praticamente ad ogni pagina, e questo avrebbe rischiato di attribuire una tonalità “drammatica” all’incontro di questa sera: anche solo elencare le cose che più mi hanno colpito richiederebbe molto tempo, troppo tempo.

Un filo rosso conduttore

Ho tentato allora una strada diversa: quella di chiedermi se fossi in grado di trovare un filo rosso che in qualche modo potesse ridurre ad unità le diverse parti del libro e così anche i miei pensieri in merito.

Ovviamente è una mia interpretazione, che certamente deve molto, e non potrebbe essere diversamente, alla mia storia personale. Inevitabilmente vi proporrò delle coincidenze con la mia esperienza, e in particolare dei parallelismi tra gli insegnamenti di don Giussani e quelli di san Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei: che i santi si assomiglino tra loro non è affatto strano: non sarebbero santi se non si fossero identificati con Cristo, pur seguendo ciascuno il proprio carisma e la propria strada.

Tornando al libro formulo questo tentativo interpretativo: a mio avviso l’intero volume può essere ordinato intorno alla seguente espressione: un carisma nella storia. Cerco di spiegarmi.

Tra le dense righe di Carrón emerge una presenza indiscussa, ed è quella di don Giussani: è giusto e doveroso che sia così e tutti ringraziamo l’Autore per questo. In particolare mi colpisce il fatto che molte delle frase citate del fondatore di CL conservano oggi, come nel momento in cui furono pronunciate o scritte, la stessa forza espressiva.

Faccio un esempio tra i tanti possibili. Nel capitolo dedicato all’allargamento della ragione, è riportata la frase seguente: “C’è un’unità profonda, c’è una relazione organica fra lo strumento della ragione e il resto della nostra persona. L’uomo è uno, e la ragione non è una macchina che si può disarcionare dal resto della personalità per farla agire da sola come il meccanismo a molla di un giocattolo. La ragione è immanente a tutta l’unità del nostro io”.

Frase che propone un rimedio valido negli anni settanta come oggi. Sia di fronte alla ipertrofia di una ragione che (allora) si presumeva forte, come un colpo di coda delle ideologie moderne, sia oggi, di fronte alla diversa ipertrofia, di segno opposto: l’ipertrofia dell’irrazionale e del sentimento, che spopolano alimentati dal nichilismo e dalla “noia” della post-modernità (o “dopo-modernità”). Oggi come allora il rimedio sta nell’unitarietà del soggetto, che si può conquistare solo attraverso la ragione pensata nell’unità della persona.

Siamo di fronte ad un pensiero che ci stimola oggi come quarant’anni fa.

Non una idea brillante ma un carisma

Ma se è così, se cioè la stessa espressione vale ed è feconda quanrant’anni fa e oggi, allora non siamo di fronte soltanto ad un’idea particolarmente brillante o sagace, siamo di fronte ad un carisma, in senso proprio. È un’irruzione dello Spirito Santo, un dono che don Giussani ha ricevuto per l’edificazione della Chiesa più di 60 anni fa, e in quanto tale esso è fecondo anche oggi, e lo sarà sempre. E’ questa forza che proviene dallo Spirito Santo che è fonte inesauribile di luce e di ispirazione. Ne viene uno sguardo che resiste al tempo. E questo sguardo non è quello di un visionario: è lo sguardo di un profeta. Di una persona che ha fatto suo, per grazia, lo sguardo “dall’alto”, lo sguardo di Cristo. A questo proposito non posso far a meno di ricordare che – sempre negli anni settanta, poco prima della sua morte - san Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, in un momento in cui apriva il suo cuore nella preghiera davanti al Tabernacolo, alla presenza di alcuni suoi figli spirituali, ebbe a dire: “Non ci vedo a un metro di distanza (si riferiva alle cataratte che riducevano alquanto la sua capacità visiva) e debbo intravedere il futuro!” E concludeva, rivolto al Tabernacolo: “Che io veda con i tuoi occhi, Gesù mio!”. I santi, specialmente i santi fondatori, hanno una singolare capacità di vedere con lo sguardo di Dio, dalla parte di Dio. Per questo le loro parole, la loro vita, il loro esempio è qualcosa di vivo e di perennemente stimolante per noi. E questo è verissimo per tutte le espressioni di don Giussani disseminate nel libro, perché è stato vero per la sua vita intera.

Sguardo sempre “nuovo” dunque. Ma oltre a questo anche forza carismatica nuova, sempre rinnovata. E’ una forza che ancora oggi ci interpella, ancora oggi “funziona”, ancora oggi è in grado di condurci ad un incontro personale, vivo e profondo con il Mistero.

Ogni autentico carisma non solo sa misurarsi con un mondo che cambia, ma è fatto proprio per incarnarsi in un mondo che cambia, nella storia, perché lo Spirito è vita. O, detto diversamente, lo Spirito Santo che assiste e vivifica la Chiesa nel passare dei secoli si serve proprio dei carismi…e di alcune persone, coloro che li ricevono.

Ma il carisma è sempre per l’edificazione, per la Chiesa intera. Ed è destinato a trasmettersi (traditio) di generazione in generazione.

E quindi accogliere, ricevere e trasmettere un “carisma nella storia” vuol dire riconoscere i segni dei tempi, ma senza adagiarsi pigramente sui sedili del treno della storia, in nome di un “aggiornamento” alla moda, destinato a cadere in disuso nel giro di pochi anni. Carisma nella storia vuol dire saper rispondere sempre alle esigenze e alle istanze che il dramma della vita degli uomini e delle donne di oggi (e non solo di ieri) pongono. Magistralmente lo ha espresso J. Ratzinger in Dogma e predicazione, a proposito della fedeltà della Chiesa stessa alla Parola: “La Chiesa non può permettere che la parola si perda nelle chiacchiere di una persona qualunque, nelle parole dei tempi che cambiano, ma la deve conservare nella sua immutabile identità. Ma perché la parola sia conservata, la Chiesa deve viverla, deve soffrirla. Deve sottoporre le forze vitali di un’epoca al giudizio di questa parola, ma deve anche mettere a disposizione della parola una nuova vita, carne e sangue umani. Limitarsi puramente a conservare sarebbe scansare la sofferenza e non sarebbe certo portare la parola nel tempo presente: tra una mummificazione ed una volatilizzazione la Chiesa deve trovare la strada per essere al servizio della parola e, partendo dalla parola, creare l’unità dei tempi: passato, presente e futuro”[1].

A mio avviso queste parole si applicano ad ogni carisma.

Donde viene questa forza carismatica? Dallo Spirito Santo, abbiamo detto. Che è Spirito del Figlio, ed ecco un’altra caratteristica evidente, che infatti percorre tutte le pagine del libro: il richiamo all’evento di Gesù Cristo. Tutto prende forma intorno a questo, tutto è riferibile a questo, tutto è misurato da questo, tutto è vissuto in Cristo. “All’inizio dell’essere cristiano, come dice Papa Benedetto all’inizio della Deus Caritas est con parole giustamente care a ciascuno di noi, non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). E allora è chiara la sfida di oggi: noi (nel senso più forte del termine: sia “ciascuno di noi”, sia il “noi” che è la Chiesa) siamo chiamati a rendere oggi presente e visibile attraverso la nostra testimonianza di vita, Cristo stesso. Questo è ciò a cui chiama un carisma nella storia. E questa è la fedeltà al carisma nella storia.

Dunque la fedeltà al carisma ricevuto, incarnare un carisma o uno spirito nella storia, nella propria storia, è, in ultima analisi, fedeltà a Cristo, Via, Verità e Vita.

Livio Melina, in un bell’articolo di commento alla Evangelii gaudium di Papa Francesco ha ripescato un sagace detto medievale, secondo il quale la stessa domanda di Pilato “quid est veritas?” contiene, attraverso un anagramma, la risposta: “est vir qui adest[2]. La Verità, lo sappiamo bene, non è un’idea e tanto meno un sistema di pensiero e neppure una realtà astratta: è Cristo stesso, Via, Verità e Vita. E il cristiano è chiamato in quanto tale (ovvero in quanto battezzato, prima di ogni ulteriore ed eventuale successiva consacrazione) ad essere alter Christus, ipse Christus, un altro Cristo, lo stesso Cristo, come piaceva ripetere al fondatore dell’Opus Dei.

Gli uomini liberi e la realtà

Bellissime le pagine in cui Carrón ci ricorda che “il Cristianesimo deve mettere sul palcoscenico del mondo uomini liberi, lo spettacolo di uomini liberi dentro la realtà (…) E’ questo uomo libero che rende testimonianza a Cristo” (p. 207). Questa è la grande sfida dei cristiani di oggi: che “si veda” che quella vita, quell’esistenza quotidiana ha un centro gravitazionale, ha un senso indiscusso: Cristo.

Ma uno dei mali che ancora oggi rischia di rendere inefficace tutto questo discorso è il clericalismo: l’idea in base alla quale solo alcuni sarebbero i veri protagonisti della storia della salvezza. Ma non è così: siamo tutti noi, in quanto battezzati, ad essere Cristo. Se volete, è la tentazione gnostica di cui Papa Francesco ha parlato a Firenze: solo alcuni, detentori di chissà quale sapere superiore, potrebbero elevarsi alle altezze dello spirito. No: la santità è per tutti. Ma non per via di banalizzazione, ma per via di contagio vitale.

Serve la testimonianza viva (gestis verbisque, con la vita e con le parole, come dice la Dei Verbum a proposito della Persona stessa di Cristo che così è la pienezza della Rivelazione) del padre di famiglia, della casalinga, del professionista, dello studente, della parrucchiera, dell’impiegato statale, del politico, del maestro, dell’educatore. È ciascuno di noi (personalmente) e siamo noi (comunitariamente) a fornire la testimonianza della bellezza che attrae. Testimonianza che è insieme personale e comunitaria, secondo la bellissima espressione di Von Balthasar: “Non vi è nulla di privato nella comunione dei santi perché tutto è personale”[3].

C’è un passo di san Paolo che cito spesso e che mi piace molto: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.” (2Cor 3, 17 – 18). La nostra vita di cristiani maturi, di uomini liberi, brilla, risplende di una luce che è la stessa che promana dal Volto del Risorto!

Un camionista stava uscendo da un paesino al volante del suo mezzo e vede una persona con una valigia al bordo della strada che fa l’autostop. Si ferma. Quello chiede: “E’ solo?”. E il camionista dice: “Beh, sì, sì, salga pure”. Ripreso il viaggio, comincia una conversazione; e dopo un po’ quello che era salito chiede: “Mi scusi, ma come mai quando un momento fa le ho chiesto se era solo ha esitato? Qui non c’è nessuno!”. E il camionista: “Vede: io non sono mai solo, perché so che sono figlio di Dio e al centro del mio cuore c’è sempre la Trinità intera: la compagnia non mi manca!”. E l’altro, colpito… “Mi scusi: si fermi, per favore. Voglio tornare indietro: sono il parroco del paese e stavo scappando…”.

Carisma nella storia, che si fa storia: che diviene la mia storia. Questa è la logica della storia cristiana, che è una storia vera, fatta di decisioni libere, di persone che sanno assumere in pieno la responsabilità, perché fanno della propria vita una libera risposta a Dio che ci viene incontro in Cristo (nella Chiesa). La libertà (bellissimo il capitolo a questo dedicato) non è mera autonomia, assenza di vincoli e di legami, è libertà filiale (e dunque radicata in un legame); è libertà “responsoriale”, fatta per rispondere all’iniziativa di amore di Dio, che si allarga poi nell’uscita da se stessi nel dono di sé (amore) e raggiunge così la comunione con Dio e con i fratelli. Libertà che si realizza non nell’autodeterminazione ma nel dono di sé, nell’amore. Alle sterili contrapposizioni tra “libertà da” (da vincoli, da condizionamenti) e “libertà per”, noi possiamo proporre la chiave trinitaria della libertà: “libertà da” (ricevuta da Dio, dal Padre), “libertà per” (per il dono di sé, il servizio e la dedizione “fino alla fine”, come il Figlio), e “libertà con”, ovvero libertà che sa di aprirsi costantemente alle relazioni nelle quali e dalle quali viviamo. Questa è, con una frase di san Josemaría che sono certo don Giussani avrebbe sottoscritto, la libertà santa dei figli di Dio: “Quanto sono grandi l'amore, la misericordia di Dio nostro Padre! Di fronte all'evidenza delle sue 'divine pazzie' per i suoi figli, vorrei avere mille bocche, mille cuori, e più ancora, per poter vivere in continua lode a Dio Padre, a Dio Figlio, a Dio Spirito Santo. Pensate che l'Onnipotente, colui che con la sua Provvidenza regge l'Universo, non vuole dei servi forzati; preferisce avere dei figli liberi”[4].

Carisma che si fa storia in me, in noi, oggi. Che passa attraverso la mia carne, la mia vita, la mia libertà. E che soltanto così sa trasmettersi nel compito educativo (a cui sono dedicate le vibranti pagine della terza parte), compito che è riassunto splendidamente dalla celebre frase di Paolo VI: più che di maestri oggi abbiamo bisogno di testimoni (citata a p. 239[5]).

Ma qui la storia si fa, per dir così, drammatica (ed è l’ultimo punto che vorrei trattare): proprio perché è interpellata la mia libertà, proprio perché è coinvolta la mia storia personale, che è storia vera e non di plastica (non siamo burattini, ma figli di Dio!), dobbiamo fare i conti con il nostro peccato e la nostra miseria. Guai se non lo facessimo! Siamo peccatori, siamo un “nulla”. Siamo polvere che, sollevata dal vento può assumere una tonalità dorata a motivo del raggio di sole che l’attraversa, ma polvere resta. Papa Francesco ci indica con insistenza la strada: “Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore. (…) E per questo, alcune volte, voi mi avete sentito dire che il posto, il luogo privilegiato dell’incontro con Gesù Cristo è il mio peccato. È grazie a questo abbraccio di misericordia che viene voglia di rispondere e di cambiare, e che può scaturire una vita diversa”[6].

Vogliamo essere santi

Anche qui un ricordo, di un altro beato, amico fraterno di don Giussani: Mons. Alvaro del Portillo, successore di san Josemaria alla guida dell’Opus Dei. Lo incontrai per caso alla fine del 1989 nella sede centrale dell’Opera a Roma; stavo ripartendo per Milano e gli chiesi che cosa desiderava che dicessi ai suoi figli spirituali di Milano (verso i quali avevo una precisa responsabilità formativa). E lui rispose: siamo in fieri. Siamo peccatori, ma vogliamo essere santi. E, si badi questo “vogliamo” era tutto fuor che un impegno di braccia, uno sforzo volontaristico. Era un abbandono filiale che diventava vita, azione, impegno di coerenza. Siamo peccatori, ma la crescita è continua, non ci fermiamo. Cominciamo e ricominciamo ogni giorno.

Così, nonostante tutto, il carisma si fa storia nella nostra vita, nella vita di ciascuno di noi. Ecco la meraviglia della vita cristiana: non c’è distinzione tra alcuni sapienti e il popolo: tutti, nonostante la nostra debolezza e miseria, possiamo incontrare il Signore e aprire il nostro cuore. La mia storia diviene la Sua storia, perché come dice Montale “l’opera Sua (che nella tua si trasforma) dev’esser continuata”[7].

Termino con alcune parole di san Josemaría, tratte da un’omelia pronunciata a Pamplona, in una Messa celebrata all’aperto, nel 1967: “Il cielo e la terra, figli miei, sembra che si uniscano laggiù, sulla linea dell'orizzonte. E invece no, è nei vostri cuori che si fondono davvero, quando vivete santamente la vita ordinaria...”[8]. Anche questa credo che sia una frase che don Giussani avrebbe certamente sottoscritto.


[1] J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1973, p. 20

[2] L. Melina, “Lo stile della testimonianza cristiana nel dialogo sociale, senso della fede e coscienza morale secondo papa Francesco (Evangelii Gaudium, 255 – 257)”, in PATH 13 (2014), pp. 413 – 427

[3] H. U. Von Balthasar, Credo. Meditazioni sul simbolo apostolico, Jaca Book, Milano 1990, p. 60.

[4] J. Escrivá, Amici di Dio, XI edizione, Ares, Milano 2015, n. 33.

[5] “L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

[6] Discorso al Movimento di Comunione e Liberazione, 7-III-2015.

[7] Iride, ne La bufera e altro.

[8] J. Escrivá, Omelia “Amare il mondo appassionatamente”, in Colloqui con mons. Escrivá, VII edizione, Ares, Milano 2009, n. 116.